Nel corso delle ultime settimane, sono state molteplici le riviste che hanno proposto riflessioni legate allo stato di salute del settore produttivo della moda.
Un settore che negli ultimi decenni ha visto moltiplicare nel mondo la propria rilevanza, trasformandosi da icona del bello ad icona del lusso. Grandi gruppi finanziari hanno iniziato ad avviare strategie di investimento importanti, sviluppando strategie di diversificazione, dapprima attraverso la creazione di filiere di produzione del valore distribuite su tutto il pianeta, poi sviluppando attività non caratteristiche, come le strategie di investimento immobiliare, e divenendo così sempre più un simbolo di ricchezza, con l’emersione di veri e propri colossi come LVMH, con fatturati annui multimiliardari, asset fisici (immobili) distribuiti in tutto il pianeta (a fine ’22, la società possedeva circa 5.700 negozi, senza tener conto degli stabilimenti produttivi).
L’ascesa di tali società si fonda, tuttavia, su modelli di business che non sempre agiscono secondo una logica di sviluppo territoriale, e tale condizione può essere soltanto mitigata dagli impegni assunti e condotti in termini di Corporate Social Responsibility (la responsabilità sociale d’impresa, filone con il quale si intende misurare la validità delle aziende non solo secondo i canonici criteri economico-finanziari, ma anche attraverso gli impatti che tali aziende o società sviluppano nel mondo).
Da decenni, infatti, il mondo della moda, con particolare riferimento ai segmenti più ricercati, si basa su una catena di produzione del valore che coinvolge, oltre alle imprese che detengono e distribuiscono i prodotti (i brand), una serie di società di piccole e piccolissime dimensioni, che si occupano della lavorazione di specifiche componenti del prodotto finale, e che a loro volta sono intermediate da altri soggetti il cui lavoro è, in sostanza, coordinare i rapporti tra la società del lusso (che è il soggetto che immetterà nel mercato il prodotto), e la galassia di piccoli e piccolissimi fornitori che concretamente realizzano il prodotto.
In questo meccanismo, tuttavia, si assiste ad una grande differenza di produzione di valore. Senza entrare in dettagli tecnici, è piuttosto nota tale distribuzione. All’apice di tale organizzazione c’è il brand che propone sul mercato un prodotto a prezzi molto elevati, e che le persone acquistano non solo perché tali prezzi esprimono elementi oggettivi (come la qualità del prodotto), ma anche elementi immateriali, che dalla ricercatezza alla esclusività, fino al loro essere “beni di status”, costituiscono un valore aggiunto importante.
Al lato opposto di questa organizzazione ci sono le conoscenze, le competenze, quel “know-how” molto spesso artigianale che è una delle componenti più centrali dell’intero “castello”: tutte le componenti immateriali che influiscono sulla percezione globale del brand e dei suoi prodotti sono infatti paragonabili a degli strumenti “derivati”, che tuttavia si fondando su un “sottostante”, e quel sottostante è, in buona sintesi, l’oggetto che è immesso nel mercato.
Si tratta di una dimensione piuttosto “razionale”, che tuttavia rischia di condurre a potenziali cortocircuiti quando il valore dei derivati inizia a perdere una reale connessione con i sottostanti su cui sono costruiti.
Tornando all’economia reale, nel nostro Paese ci si sta iniziando a render conto che il settore, per come è costruito oggi, presenta alcune criticità che rischiano di avere impatti significativi.
Si tratta di criticità strutturali, che si basano su prassi ormai consolidate, e che richiederanno pertanto importanti cambiamenti per essere modificate.
Si pensi ad esempio alla differenza di potere contrattuale esistente tra i vari operatori del settore: da un lato c’è un brand che ha grandissima capacità di spesa, e che non solo determina il valore sul mercato del prodotto, ma anche il prezzo a cui tale prodotto deve essere acquistato, e dall’altro esiste una galassia di piccole e piccolissime realtà territoriali, che spesso fondano la loro intera esistenza sul rapporto di fornitura con un singolo cliente. Da un lato un colosso, rappresentato sul territorio da una figura intermediaria; dall’altro un imprenditore locale che senza quella commessa difficilmente riuscirà a sopravvivere.
Analizzata all’interno di uno schema economico classico, tale rapporto di forza può sembrare ragionevole, ma perde del tutto la propria logicità se ci si concentra sul sottostante: perché è l’imprenditore locale a generare valore, non l’intermediario, e, sempre ragionando sul sottostante, e quindi sul prodotto materiale che viene immesso nel mercato, nemmeno il brand del lusso.
Vista da questa prospettiva, sarebbe invece logico il contrario di quanto accade: chi genera valore dovrebbe avere un vantaggio competitivo, mentre chi genera operazioni che si basano su quel valore, dovrebbe trovare in una condizione di “dipendenza” infrastrutturale.
Quello che determina quindi questa anomalia del potere contrattuale (che in realtà è visibile in molti settori, non solo quella della moda), è semplicemente “il denaro”.
Questa condizione è una criticità sistemica, che ben si riesce ad arginare fin quando il mercato cresce, ma che alle prime contrazioni inizia a mostrare che l’intera struttura si basa su fondamenta che sono molto fragili.
E così, come riporta il Fatto quotidiano, emergono casi come Sud Salento S.r.l., una realtà che con i suoi 335 dipendenti non si può propriamente definire minuscola, ma che a fronte di una decisione del proprio committente principale di abbassare i livelli produttivi per rispondere in modo dinamico al calo della domanda dei propri prodotti, non ha trovato altra alternativa che licenziare un terzo dei propri dipendenti. E, sempre come riporta la stampa generalista, questo non è l’unico caso.
A questo punto diviene però necessario fare un passo “indietro”, e mettere ogni cosa nel giusto ordine. La narrazione semplificata che è stata sinora adottata non vuole in alcun modo proporre una visione piramidale in cui il brand è il “re”, che identifica negli intermediari i propri “vassalli”, e di lì a catena valvassori, valvassini e infine gli artigiani come “servi della gleba”.
In ognuno di questi passaggi si crea valore, di cui ognuno beneficia anche sulla base del rischio d’impresa, e delle competenze acquisite non soltanto in una logica di produzione, ma anche in termini di tecnica commerciale, manageriale, finanziaria.
Assumere tuttavia la prospettiva dell’anello più debole della catena è in ogni caso importante per poter comprendere come migliorare il sistema nella sua interezza, senza assumere alcuna posizione ideologica ma ripercorrendo, punto a punto, il percorso che dalla materia prima diviene semilavorato, poi prodotto, poi icona di stile e di lusso.
È una prospettiva con cui il nostro Paese deve fare i conti e per differenti ordini di motivi.
Al gradino più alto c’è la riflessione strategica: le dinamiche che sono state costruite negli ultimi decenni hanno infatti di molto indebolito la struttura del “made in Italy”, che pur rappresentando un valore aggiunto altamente ricercato nel mercato globale, attraverso la strutturazione del mercato viene distorto al punto da tradursi in una posizione di debolezza contrattuale al pari di quanto accada con manodopera a basso costo in Paesi che non godono dello stesso riconoscimento dell’Italia.
Immediatamente successiva è la riflessione legata alla dimensione industriale: una catena di produzione di questo tipo implica un’aleatorietà importante in termini di stabilimenti produttivi, occupazione, investimenti. Un’aleatorietà che non giova la costruzione di percorsi di natura finanziaria di bassa o media dimensione. Sarebbe infatti incauto, per un piccolo investitore, allocare parte dei propri capitali in un’industria di produzione tessile che rischia di chiudere i battenti se, per qualsiasi motivo, dovesse verificarsi una riduzione della domanda di beni di lusso in Giappone o in Cina.
Tale condizione comporta ancora un’altra riflessione, che è quella economica collettiva: al di là degli impatti sulla vita economica delle persone (precarietà significa riduzione dei consumi e degli investimenti ed incremento, quando possibile, della sola componente di risparmio), e lasciando fuori dalla riflessione tutte le implicazioni sociali, relazionali e anche culturali (inteso come cultura di un territorio che si riflette sulla vita dei singoli), c’è anche la dimensione del sostegno a quei dipendenti che, d’improvviso, rischiano di perdere il proprio posto di lavoro, e che coerentemente con i principi su cui si basa il nostro sistema Paese, vengono sostenuti anche attraverso il ricorso a risorse straordinarie messe in campo dal settore pubblico.
A fronte di tali considerazioni, quindi, piuttosto che esser pronti, come collettività, a sostenere il comparto nel caso di crisi, forse sarebbe più corretto iniziare a riflettere su come sostenere il comparto per svilupparne la solidità, la crescita, lo sviluppo.
Al centro del tavolo, probabilmente, non dovrebbero esserci le trattative per i licenziamenti, ma lo sviluppo di nuove società, nuovi brand, in grado di distribuire in modo più equo la ricchezza prodotta, e che siano in grado di definire anche un sistema del made in Italy più forte, in cui alle dimensioni della mera produzione si associno anche quelle del disegno, della progettazione, e infine della valorizzazione di tali prodotti.
Quest’ultima riflessione apre poi le porte ad una connessione che non sempre pare essere presa in considerazione quando nel nostro Paese si parla di “industria culturale e creativa”. L’Italia, con i suoi Musei, la sua Storia, la sua Arte, il suo Design, e tutto ciò che siamo soliti associare al nostro Paese quando ne vogliamo tessere le lodi, oltre ad avere ereditato tali patrimoni, ha anche maturato, in alcuni settori, una grande capacità di valorizzarli.
Tale competenza (che dal Colosseo al Cristo Velato, dagli Uffizi fino a Brera) altro non è che la capacità di creare valore aggiunto che rende inestimabile un patrimonio che siamo soliti dare per scontato rappresenti un incontestabile tesoro per l’umanità.
Malgrado tale affermazione sia sostanzialmente corretta, è anche giusto ricordare che non è sempre stato così: quasi tutti i nostri monumenti, nella storia, sono stati percepiti in modo molto differente. Lo stesso Colosseo, che oggi è simbolo indiscusso del nostro Paese, ha conosciuto momenti di alterna fortuna.
Riconoscere la capacità di creare valore immateriale da elementi materiali è un tassello importante per il nostro Paese, non soltanto per un riconoscimento storico, ma come competenza distintiva che, come collettività, dobbiamo sempre più imparare a sviluppare.
Il sistema della moda, come espressione delle nostre industrie culturali e creative, non può certo essere stravolto, ma può essere arricchito, consolidato, sviluppato. Occorre fantasia, modelli di business innovativi, capacità di dialogare con investitori, volontà anche politica di sostenere un processo di riconfigurazione industriale, e soprattutto coraggio.
È però prioritario avviare una riflessione in questo senso. Perché un euro speso per sostenere lo sviluppo del Paese, basato su competenze distintive e su progettualità concrete, male molto ma molto di più di un euro speso per evitare che le crisi colpiscano i dipendenti.
Non che questi ultimi non siano dovuti, anzi. Ma piuttosto che star lì a medicare le ferite, sarebbe più utile costruire delle armature più pesanti.