Il futuro non è scritto

Il futuro non è scritto

Novembre 2025
Fabio Lisca


“Basta un poco di zucchero e la pillola va giù…” 🎵

Tutte le organizzazioni vogliono diventare agili 

O meglio, quasi tutte. Per essere più precisi, quelle molto grosse, internazionali, multinazionali, a cui l’headquarter ha imposto di diventare agili. Quelle che l’agility gliel’hanno spiegate le grandi, grosse, grasse società di consulenza che, una volta che se ne sono andate, hanno lasciato queste organizzazioni in ‘brache di tela’.

Sì perché le società di consulenza fanno più o meno quello che Phil Abernathy mi raccontò con una barzelletta: un topolino si è perso in un immenso campo di grano e non sa come uscirne. Gira e rigira non riesce a trovare una via di uscita fino a quando scorge l’unico albero su cui era appollaiato un piccione. Il topolino si avvicinò all’albero e chiese al piccione di aiutarlo indicandogli la direzione per uscire dal labirinto di grano. Il piccione ci pensò su a lungo, quindi disse al topolino, “ho un’idea migliore! Disegnerò per te una strategia”. Il topolino sorpreso dall’uscita del piccione ne fu lusingato e accettò l’offerta. Il piccione, quindi, decretò “è semplice, fatti crescere le ali così potrai alzarti in volo e uscire dal campo”. “Fantastico” disse il topolino, “ma come faccio a farmi crescere le ali?”. Il piccione prontamente ribatté “io mi occupo di strategia, l’implementazione sono affari tuoi” e volò via. Una volta volata via la consulenza le aziende si rivolgono agli Agile Coach i quali, di solito, sottolineano e ribadiscono di non essere dei consulenti e quindi di non aspettarsi soluzioni pronte.

Vogliamo diventare un’organizzazione adattiva (ma a quale prezzo?)

L’Agile Coach chiede subito al management team perché l’organizzazione vuole diventare Agile e sa benissimo che hanno letto della ricerca del The Economist e MIT che dichiara che le organizzazioni Agile crescono del 37% più velocemente e fanno il 30% in più dei profitti delle organizzazioni convenzionali.

Se si tratta di aziende di sviluppo software conoscono il CHAOS Report, una ricerca sulla stato dello sviluppo del software a livello mondiale che Standish Group conduce dal 1994 e che negli anni 2000 mise in evidenza che più dell’84% dei progetti software veniva ritenuto un fallimento e che i costi di adattamento sarebbero stati troppo elevati per metterci mano. Inoltre più dell’80% delle funzionalità erano totalmente inutili, non sarebbe mai state utilizzate, ma avrebbero sicuramente rallentato la velocità di funzionamento del software, all’epoca ancora installato sul disco rigido dei PC.

Comunque il management risponde all’unisono perché vogliamo diventare un’organizzazione adattiva.

Fantastico, pensa l’Agile Coach, mentre è intento a sottolineare e ribadire che esistono però dei prerequisiti essenziali. Quali?

Eccoli, li chiamiamo fattori critici di successo, come piace al management:

L’ossessione per il cliente.

Parlo di ossessione non di orientamento al cliente. Il cliente è da dove si parte e dove si finisce. Il cliente stabilisce che cosa ha valore e cosa no. Per capirci cito un esempio. Haier, azienda cinese che fabbricava frigoriferi scadenti per il mercato cinese, risorta nel 1984 orientandosi alla qualità e all’ossessione per il cliente. Quando scoprì che in una regione della Cina erano richieste un eccesso di riparazioni di lavatrici, andò sul posto ad indagare (genchi genbutsu in giapponese: vai a vedere di persona). Scoprì che i contadini usavano le lavatrici per lavare le patate. Al posto di diffidarli da quell’uso poco corretto del macchinario, come avrebbe fatto qualsiasi organizzazione convenzionale con minaccia di sospensione della garanzia e del servizio di riparazione, costruirono una lavatrice apposta per lavare le patate. Oggi Haier è una multinazionale leader mondiale del bianco.

L’autonomia di persone e team.

L’autonomia è un fattore fondamentale nel mindset Lean Agile. Possiamo affermare, in estrema sintesi, che l’agility organizzativa consiste nello spostare decisione e controllo al livello operativo il più basso e delocalizzato possibile. Questo significa autonomia di persone e team. Tutte le aziende estremamente adattive, anche se non si dichiarano agili, ma lo sono di fatto, sanno che senza autonomia di persone e team non si ha responsabilità. Sanno anche che questa autonomia comporta il vincolo di condividere le decisioni con coloro sui quali queste decisioni avranno un impatto per ottenere un miglioramento complessivo che porta vantaggio a tutti. Questo significa creare dei meccanismi perché ciò possa avvenire. Le aziende convenzionali amano la parola empowerment. Ma è un concetto limitante poiché comporta il dare potere a chi non ce l’ha. Comporta la delega e l’autonomia non prevede la delega, prevede di avere il potere.

Slow Down to Go Faster.

Fermarsi per pensare prima, pianificare, preparare ed eseguire velocemente. Poi, di nuovo, fermarsi per riflettere su ciò che si è fatto allo scopo di migliorarlo nella iterazione successiva. Questo implica una ciclicità focalizzata sui problemi e la loro soluzione definitiva risalendo alla causa radice del problema, in piena contraddizione con le organizzazioni convenzionali che evitano i problemi e quando arrivano li risolvono frettolosamente mettendo una bella pezza. Inutile dire che il problema si ripeterà all’infinito creando la figura del ‘pompiere’, molto stimato e premiato in queste organizzazioni. Ma questo atteggiamento inalza il livello della variabilità (mura in giapponese), che causa sovraccarico (muri), che genera sprechi (muda) ed ecco creato il circolo vizioso delle urgenze/emergenze, spesso creato proprio dai ‘pompieri’. Il problema delle organizzazioni convenzionali è che sono orientate esclusivamente al FARE focalizzate sui risultati di output, in questo modo queste organizzazioni si condannano a fare sempre e solo le stesse cose, si condannano a non poter cambiare. “Se avessi a disposizione sei ore per abbattere un albero, ne passerei quattro ad affilare l’ascia” Abraham Lincoln.

La regola 94/6. “Il 94% della variazione nelle performance è dovuto al sistema e solo il 6% al fattore umano” W. Edwards Deming.

Occorre cambiare il sistema, non le persone. La conseguenza è che alle persone deve essere data l’autonomia di cambiare il sistema, quindi i processi, il loro modo di lavorare. Naturalmente vi sono diversi approcci per farlo. Altra conseguenza è che se non cambia la struttura dell’organizzazione nel tempo non cambia il sistema. Quindi bisogna essere consapevoli di questo. Ulteriore conseguenza è che anche il comportamento dei manager cambia e quindi devono essere formati e preparati. Che il miglioramento continuo, alla base delle organizzazioni adattive e fondato sulla focalizzazione sui problemi, è un’attività quotidiana, non una tantum.

No, non basta un poco di metodo

Sottolineato e ribadito tutti questi quattro concetti all’organizzazione che mi ingaggia, ma non ci metto molto a capire che credono fermamente di aver assoldato Marry Poppins e che pensano che i suoi poteri magici saranno in grado di trasformare l’intera organizzazione in un batter d’occhio senza cambiare la struttura dell’organizzazione, senza toccare il comportamento dei manager, senza argomentare sulla costituzione dei team top down, su criteri poco comprensibili e spesso aleatori, senza mettere in discussione gli obiettivi dati ai team dal top manager, senza poter chiedere ai team di fermarsi a riflettere perché il management chiede risultati di output in tempi brevi, senza fare la fase di chartering e costruire l’architettura collaborativa basata sulla sicurezza psicologica, così poco presente nelle organizzazioni convenzionali.

Ed è in quel momento che inizia il ritornello:

Basta un poco di metodo
E Agil diventerai
E Agil diventerai
Basta qualche strumento
E ogni problema sparirà
Basta qualche rituale
E tutto sarà più semplice e seren
Dovrai capir
Che il trucco è tutto qui:
Basta un poco di metodo
E agile diventerai
E l’azienda brillerà di più!’

🎧 Ascolta il podcast Agile Confidential #LessonsLearned su Spotify.

Continua a leggere...


Facile! Da cliente: dal livello di burocrazia che l’organizzazione ti infligge. Anzi peggio. Da quanto ti fa sentire sfruttato

Storia vera di (dis)servizi 

Vi racconto quanto mi è accaduto di recente. Mi sono accorto che i prezzi del fornitore di un servizio, di cui non posso fare a meno, erano più alti dei suoi concorrenti. Ho fatto qualche ricerca e prima di agire ho chiamato uno dei loro rappresentanti che è sempre stato molto disponibile. Infatti mi ha dato delle indicazioni utili. Mi ha detto “invia una lettera di disdetta del contratto e vedrai che ti contatteranno per farti una migliore offerta”. A questo punto agisco, scrivo, invio. Passa qualche tempo che arriva l’offerta. Più del 30% in meno? Accidenti! Solo questo fa venire voglia di cambiare fornitore! Se potevate venire incontro al cliente perché aspettate sempre e solo che sia il cliente a doverlo sollecitare?

Vero è che molti consigliano ogni due anni di cambiare fornitore per ottenere offerte migliori. Ma è un giochino scomodo per un cliente e non induce certo a riconoscere il valore fornito, anzi. Tra l’altro senza nessuna garanzia di qualità del servizio. Poi scopro anche che mi avevano aggiunto un ulteriore servizio, mai espressamente richiesto, di poca spesa ma di nessun valore. Perché?

Perché queste aziende convenzionali sono fondate sul profitto e sullo sfruttamento dei clienti. Peggio, prima di ricorrere al rappresentante ho tentato di navigare il sito per scoprire come ottenere le migliori offerte che campeggiavano proprio nella home page del sito. Impossibile: se sei già cliente le migliori offerte non sono a te riservate (pessima customer experience). Per questo ho pensato di ricorrere al rappresentante e di chiedere consiglio. 

Non è finita. 

Una volta ricevuta la documentazione la firmo e la invio al rappresentante che dopo qualche ora mi chiama per dettagli burocratici da inserire nella documentazione. Ma non sanno già tutto di me? Hanno addirittura la domiciliazione bancaria! “Sai, sono molto fiscali” mi dice il rappresentante (fiscale è sinonimo di severo, pignolo, rigido, vessatorio, in una parola burocratico). “E molto poco agili” aggiungo io. 

Se rimango con questo fornitore è grazie al buon rapporto e all’attenzione del rappresentante. A volte mi sembra quasi un rapporto di amicizia, il che mi fa sentire accudito, anche se ci sentiamo solo ogni due o tre anni. All’opposto detesto il fornitore e il desiderio sarebbe quello di non averci mai più a che fare. Mi consolo pensando che sono tutti uguali, ma è una sensazione sconfortante.

La nascita dell’Agile in Italia (e i suoi primi fraintendimenti)

Perché vi racconto questa storia?

Perché l’onda dell’agility organizzativa in Italia è iniziata tra il 2018 e il 2019 e l’azienda di cui vi sto parlando ha iniziato in quegli anni una trasformazione Agile.

Nel 2018 ho fondato Agile School pensando che i tempi per parlare del Mindset Lean Agile fossero maturi. In realtà solo grandi gruppi, spesso multinazionali, avevano iniziato in Italia ad avvicinarsi ai concetti alla base di questo mindset. Molti non avevano conoscenza di che cosa si stesse parlando e, meno che mai, avevano alcuna forma di consapevolezza. 

Il problema è che neanche le grandi aziende multinazionali ne avevano consapevolezza, o almeno le loro branch italiane. Così, quasi tutte iniziarono nel modo più convenzionale: disegnando la struttura organizzativa top down, stabilendo i ruoli, identificando i componenti dei team all’interno dei dipartimenti già esistenti e, soprattutto, credendo che il modo giusto di procedere fosse quello di implementare una metodologia. La metodologia più in voga allora era Scrum. E così l’azienda di cui vi sto parlando iniziò implementando Scrum. In poco tempo dichiarano di essere diventati Agile.

Lo dico perché avendo seguito diversi convegni, conferenze, workshop in quegli anni erano sempre presenti con dichiarazioni: “noi siamo agili, noi siamo diventati un’organizzazione agile”, a tal punto che volevano vendere la loro esperienza e metodologia ad altre organizzazioni. 

I loro Scrum Master e Agile Coach interni proclamavano successi straordinari. Erano entusiasti della metodologia Agile e volevano essere gli evangelizzatori di tutto il mondo. Invitai uno di loro a partecipare ad un workshop e portare il suo contributo. Brillante? Sì! Conosceva bene la metodologia, applicava molte tecniche specifiche, era convincente. Ma era anche arrogante, superficiale, poco incisivo. Erano abituati ad applicare metodi e tecniche senza considerare l’essenziale. La cultura che permette a quelle metodologie, tecniche, strumenti di essere efficaci, non solo apparenza. Il Mindset Lean Agile é sostanza non apparenza.

Come si capisce che un’organizzazione è davvero agile?

Questo è il punto!

Molte di queste organizzazioni hanno frainteso che cosa significa essere agili pensando che si trattasse semplicemente di implementare una metodologia, di fare Agile. Diversi Agile Coach davano man forte a questa convinzione postando e scrivendo che fare agile significava essere agile, mentre è vero il contrario. 

Il problema è che per essere agili è necessario partire dai bisogno del cliente e porre continuamente attenzioni a questi bisogni per fornire costantemente valore al cliente, il che significa costantemente migliorare il prodotto o/e il servizio che si fornisce. Probabilmente nessuna di queste aziende che si sono proclamate Agile lo sono, ne sono mai state. 

Ma come si capisce che un’organizzazione è davvero agile?
Da clienti, dal livello di burocrazia che si è costretti a subire e dalla prontezza di risposta del servizio.

Chi non ha sperimentato l’impotenza di non riuscire a contattare nessuno mentre risponditori automatici ti rimbalzano da un numero all’altro? Internamente dal fatto che non è cambiata la struttura organizzativa, che i team sono team dipartimentali, che i dipartimenti permangono centri di potere, che il comportamento dei manager è lo stesso di prima. 

Non si può portare valore al cliente se la struttura dell’organizzazione non cambia e Agile è solo flatus vocis. 

🎧 Ascolta il podcast Agile Confidential #LessonsLearned su Spotify.

Continua a leggere...

Ottobre 2025
Cosa l’intelligenza artificiale generativa ci dice dell’essere umano
Claudio Paolucci

Riportiamo qui il primo capitolo di Nati cyborg di Claudio Paolucci.
[disponibile dal 12 novembre, 144 pagine, 12 euro]

Nietzsche diceva che non è mai alle origini che qualcosa può rivelare la sua essenza, ma che una cosa può rivelare ciò che era fin dalle origini soltanto a una svolta della sua evoluzione. Credo che l’intelligenza artificiale generativa rappresenti questa svolta e che l’essenza che viene rivelata dai nuovi enunciati macchinici, a una svolta della nostra evoluzione, sia proprio la nostra di esseri umani. Di fronte alle nuove macchine che hanno linguaggio, siamo noi a essere in gioco e le macchine ci mostrano ora, profondamente e chiaramente, qualcosa di importante sulla nostra stessa essenza e sul nostro funzionamento.

Infatti, nella mia tradizione, quella della semiotica, della linguistica e della filosofia del linguaggio, si è spesso individuata proprio nel linguaggio l’essenza stessa dell’essere umano. Si è giustamente fatto notare che il celeberrimo “zoòn lògon èchon” di Aristotele non potesse essere tradotto, come si era fatto invece per secoli, con “animale razionale”. E questo non solo perché “ratio” non è una traduzione fedele del latino “logos”, ma perché nell’essere umano il comportamento razionale è talmente raro che, piuttosto che costituirne l’essenza, ne costituisce una specie di telos, che pochi conquistano, con fatica e dedizione. Credo che la rarità del comportamento razionale nell’essere umano sia esperienza quotidiana condivisa da molti e tutti agiamo e prendiamo spesso le nostre decisioni innanzitutto sulla base di emozioni e passioni. E forse è per questo che proprio Aristotele, nella Politica, insisteva sul fatto che, al fine di vivere assieme in società, fosse necessario modulare le nostre passioni (pathe) attraverso il logos. Non a caso, Maurizio Ferraris, con un’intuizione apparentemente provocatoria ma della cui lucidità ci accorgeremo presto, diceva che l’essenza dell’uomo non fosse affatto la razionalità, bensì l’imbecillità: “imbecille” significa infatti “debole”, “senza bastone” (in-baculum), “debole” proprio in quanto “in-baculum”, senza protesi e ausili esterni a cui appoggiarsi. L’essenza dell’uomo sarebbe allora quella di dover costruire queste protesi, ibridandosi all’ambiente, per emanciparsi attraverso macchine e protomacchine dalla sua condizione di costitutiva debolezza. Torneremo più avanti su tutti questi temi.

È forse proprio per questo che si è pensato che “zoòn lògon èchon” potesse essere tradotto con “animale dotato di linguaggio”, o “animale che pensa attraverso il discorso”: “il parlare non è tanto attività biocognitiva unica e specie-specifica che si aggiunge ad altre attività che l’uomo ha in comune con altri viventi quanto, piuttosto, attività che, a partire dal momento in cui sorge, riorganizza e rende specifiche tutte le attività cognitive umane, comprese quelle che l’uomo mostra di avere in comune con gli altri animali non umani: percezione, immaginazione, memoria, desiderio, socialità” (Lo Piparo).

Per questo la costruzione di macchine capaci di parlare, di macchine capaci di enunciazione sia verbale che non-verbale, rappresenta una vera e propria svolta della nostra evoluzione, essendo in grado di riorganizzare tutte le nostre attività cognitive. Anche qualora non si pensi che l’essere umano sia l’unico animale dotato di linguaggio (cfr. Andrews, Paolucci), di sicuro ChatGPT e le altre intelligenze artificiali generative sono certamente i primi non-animali dotati di linguaggio. Per questo, la tendenza contemporanea è quella di negare loro questa capacità, dicendo di volta in volta che di fatto non capiscono né esprimono significati, che manipolano sintatticamente soltanto il piano dell’espressione dei linguaggi, che quello che fanno è soltanto rielaborare il già detto attraverso pesi statistici, che parlano un linguaggio che è soltanto una grammatica senza contenuti, mancando di comprensione e autoconsapevolezza. L’espressione più iconica formulata in questi anni da chi assume queste posizioni e nega che l’IA generativa sia il primo non-animale che ha linguaggio è forse quella di Bender e colleghi, che in un convegno fondativo del 2021 hanno definito ChatGPT “un pappagallo stocastico”. Nella tradizione della semiotica è stato di recente Stefano Bartezzaghi a riformulare perfettamente questo concetto con una delle sue solite formule illuminanti: quello che dice ChatGPT “non è detto che sia vero, ma certamente è vero che è stato detto”. 

Siamo allora di fronte a un’alternativa messa molto bene in luce da Pierluigi Basso Fossali: o l’IA è un’Ersatz della cultura, che parla un surrogato del linguaggio umano ed è dotata soltanto di un simulacro della nostra intelligenza, oppure essa rappresenta una forma di mediazione nuova, che, come il linguaggio per l’animale umano, riconfigura e riorganizza tutte le nostre attività semiotiche e cognitive in modi del tutto inediti, impensabili fino al 2021, quando “Transformer” era solo il singolare di una nota serie di blockbuster. 

In questo lavoro argomenterò in favore della seconda tesi, lavorando sul nesso tra intelligenza, debolezza e necessità di ibridarsi all’ambiente, nonché sulle questioni della rielaborazione del già detto, del linguaggio e del significato. Nello strano bestiario dell’intelligenza artificiale, si passa forse con troppa fretta dall’essere umano al pappagallo, senza considerare ciò che conta davvero: le ibridazioni che fanno funzionare ogni natura, in cui l’orchidea può riprodursi solo grazie alla vespa che l’impollina e si estingue là dove si estingue quest’ultima. Per questo il titolo, omaggio esplicito al pioneristico lavoro di Andy Clark, pone fin da subito al centro di questo libro la forma “cyborg”: un essere che combina elementi organici e non-organici, meccanici o elettronici, con l’obiettivo di mostrare che questa forma cyborg – che innesta protesi e interfacce a cui deleghiamo parti fondamentali del nostro lavoro cognitivo – sia in forma profonda e non banale la natura stessa dell’essere umano. E lo sia fin dal principio e ben prima dell’intelligenza artificiale

Insomma, quando nel 1960 Manfred E. Clynes e Nathan S. Kline introducevano la forma “cyborg” in riferimento alla loro idea di un essere umano potenziato per sopravvivere in ambienti extraterrestri inospitali, stavano in realtà descrivendo quello che noi esseri umani abbiamo fatto qui, sul pianeta Terra, e di cui l’intelligenza artificiale generativa rappresenta l’ultima svolta, quella che riguarda proprio quella capacità che per secoli ci siamo attribuiti come nostra unica essenza e specificità, quella che ci differenzia da tutto il resto su questo pianeta: la capacità di linguaggio e di enunciazione.

Vorrei insomma prestare estrema attenzione a queste nuove macchine dotate di linguaggio, che rappresentano un nuovo bastone per le nostre attività cognitive, a cui ci appoggiamo e a cui concateniamo la nostra parola in prima persona.


Nati cyborg racconta la vera rivoluzione che l’intelligenza artificiale ha scatenato: non quella delle macchine, ma la nostra. Quando la macchina ha sconfitto il campione mondiale di Go è infatti successo qualcosa di profondamente diverso rispetto a quando la macchina aveva sconfitto il campione mondiale di scacchi: non abbiamo assistito alla gloria di un algoritmo, abbiamo visto rivelarsi, in controluce, il funzionamento più profondo dell’intelligenza umana. Partendo dalle nuove macchine dotate di linguaggio e passando per allucinazioni, intelligenza zero, soggettività, menzogne, stanze cinesi, menti estese, pappagalli stocastici, imbecillità e miti del significato, Nati cyborg mostra come, per evolvere, l’essere umano deleghi da sempre all’ambiente nuovi pezzi di se stesso: attraverso utensili, scritture e tecnologie, ogni volta ci trasformiamo, diventiamo ibridi, ci scopriamo cyborg. Oggi l’IA generativa non è un oggetto estraneo: è il nuovo specchio in cui riconosciamo chi siamo e chi stiamo diventando. Questo libro ci guida dentro quell’enigma, mostrandoci come l’intelligenza artificiale parli, prima di tutto, di noi stessi.

Continua a leggere...

Ottobre 2025
Da San Vittore all’assoluzione
Gian Domenico Caiazza

Riportiamo qui la postfazione a Storia di un sindaco. Da San Vittore all’assoluzione di Simone Uggetti con Arianna Ravelli.
Con una prefazione di Aldo Cazzullo e un contributo di Gaia Tortora.
[disponibile dal 5 novembre, 256 pagine, 16 euro]

Se non ci fosse in gioco la carne viva di una persona e dei suoi cari, la dignità umiliata di un politico per bene e della sua storia pubblica, dovremmo dirci cinicamente fortunati per aver assistito alla vicenda giudiziaria del Sindaco Simone Uggetti. D’altronde, lui per primo ne è a tal punto consapevole da aver deciso di scrivere questo libro, per raccontare, spogliandosi e mettendosi a nudo davanti a tutti noi, la sua storia incredibile. Mi è piaciuta molto la metafora del Kintsugi, che l’autore ha scelto per descrivere questo sforzo doloroso. Se una vicenda giudiziaria, politica e mediatica di questa ottusa e spietata violenza ti ha ridotto come un coccio di ceramica ridotto in pezzi, usi l’oro –come in quella formidabile tecnica artistica giapponese – per tenerli insieme, valorizzando le crepe e ridando a quel disastro una nuova dignità e bellezza.
Questa storia è dunque una occasione preziosa per tutti noi, perché la sua particolarità sta nell’essere inattaccabile nella sua solare semplicità. I fatti sono incontrovertibili, e lo sono per chiunque sia stato infine chiamato a giudicarli. Il Tribunale che ha condannato, la Corte di Appello che ha assolto, la Cassazione che ha annullato con rinvio, la Corte di Appello che, infine, ha nuovamente assolto, sebbene ora per “tenuità del fatto”, sono tutti concordi sulle decisive connotazioni dei fatti che hanno dato luogo alla contestazione del reato di turbativa d’asta, e che vale dunque la pena mettere in fila, semplicemente. 

1. Si è trattato di un bando di gara del valore di € 5000,00 (dicesi cinquemila euro); 2. Il valore modestissimo della gara avrebbe consentito, del tutto legittimamente, l’affidamento diretto anziché il bando di gara; 3. La turbativa della regolarità dell’asta è consistita in un incontro del Sindaco con l’avvocato Marini, amministratore della società comunale che già gestiva le altre piscine della città, per chiedergli se a suo parere fosse meglio il bando o l’affidamento diretto; 4. L’avvocato Marini, contro lo stesso interesse della società pubblica da lui amministrata, suggerisce la strada del bando, e il sindaco lo segue; 5. L’obiettivo del Sindaco è sempre e solo stato quello di affidare la gestione del nuovo impianto alla Società del Comune; 6. Il sindaco non ha coltivato il benché minimo interesse economico personale nella intera vicenda, né ha in alcun modo favorito quello di terzi; 7. Altre ditte non hanno partecipato al bando ritenendo la gestione di quella piscina non conveniente da un punto di vista economico.

Questi fatti, devo ripetermi, sono riconosciuti come del tutto pacifici, provati e non controvertibili in tutti i vari gradi di giudizio dell’intera vicenda processuale. 
Voi comprendete benissimo, allora, il valore pedagogico inestimabile di questa dolorosa vicenda, capace di illuminare senza zone d’ombra, senza margini di opinabilità, senza possibili letture alternative, il degrado stupefacente del nostro sistema giudiziario, la radicata alterazione degli equilibri costituzionali tra i poteri dello Stato, le dinamiche velenose e putrescenti del famoso “circolo mediatico-giudiziario”. Perché tu puoi pure urlare ai quattro venti, ritmando “onestà-onestà” ai piedi delle adorate ghigliottine, che l’etica del Pubblico Amministratore modello avrebbe precluso al Sindaco quell’incontro e, una volta iniziate le indagini, spaventato, di ipotizzare la “formattazione dei computer” (mai effettuata, per di più); ma questo non ti consentirà mai di trasformare l’acqua potabile in liquame di fogna. I fatti sono quelli, implacabili. Non solo la modestia ridicola dell’appalto, ma ancor prima il fatto che il Sindaco avrebbe potuto legittimamente assegnare in modo diretto la gestione della piscina alla Società pubblica, senza doversi inspiegabilmente industriare nel tentativo di indirizzare indebitamente l’appalto per ottenere il medesimo risultato, in ogni caso del tutto conforme al pubblico interesse. 

E allora, se questi sono i fatti, la prima domanda che una persona normale avrebbe il dovere di porsi è molto semplice: cosa c’entra, in tutto ciò, l’autorità giudiziaria penale? Se una solerte, ovviamente indignata e altrettanto verosimilmente non del tutto disinteressata “cittadina modello” denunzia gravi irregolarità in quell’appalto bagatellare, è giusto verificare; ma una volta chiariti i termini della questione, di cosa si impiccia la Procura della Repubblica? E invece accade non solo che quella Procura si avventa sulla denuncia come se fosse l’inchiesta del secolo, ma addirittura chiede e ottiene prima di intercettare lungamente gli indagati (atto investigativo che il nostro codice qualifica e regola come eccezionale), poi di inoculare il trojan nel telefono del sindaco (atto investigativo che il nostro codice qualifica e regola come doppiamente eccezionale), e infine addirittura di incarcerare il sindaco e i suoi sodali. 
Ho detto bene “chiede e ottiene”, perché in Italia si parla dei PM, mai dei GIP che troppo spesso accolgono con sistematico, ossequioso entusiasmo le richieste delle Procure. Eppure, il sistema procedimentale è costruito dal legislatore proprio sulla funzione di controllo giurisdizionale delle indagini, affidata all’ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari e del Giudice dell’Udienza Preliminare.
L’idea è che l’ipotesi investigativa, per sua natura unilaterale anche perché fortemente condizionata dal tendenziale pregiudizio accusatorio della Polizia Giudiziaria inquirente, venga vagliata – pur nella inevitabile sommarietà della fase – proprio dal Giudice per le Indagini Preliminari, ogni qual volta egli venga raggiunto da richieste investigative destinate a incidere sui diritti fondamentali delle persone indagate (intercettazioni, trojan, misure cautelari). 
Ed è qui che la persona normale (e in buona fede) di cui sopra dovrebbe necessariamente porsi la seconda domanda: ma è mai possibile che per una vicenda del genere un sindaco in carica, democraticamente eletto dalla maggioranza dei cittadini, debba essere prima intercettato addirittura con un trojan, e poi trascinato nella polvere, umiliato e distrutto dalla traduzione in carcere? Non solo questo è incredibilmente accaduto, ma il GIP di Lodi ha ben pensato di ufficializzare lo stigma del disprezzo sociale, qualificando il povero Sindaco Uggetti come persona “abietta”. Sarà anche un problema di buon governo della lingua italiana, ma insomma vi sono pochi dubbi sulla inevitabile consapevolezza del fatto che qualificare in un atto pubblico, giustificativo della custodia in carcere, una persona, per di più primo amministratore della città, come “abietta” equivale a porre quella persona nel gradino più basso del giudizio morale. Ora, ditemi voi quali tracce, seppur vaghe, di umana “abiezione” è mai possibile rintracciare in questa grottesca vicenda di presunta turbativa di un appalto di 5000 euro pacificamente in favore e a tutela – a tutto concedere un po’ “garibaldina” – dell’interesse pubblico. 

La risposta a questa domanda pone finalmente la vicenda nelle sue giuste coordinate, chiarendone il valore simbolico di un degrado politico-giudiziario che ha le sue radici, ovviamente, ben oltre e ben al di fuori della città di Lodi. È dai prima anni 90 che l’indagine giudiziaria è diventata il principale strumento regolatore delle dinamiche politiche. Indagare un politico o un pubblico amministratore significa incidere in modo decisivo sulle sorti politiche e amministrative della comunità sociale interessata, sia essa locale che nazionale. La pubblica opinione, anche comprensibilmente sfiduciata da diffusi episodi di illegalità nella gestione della cosa pubblica, ha progressivamente affidato all’autorità giudiziaria la funzione sociale di promuovere i buoni e punire i cattivi. I Pubblici Ministeri sono inevitabilmente consapevoli dell’enorme potere affidato nelle loro mani, sicché l’indagine sull’uomo pubblico, politico o amministratore che sia, viene colta sin dall’inizio nel suo valore etico, simbolico, pedagogico. Si tratta di una alterazione micidiale dell’equilibrio tra i poteri dello Stato, che ovviamente porta al rischio che la finalità etica e simbolica della indagine finisca per sopraffarne il merito, facendo smarrire del tutto il senso delle proporzioni, e più in generale la finalità e le ragioni di una inchiesta giudiziaria.

La vicenda Uggetti è la fotografia perfetta di questa drammatica deriva. L’abietto sindaco ha dovuto conoscere, per una vicenda di nessun rilievo penale, l’orrore del carcere, così, come se niente fosse; ha dovuto pietire i domiciliari, ottenuti infine solo perché il Prefetto lo aveva intanto sospeso dalle funzioni; ha dovuto dimettersi; è divenuto l’oggetto di una incredibile messa all’indice nazionale, aggredito con una violenza sproporzionata e insensata da tutta la miserabile compagnia di giro della politica nazionale. Le scuse postume possono aver dato una qualche soddisfazione morale a Simone Uggetti, ma non segnano alcuna resipiscenza della politica, che continua imperterrita ad avventarsi sull’avversario indagato o – nemmeno a parlarne – arrestato, senza alcun pudore, senza alcun sentimento di umana decenza. È quella politica che – davvero incredibilmente – mostra di non comprendere che riconoscendo già ai primi atti investigativi il peso e la forza di una sentenza di condanna, si scava ogni giorno la fossa, consegnandosi mani e piedi, con giuliva inconsapevolezza, al potere giudiziario. 

Non c’è nulla, in queste mie d’altronde perfino banali considerazioni, che possa avere seppure minimamente a che fare con una pretesa di impunità della politica, dalla quale dobbiamo pretendere il rispetto più rigoroso delle regole dell’etica pubblica. Ma proprio in considerazione delle conseguenze micidiali che una indagine giudiziaria comporta sull’ordinato svolgimento della vita democratica e delle sue istituzioni rappresentative, dovremmo poter pretendere dall’autorità giudiziaria una prudenza, una accuratezza investigativa, una rigorosa attenzione non solo nei mezzi investigativi adottati, ma perfino nelle parole usate negli atti giudiziari, che purtroppo vengono invece quasi sistematicamente a mancare, come questa storia dimostra in modo esemplare. È banale, infatti, osservare come questa piccola, mediocre, marginalissima indagine giudiziaria poteva senza dubbio alcuno essere egualmente svolta e portata a termine senza sconvolgere non solo la vita delle persone coinvolte ma, ripeto, soprattutto l’ordinato svolgimento della vita democratica di una comunità sociale. Si è scelta invece la strada della irruzione precipitosa, violenta, esemplare e salvifica della “Giustizia” per sgominare il “Male” nella vita pubblica agli occhi di tutti i cittadini. Fino alla incredibile decisione dell’arresto e del carcere, che in una vicenda bagatellare come questa, appare per ciò che essa è: un atto di gratuita, indicibile violenza nei confronti di una persona per bene, costretta, per malriposti e approssimativi sospetti su un appalto di 5000 euro, a conoscere la più profonda e devastante delle umiliazioni.

Il segno di quanto profonda possa essere stata la ferita inferta, senza ragione e contra legem (non può infliggersi una misura cautelare per fatti in ordine ai quali sia ragionevolmente prevedibile una pena inferiore a tre anni di reclusione) al Sindaco di Lodi, sta tutta nelle belle, dolorose parole con le quali egli descrive il carcere, dopo questa tremenda esperienza: “Luogo di forzata solidarietà, di disagi e piccole vergogne condivise, di coesistenza di destini”. Voglio augurarmi che la scelta di Simone Uggetti di raccontare questo suo dolore possa contribuire a diffondere quanto più possibile la consapevolezza di quanto inestimabile sia la difesa dei valori costituzionali della presunzione di non colpevolezza e di tutela e rispetto della dignità della persona.

Un arresto, un rumore sordo, una vita interrotta. E il coraggio del protagonista di raccontarla. Il 3 maggio 2016 è stato l’inizio di un’altra storia. Una menzogna. Questo libro racconta cosa significa perdere tutto e ricominciare da capo. Un sindaco, un’inchiesta, una città coinvolta. Una testimonianza per chi crede nella forza della giustizia e della memoria. Politica, magistratura, media, intrecciati in un sistema malato, possono schiacciare una vita intera. Questo libro non è una resa dei conti, ma un atto di verità. Ogni vita ha il suo giorno decisivo. Qui è narrato quel giorno e vengono portate alla luce le ferite che ha lasciato. La cronaca di una caduta involontaria e incolpevole, ma anche la tenacia lenta per la difficile risalita verso la verità nella ricerca della giustizia.

Continua a leggere...

Ottobre 2025
Semiotica evolutiva dell’apprendimento
Paolo Martinelli

Riportiamo qui un brano tratto da Literacy. Semiotica evolutiva dell’apprendimento di Paolo Martinelli.
[disponibile dal 22 ottobre, 304 pagine, 25 euro]

L’ipotesi originale che abbiamo prodotto è quella di una relazione causale tra produzione segnica (nella forma di un percorso abduttivo) ed exaptation neurofisiologica nell’accesso alla lettoscrittura. Questa ipotesi ha il merito di fornire un modello della literacy che è in grado di tenere insieme gli aspetti interni e neurofisiologici e le forze esterne e materiali che concorrono nella produzione del sistema semiotico. È un’ipotesi corroborata dai risultati attuali delle neuroscienze della cultura (riciclaggio neuronale e cultural neural reuse), ed è suscettibile di essere falsificata da eventuali nuovi studi sulla specializzazione delle aree cerebrali dedicate alla lettura. 

Sul piano della filogenesi culturale, e in modo del tutto conseguente, abbiamo proposto di ammettere un’origine autonoma della scrittura rispetto al linguaggio verbale. Questa ipotesi – che non è originale ma che dobbiamo in primo luogo a Sebeok (1991) – è confermata dal confronto con gli studi di archeologia cognitiva: se consideriamo gli AMS e le incisioni del Paleolitico come sistemi di scrittura che non seguono un principio fonetico e come precursori di un sistema di scrittura propriamente detto, allora sia la scrittura che il linguaggio verbale sono da intendere come sottoprodotti di un sistema modellizzante primario che è la capacità semiotica di produzione segnica.
Ovviamente la literacy intesa come lo stato cognitivo che ci permette di tradurre in segni scritti il linguaggio verbale si basa su una commensurabilità costruita tra questi sottoprodotti. Questo ci permette di avanzare una considerazione teorica sugli stessi modi di produzione: se nel Trattato di semiotica generale “la teoria dei codici si oppone alla teoria della produzione secondo l’asse ‘significazione’ vs ‘comunicazione’ (Valle, 2017: 319), l’idea in seguito è stata messa in discussione da più parti. Volli tratta questa distinzione come un’opinabile “oscillazione teorica” (Volli, 2015: 35) e lo stesso Valle fa notare che può essere intesa come un artificio metodologico (utile alle esigenze espositive del genere trattatistico) che cela in realtà un superamento della teoria dei codici attraverso la teoria della produzione (Valle, 2017: 320). Da parte nostra, abbiamo voluto mantenere una distinzione tra fenomeni di significazione (a scopo cognitivo) e fenomeni di comunicazione (dove Sebeok indica la seconda come un exaptation della prima), ma abbiamo descritto il funzionamento di entrambi attraverso la teoria della produzione segnica.

Questo è stato possibile perché se intendiamo (come Valle, 2017) il lavoro di riconoscimento alla stregua di un meta-lavoro in cui le forme materiali vengono riconosciute come se fossero state prodotte per ostensione, replica o invenzione (la pietra come utensile) e se la produzione di funzioni segniche per comunicare può prevedere il mittente come unico destinatario della stessa comunicazione, allora la prassi della produzione può essere finalizzata sia a un compito cognitivo che a un obiettivo di comunicazione: da questo punto di vista consideriamo l’allestimento materiale del piano dell’espressione nella produzione segnica alla base dei processi di comunicazione (come nel caso di un bambino che scrive un biglietto di auguri per il papà, o di un archeologo che scrive un articolo accademico da inviare al reviewer) ma non è difficile – come abbiamo accennato – immaginare una situazione in cui si tracciano i segni di un sistema di scrittura per cercare di capire (tra sé e sé) come funziona quel sistema di segni (e questo vale sia per il bambino alle prese con la produzione dei primi grafismi, che per l’archeologo alle prese con un tentativo di decifrazione della lineare a).

Proprio quest’ultima funzione ci sembra essere al centro delle pratiche di apprendimento nel senso in cui sono state descritte in questo lavoro e non valgono, come abbiamo cercato di dimostrare, solo per la scrittura, ma per i più disparati campi in cui è previsto un apprendimento. Proponiamo dunque di mantenere una distinzione tra fenomeni di significazione e fenomeni di comunicazione, pur considerando alla base di entrambi un’attività di produzione segnica che se nel primo caso è intesa a rendere ragione della realtà (scopo cognitivo della produzione segnica) nell’altro è orientata anche alla comunicazione per scopi intersoggettivi.

Se questo meccanismo di produzione segnica per l’apprendimento è perfettamente evidente quando prevede l’ingaggio di forme materiali per costruire (o apprendere) un sistema di segni di natura linguistica, è stato necessario specificare in che senso lo stesso fenomeno si dia nell’apprendimento di pratiche non linguistiche: negli esempi più volte citati dell’apprendimento del nuoto (Deleuze, 1968; Lucangeli, 2019), della categorizzazione dei vini (Festi, 2003; Paolucci, 2007 e 2010) e dell’uso intelligente di strumenti (Eco, 1975; Cuccio e Caruana, 2016) l’asse della comunicazione sembra infatti a prima vista non essere pertinente. Tuttavia la posizione strutturalista di Deleuze e l’idea di lavoro di riconoscimento di Eco inducono a pensare che conosciamo le cose secondo un’ipotesi precisa, cioè prendendo il loro discorso silenzioso, all’atto pratico, come costituito da segni (Deleuze, 1973). Interpretiamo questi segni come fa il destinatario di un messaggio, cioè come se fossero stati istanziati attraverso un lavoro di produzione (per ostensione, replica o invenzione) e correlati a un dato tipo di ratio (cfr. Eco, 1975). Questa attività interpretativa permette di individuare singolarità emergenti (il fonema, l’onda, una sensazione di acidità, una parte della pietra più adatta alla prensione); è l’attività con cui combiniamo i punti singolari del corpo o della lingua con quelli di un’altra figura (cfr. Paolucci, 2010: 235). Che la forma e le caratteristiche materiali di una pietra siano state prodotte da qualcuno per permetterci di includere la pietra nei nostri schemi sensorimotori con l’obiettivo di spaccare una noce è sicuramente un’ipotesi falsa ma, del resto, una delle forze che abbiamo visto agire nella produzione segnica è proprio la forza del falso

Literacy è quello stato cognitivo che ci consente di accedere al senso delle cose in modo automatico e senza esitare, come quando leggiamo un romanzo e non abbiamo nessun dubbio sul suono da associare ai segni alfabetici che compongono le parole, anzi, non li vediamo nemmeno.
Ogni literacy nasce da un percorso di apprendimento fatto di tentativi e revisioni: come imparare a leggere e scrivere, orientarsi in una città straniera o sentire le prime note con il solfeggio. Sono percorsi evolutivi, perché trasformano sia l’individuo, sia le culture, modificandone le traiettorie di sviluppo.
Lo vediamo bene oggi, quando nuove competenze, come quelle digitali, riscrivono la nostra enciclopedia culturale.
Questo libro mette in luce che la semiosi è alla base di queste forme speciali di apprendimento, che sono in grado di rendere trasparenti i segni e automatiche le nostre interpretazioni.
Attraverso la rilettura di concetti chiave della filosofia del linguaggio, della linguistica e delle neuroscienze, la semiotica evolutiva dell’apprendimento offre un modello capace di tenere insieme “gli universi apparentemente disparati del significato umano e delle scienze naturali”.

Continua a leggere...

Ottobre 2025
La leadership come arte della guida
Antonio Spadaro S.I.

[disponibile dall’8 ottobre, 208 pagine, 14 euro]

Guerre, crisi energetica, transizione ecologica, intelligenza artificiale: il nostro tempo non è più governato da una linearità prevedibile, ma da onde che si accavallano e generano instabilità profonda, crisi dell’ordine. Imprese e istituzioni hanno bisogno di orientamento: abbiamo leader in abbondanza, ma ci mancano le guide in una navigazione sempre più complessa.

Il Mediterraneo non è un simbolo identitario da difendere, ma un metodo. Ed è il contrario del modello anglosassone dominante: performativo, astratto, accelerato, ossessionato dalla misurazione e dalla scalabilità: il modello che ha colonizzato le business school, gli algoritmi, i manuali. E che oggi mostra tutti i suoi limiti.  Il Mediterraneo ci ricorda che la vera capacità di guida sta nel connettere, non nell’opporre. Diventa così una lente per rileggere il nostro tempo in cui l’accelerazione ha prodotto smarrimento; l’iperconnessione, isolamento; la disponibilità infinita di informazioni, ignoranza. La leadership si è spezzata perché ha perso il suo contatto con la terra, con il linguaggio, con le relazioni: il carisma è stato sostituito dalla visibilità, il potere è diventato simulacro.

Se guardiamo al mondo delle imprese, questa prospettiva è tutt’altro che astratta. Le aziende che riescono a prosperare sono quelle che sanno trasformarsi in ecosistemi, mettendo in relazione comunità, territori, stakeholder e tecnologie. Non basta più accumulare dati o moltiplicare indicatori. Occorre allenare quella forma di intelligenza sottile e fluida che i Greci chiamavano metis: la capacità di orientarsi tra contraddizioni e passaggi liminali, di leggere i contesti e agire con misura.

Le grandi piattaforme tecnologiche, dopo anni di crescita illimitata, sono oggi costrette a ripensare i propri modelli di business, integrando nelle strategie la dimensione etica e sociale, in particolare di fronte alle sfide dell’intelligenza artificiale. Il settore dell’energia, chiamato a realizzare la transizione verde, non può limitarsi all’innovazione tecnica: deve costruire mediazioni con i territori, ascoltare le comunità, gestire conflitti e attese. Le imprese manifatturiere italiane che competono sui mercati globali sanno che la loro forza sta nella capacità di radicare l’innovazione nella tradizione, trasformando la cultura locale in valore internazionale.

Granata e Granelli scelgono due figure che hanno incarnato questa forma: Adriano Olivetti e papa Francesco. Olivetti immaginò la fabbrica come spazio di civiltà, molto prima che si parlasse di ESG o di B Corp. Per lui l’impresa non era mai un luogo neutro, ma un’opera d’arte collettiva, capace di fondere bellezza, tecnologia e giustizia. Papa Francesco ha incarnato una forma di leadership profondamente mediterranea: plurale, relazionale, inquieta, attenta alla carne del mondo, praticando nella Chiesa cattolica una governance fondata sull’ascolto e sulla sinodalità, cioè sul camminare insieme, sul valorizzare la pluralità dei punti di vista. La sapienza mediterranea non è quella dell’univoco, ma del molteplice, della complessità che non si lascia ridurre né risolvere. E non è coltivabile senza il contributo delle humanities come l’arte e la poesia, che sanno armonizzare gli opposti. Così è possibile disinnescare alla radice le derive polarizzanti e conquistare un modo di pensare e agire flessibile, umano. Il leader è rimasto oggi una costruzione retorica, un simbolo mediatico. La guida, invece, è presenza reale che sente le tensioni dei contesti e riconosce il peso ecologico e umano di ogni decisione.

La leadership tradizionale, erede delle business school anglosassoni, ha esaurito la sua spinta: accentra il potere, riduce i rapporti a performance, si affida a strumenti fragili e a conoscenze parziali. Ma un mondo che si muove così in fretta chiede altro. Non un leader che comanda dall’alto, ma una guida che accompagna, custodisce, apre strade. Una guida che intreccia ragione e sensibilità, competenza e ascolto; che mette al centro non solo i risultati, ma il senso, i legami, un futuro condiviso.
Anima mediterranea parte da qui: dal desiderio di guardare alla leadership con occhi diversi, quelli del Mediterraneo. Non semplice categoria storica o geopolitica, ma radice viva e matrice culturale plurale, capace di trasformare la diversità in ricchezza e la bellezza in forza generativa.

Continua a leggere...

Ottobre 2025
Forme della tragedia e del mito nel teatro italiano (1995-2015)
Daniela Sacco

Quali forme e quali contenuti può assumere il tragico oggi?

Continua a leggere...

Perché Agile Confidential?

Il titolo parafrasa il libro Kitchen Confidential in cui Anthony Bourdain, cuoco diventato famoso proprio per il suo libro, racconta episodi della sua vita connessi al suo lavoro. Svela cosa succede all’interno delle cucine. Racconta le sue esperienze e le lesson learned che valgono come consigli ai lettori.

Piacevole e divertente assomiglia ad un altro libro scritto a più mani da diversi cuochi il cui titolo suona come un avvertimento: Don’t Try This at Home: Culinary Catastrophes from the World’s Greatest Chefs.

Esiste un forte parallelismo tra la cucina e il mindset Lean Agile. 

Avendo frequentato, per un certo periodo, una comunità di cuochi professionisti, ho appreso molto su cosa significa cucinare professionalmente e ho potuto vedere come una cucina si organizza per processi, fronteggia i picchi e raggiungere l’eccellenza attraverso la standardizzazione.

Agile Confidential è una raccolta di episodi reali collegati a una riflessione che diventa un apprendimento, una Lesson Learned. Per ottenere un apprendimento da una situazione concreta occorre fermarsi e riflettere. È un cardine della cultura Lean Agile strettamente correlato all’espressione “Slow Down to Go Faster” che si sostanzia in due aspetti: la preparazione e la riflessione successiva, esattamente come accade nelle cucine professionali. 

Senza “mise en place” un cuoco non può essere considerato un professionista, senza una riflessione critica non può migliorare, senza standardizzazione non può raggiungere l’eccellenza e non può nemmeno lontanamente immaginare di avvicinarsi alle stelle Michelin, senza sperimentazione non può evolvere, creare qualcosa di nuovo, senza team non sarebbe in grado di sostenere tutte le attività che una cucina professionale richiede. 

Lesson Learned significa anche apprendimento continuo.

E senza apprendimento non si dà evoluzione.

Ma da che cosa apprendiamo? Dagli errori, non certo dai successi. I successi ci piacciono di più, ci rassicurano di più e vendono di più, ma non ci dicono nulla su come si riescano ad ottenere. Non siamo in grado di soppesare tutte le variabili che ci hanno condotto al successo, ed è noto che se continuiamo a fare ciò che facevamo che ci ha portato al successo, molto probabilmente il successo finirà.

Se ascoltate attentamente il racconto delle persone che hanno realizzato ciò che volevano, vedrete che il successo è una strada costellata di problemi. Queste persone si sono date degli obiettivi e hanno affrontato una serie interminabile di problemi. Un problema richiede un’analisi accurata per capire che cosa non ha funzionato come avremmo voluto. Quindi un’ipotesi su come farlo funzionare, dopo di che occorre fare una sperimentazione. L’esito della sperimentazione ci dice se l’ipotesi era valida o come cambiarla e cosa sperimentare di diverso. 

Questo ciclo è il ciclo dell’apprendimento e anche l’applicazione del metodo scientifico che, infatti, non può che essere sperimentale. 

Attenzione!

La parte di analisi è probabilmente il fattore più rilevante di questo ciclo. È il momento di comprensione del problema. Se eseguita bene ci porta ad elaborare ipotesi impensate precedentemente e ad andare alla radice del problema risolvendolo una volta per tutte.

Questo approccio è in netta contrapposizione con il comune atteggiamento alla soluzione dei problemi, il “pompiere” capace di “mettere pezze” che risolvono temporaneamente il problema.

Dalla cucina alla cultura Agile: perché seguire la ricetta non basta

Con queste Lesson Learned voglio portarvi (metaforicamente) nelle “cucine” dove ho lavorato e raccontarvi le mie esperienze in tanti tipi diversi di organizzazioni attraverso episodi di vita vissuta, alcuni divertenti altri… non saprei come definirli.

Restando nella metafora della cucina si può dire che la maggior parte delle organizzazioni affrontano il cucinare in modo poco professionale. 

Mi spiego: credono sia sufficiente fare un corso di cucina, seguire le ricette e voilà il piatto è pronto. Allo stesso modo affrontano una trasformazione Agile, un po’ di metodologia, un po’ di pratica e un pizzico di buona volontà e voilà diventiamo tutti agili. Ma come vedremo non è proprio così.

Non si possono ottenere risultati professionali in agility se non si fa propria la cultura Lean Agile, se non si sviluppa una profonda conoscenza di come lavoriamo adesso per poterlo cambiare, se non si impostano delle metriche veramente significative, se non si applica quotidianamente il metodo scientifico, se non si parte dai problemi al posto di essere orientati ai task, se non ci si ferma a riflettere su come cambiare il modo in cui facciamo le cose, se non si può mettere in discussione lo status quo.

🎧 Ascolta il podcast Agile Confidential #LessonsLearned su Spotify.

Continua a leggere...

Conferenza Stampa al Senato della Repubblica, letto da Chiara Bersani

Buona sera.

In qualità di artiste e artisti con disabilità oggi prendiamo parola a partire da una catena di urgenze che non possono più essere silenziate. Per farlo è necessario prima contestualizzare il tempo e il luogo da cui stiamo parlando.

Quello che sta accadendo negli ultimi giorni nel mondo dello spettacolo, dopo la divulgazione degli esiti del Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo, non è un semplice cambiamento: è una frattura. Una frattura che segna con nettezza la distanza tra chi ha accesso agli strumenti per lavorare e chi ne viene privato, chi ha diritto a esistere sulla scena artistica e chi no. Con le recentissime scelte delle commissioni ministeriali viene messa in discussione la sopravvivenza di quelle realtà che negli anni hanno sostenuto la ricerca contemporanea, realtà che hanno spesso lavorato da posizioni marginali per costruire visioni alternative nei territori più fragili, dialogando con artiste e artisti esclusi dai grandi circuiti mainstream. In questo contesto, culturalmente fertile e finanziariamente arido, artiste e artisti con disabilità hanno iniziato a muovere i primi, difficilissimi passi. Siamo una generazione scarna, affaticata, che solo grazie ai sostegni di altri paesi europei è riuscita a formarsi ed avviare progetti riconosciuti sul piano internazionale ma che oggi, pur avendo visione, competenza e desiderio, non riesce ad accedere agli strumenti minimi per poter lavorare e creare pensiero, arte ed economie.

Non si può decidere di fare a meno di noi, cittadine e cittadini con diritto di voto ed espressione, con competenze ed esperienze fondamentali allo sviluppo della cultura del nostro paese. Ma per essere persone attive nell’agire sociale, politico e lavorativo, necessitiamo di almeno due garanzie: poter accedere alla formazione e poter agire in ambienti lavorativi accessibili.

Queste prerogative minime non sono negoziabili, sono diritti disciplinati da leggi.

È evidente quanto sia oramai necessario ristrutturare il modo di pensare l’intero sistema artistico, dalle accademie alle produzioni, affinché venga ampliato il range di identità e corpi che possano fruirne in modo sistemico e non attraverso maldestri tentativi riparatori. Attualmente l’esclusione inizia dalla possibilità di accedere o meno ad un programma di formazione. La maggior parte delle accademie e delle scuole d’arte non sono accessibili per le architetture e per la preparazione del corpo docenti, ancora non adatta a valorizzare l’espressività di studenti e studentesse con disabilità. Questo genera il primo strappo anche all’interno della comunità disabile: chi può permetterselo per economie e autonomia prova a formarsi all’estero, per tutte le altre persone resta solo la fortuna di trovare o meno esperienze formative non istituzionali, e quindi non riconosciute – molte delle quali fornite esattamente da quelle realtà sopracitate che sono state declassate, e quindi private di forze ed economie, dalle nuove graduatorie ministeriali.

Se oggi un giovane artista disabile ci chiedesse dove possa formarsi come danzatore, cantante o attrice/attore noi, con il cuore spezzato e un profondo imbarazzo, non sapremmo rispondere.

Per quanto riguarda il mondo del lavoro: le Open Call, i bandi e le selezioni pubbliche sono spesso inaccessibili. Non basta aprire una call “a tutte e tutti” se poi il linguaggio, i tempi o le modalità escludono sistematicamente chi ha esigenze diverse. A tal proposito Al.Di.Qua.Artist, in qualità di associazione di categoria, assieme ad altri soggetti sociali, da cinque anni ha aperto un tavolo di lavoro per richiedere e intelligentemente organizzare un fondo dedicato alle artiste e agli artisti con disabilità. Il fondo dovrebbe coprire i costi che si aggravano sulle nostre carriere durante i momenti di tournée, produzione e prove, a causa di un sistema che ancora non ha saputo abbattere barriere architettoniche, culturali e sensoriali. Costi che rendono asimmetrici i nostri percorsi di crescita professionale rispetto a quelli delle nostre colleghe e colleghi.

Da tre anni il Ministero della Cultura promuove un avviso pubblico che tuttavia continua a rivelarsi fortemente sganciato dalle nostre esperienze incarnate e dalle realtà lavorative in cui agiamo. L’avviso richiede velocità, produttività e competitività, progetti misurati prevalentemente con indicatori quantitativi mentre le nostre esperienze incarnate chiedono lentezza, tempi di riposo, sostegno reciproco. Chiediamo quindi che le open call scritte sui nostri corpi siano monitorate e valutate da esperti competenti, altrimenti questo avviso, come altri, risulta impraticabile per la stragrande maggioranza dei soggetti ai quali dichiara di rivolgersi, mostrandosi inadeguato ad agire sul gap economico e culturale che dovrebbe ridimensionare.

Nel fortunato caso in cui un artista disabile riesca ad accedere alla selezione per un progetto lavorativo, continuerà a rimanere una figura professionale economicamente non competitiva. I costi di assistenza personale e messa in accessibilità di sala prove, camerini e alloggi, restano scoperti e quindi destinati a ricadere o sul lavoratore o sulla produzione che inevitabilmente sceglierà un profilo meno “richiedente”.

Ulteriore problema è l’irrisoria soglia di reddito annuo oltre la quale una persona perde il diritto a ricevere la pensione d’invalidità o la vede ridimensionata. Questo sistema non tiene conto della natura intermittente del lavoro artistico e quindi della difficoltà ad avere un reddito stabile. Sono in tante le persone tra noi che rinunciano a lavorare perché un progetto artistico che si compie quest’anno verosimilmente non si estenderà al successivo e quindi il rischio di trovarci a non avere in un futuro prossimo né un lavoro né una pensione è troppo alto.

Per tutte queste ragioni oggi siamo qui a chiedere una serie di impegni concreti e immediati:

Chiediamo la messa in accessibilità dei programmi di formazione delle accademie e preparazione degli insegnanti a pratiche e metodologie inclusive finalizzate a promuovere una cultura accessibile e antidiscriminatoria fin dai primi stadi dell’educazione artistica.

Chiediamo la rimozione delle barriere architettoniche, sensoriali e culturali in tutti gli ambiti dello spettacolo e lungo l’intera filiera professionale dalla formazione alla produzione e distribuzione artistica, per garantire l’accesso professionale di artisti con disabilità in tutti gli ambiti dello spettacolo.

Chiediamo l’istituzione di un fondo dedicato che copra i costi di accessibilità necessari a garantire autonomia ed eque condizioni professionali nelle fasi di produzione e tournée.

Parliamo della copertura economica del lavoro di assistenza personale, di interpretariato LIS, degli alberghi accessibili, dei mezzi di trasporto consoni ecc.

Chiediamo la messa in accessibilità di tutte le Open Call di settore

Chiediamo la rivalutazione delle norme sul limite di reddito che fanno decadere la pensione di invalidità alla luce della natura intermittente del lavoro artistico

Noi oggi siamo qui perché abbiamo bisogno di essere viste e che con noi venga vista la complessità della nostra situazione lavorativa.

A chi dice che i tempi sono difficili, che le priorità sono altre, che bisogna aspettare, rispondiamo che noi siamo vive adesso e il tempo dellattesa non può essere il nostro. Noi non abbiamo più tempo!

Perché mentre si aspetta, si invecchia fuori dalla scena.
Mentre si aspetta si diventa adulti senza aver avuto la possibilità di formarsi.
Mentre si aspetta si spegne il diritto di immaginare un futuro.
Mentre aspettava, qualcuno tra noi, è morto.

Il lavoro nello spettacolo non può essere considerato un privilegio o un passatempo altrimenti la qualità sarà sempre più infima, la pluralità annullata e la riflessione collettiva impoverita.

Oggi, qui, noi parliamo di cittadinanza, identità e diritto.

Ed è responsabilità della politica creare e garantire le condizioni necessarie affinché nessuna persona sia costretto a scegliere tra ricevere un sostegno per l’assistenza o poter vivere un’esperienza lavorativa.

Per questo oggi, in questa sede, chiediamo alla politica di assumersi un impegno pubblico serio e lungimirante in sostegno e tutela delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo con disabilità.

E chiediamo che il Governo si esprima chiaramente su quali risorse intende mettere in campo per garantire pari opportunità a chi lavora nello spettacolo e vive con disabilità.

La storia che stiamo scrivendo non ci rende fonte di ispirazione ma soggetti attivi di una battaglia collettiva per i nostri diritti.

Grazie, Al.Di.Qua.Artists
3 luglio 2025

Continua a leggere...

Discorso – Conferenza Stampa al Senato della Repubblica
Roma, 3 luglio 2025

Testimonianze lavorat dello spettacolo con disabilità

“Non può partecipare al corso, non per mancanza di titoli, ma perché la scuola non è accessibile”

“La tua voce è adatta per la parte, ma non posso prenderti perché non so se i teatri in cui ci esibiremo sono accessibili”

“I camerini non sono accessibili, dovrai cambiarti nel bagno del bar qui di fronte”

“Non ho tempo di adeguare la coreografia alla tua fisicità”

“Purtroppo non prevediamo compenso per l’assistenza personale per cui dovrai pensarci tu”

Buon pomeriggio a tutt, queste sono solo alcune delle innumerevoli frasi che molte persone con disabilità che lavorano nella musica, nel teatro e nella danza, si sentono dire nella quotidianità e oggi sono qui per raccontarvi di queste esperienze.
C’è chi ha studiato canto per anni ma non ha potuto entrare nella scuola che sognava perché non c’erano ascensori. Chi ha superato provini su provini, ma è stata esclusa/o perché nessuno voleva “assumersi la responsabilità” di avere una persona con disabilità in compagnia.
C’è chi ha rinunciato a produzioni teatrali perché i costi dell’assistenza personale erano a suo carico. Chi ha lavorato senza guadagnare nulla, perché l’intero cachet è servito a pagare l’assistente. E poi c’è chi ha perso la pensione di invalidità per aver accettato un contratto precario e mal pagato.
Ci sono artistə che si cambiano nei bagni del foyer o in macchina, perché i camerini non sono accessibili. Che vengono sollevatə di peso per raggiungere un palco, mettendo a rischio la propria sicurezza e quella di chi aiuta. Che attraversano cortili, scalini e passaggi esterni ogni volta che devono andare in bagno, consumando energie che dovrebbero essere dedicate alla scena.
Ci sono coreografi che non sanno – o non vogliono – adattare una coreografia. Registi che rinunciano ad integrare. Scuole di danza dove durante un esercizio sensoriale si ride delle persone neurodivergenti.
C’è chi arriva a un festival e scopre che la camera d’albergo scelta dalla produzione non è accessibile e per tre giorni non può nemmeno fare una doccia dopo le prove. Chi, la sera della cena con i produttori, resta fuori dal ristorante per via di due rampe di scale e perde l’occasione di far conoscere il proprio lavoro.
Ci sono teatri che chiedono di provare e montare tutto in 30 minuti, senza capire che per alcune persone non è una richiesta logistica: è un’esclusione mascherata da tabella di marcia.

Tutto questo accade in Italia. Oggi.

E non parliamo di eccezioni: parliamo di una struttura. Di una cultura che considera le persone con disabilità come un problema da gestire e non come protagoniste del mondo artistico. Una cultura che impone sacrifici sistematici a chi dovrebbe solo poter creare, formarsi, esprimersi, lavorare. L’accessibilità non è una gentile concessione. È la misura del nostro impegno per una società in cui la libertà e la bellezza siano davvero per tuttə.

Continua a leggere...