Il futuro non è scritto

Il futuro non è scritto

Conferenza Stampa al Senato della Repubblica, letto da Chiara Bersani

Buona sera.

In qualità di artiste e artisti con disabilità oggi prendiamo parola a partire da una catena di urgenze che non possono più essere silenziate. Per farlo è necessario prima contestualizzare il tempo e il luogo da cui stiamo parlando.

Quello che sta accadendo negli ultimi giorni nel mondo dello spettacolo, dopo la divulgazione degli esiti del Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo, non è un semplice cambiamento: è una frattura. Una frattura che segna con nettezza la distanza tra chi ha accesso agli strumenti per lavorare e chi ne viene privato, chi ha diritto a esistere sulla scena artistica e chi no. Con le recentissime scelte delle commissioni ministeriali viene messa in discussione la sopravvivenza di quelle realtà che negli anni hanno sostenuto la ricerca contemporanea, realtà che hanno spesso lavorato da posizioni marginali per costruire visioni alternative nei territori più fragili, dialogando con artiste e artisti esclusi dai grandi circuiti mainstream. In questo contesto, culturalmente fertile e finanziariamente arido, artiste e artisti con disabilità hanno iniziato a muovere i primi, difficilissimi passi. Siamo una generazione scarna, affaticata, che solo grazie ai sostegni di altri paesi europei è riuscita a formarsi ed avviare progetti riconosciuti sul piano internazionale ma che oggi, pur avendo visione, competenza e desiderio, non riesce ad accedere agli strumenti minimi per poter lavorare e creare pensiero, arte ed economie.

Non si può decidere di fare a meno di noi, cittadine e cittadini con diritto di voto ed espressione, con competenze ed esperienze fondamentali allo sviluppo della cultura del nostro paese. Ma per essere persone attive nell’agire sociale, politico e lavorativo, necessitiamo di almeno due garanzie: poter accedere alla formazione e poter agire in ambienti lavorativi accessibili.

Queste prerogative minime non sono negoziabili, sono diritti disciplinati da leggi.

È evidente quanto sia oramai necessario ristrutturare il modo di pensare l’intero sistema artistico, dalle accademie alle produzioni, affinché venga ampliato il range di identità e corpi che possano fruirne in modo sistemico e non attraverso maldestri tentativi riparatori. Attualmente l’esclusione inizia dalla possibilità di accedere o meno ad un programma di formazione. La maggior parte delle accademie e delle scuole d’arte non sono accessibili per le architetture e per la preparazione del corpo docenti, ancora non adatta a valorizzare l’espressività di studenti e studentesse con disabilità. Questo genera il primo strappo anche all’interno della comunità disabile: chi può permetterselo per economie e autonomia prova a formarsi all’estero, per tutte le altre persone resta solo la fortuna di trovare o meno esperienze formative non istituzionali, e quindi non riconosciute – molte delle quali fornite esattamente da quelle realtà sopracitate che sono state declassate, e quindi private di forze ed economie, dalle nuove graduatorie ministeriali.

Se oggi un giovane artista disabile ci chiedesse dove possa formarsi come danzatore, cantante o attrice/attore noi, con il cuore spezzato e un profondo imbarazzo, non sapremmo rispondere.

Per quanto riguarda il mondo del lavoro: le Open Call, i bandi e le selezioni pubbliche sono spesso inaccessibili. Non basta aprire una call “a tutte e tutti” se poi il linguaggio, i tempi o le modalità escludono sistematicamente chi ha esigenze diverse. A tal proposito Al.Di.Qua.Artist, in qualità di associazione di categoria, assieme ad altri soggetti sociali, da cinque anni ha aperto un tavolo di lavoro per richiedere e intelligentemente organizzare un fondo dedicato alle artiste e agli artisti con disabilità. Il fondo dovrebbe coprire i costi che si aggravano sulle nostre carriere durante i momenti di tournée, produzione e prove, a causa di un sistema che ancora non ha saputo abbattere barriere architettoniche, culturali e sensoriali. Costi che rendono asimmetrici i nostri percorsi di crescita professionale rispetto a quelli delle nostre colleghe e colleghi.

Da tre anni il Ministero della Cultura promuove un avviso pubblico che tuttavia continua a rivelarsi fortemente sganciato dalle nostre esperienze incarnate e dalle realtà lavorative in cui agiamo. L’avviso richiede velocità, produttività e competitività, progetti misurati prevalentemente con indicatori quantitativi mentre le nostre esperienze incarnate chiedono lentezza, tempi di riposo, sostegno reciproco. Chiediamo quindi che le open call scritte sui nostri corpi siano monitorate e valutate da esperti competenti, altrimenti questo avviso, come altri, risulta impraticabile per la stragrande maggioranza dei soggetti ai quali dichiara di rivolgersi, mostrandosi inadeguato ad agire sul gap economico e culturale che dovrebbe ridimensionare.

Nel fortunato caso in cui un artista disabile riesca ad accedere alla selezione per un progetto lavorativo, continuerà a rimanere una figura professionale economicamente non competitiva. I costi di assistenza personale e messa in accessibilità di sala prove, camerini e alloggi, restano scoperti e quindi destinati a ricadere o sul lavoratore o sulla produzione che inevitabilmente sceglierà un profilo meno “richiedente”.

Ulteriore problema è l’irrisoria soglia di reddito annuo oltre la quale una persona perde il diritto a ricevere la pensione d’invalidità o la vede ridimensionata. Questo sistema non tiene conto della natura intermittente del lavoro artistico e quindi della difficoltà ad avere un reddito stabile. Sono in tante le persone tra noi che rinunciano a lavorare perché un progetto artistico che si compie quest’anno verosimilmente non si estenderà al successivo e quindi il rischio di trovarci a non avere in un futuro prossimo né un lavoro né una pensione è troppo alto.

Per tutte queste ragioni oggi siamo qui a chiedere una serie di impegni concreti e immediati:

Chiediamo la messa in accessibilità dei programmi di formazione delle accademie e preparazione degli insegnanti a pratiche e metodologie inclusive finalizzate a promuovere una cultura accessibile e antidiscriminatoria fin dai primi stadi dell’educazione artistica.

Chiediamo la rimozione delle barriere architettoniche, sensoriali e culturali in tutti gli ambiti dello spettacolo e lungo l’intera filiera professionale dalla formazione alla produzione e distribuzione artistica, per garantire l’accesso professionale di artisti con disabilità in tutti gli ambiti dello spettacolo.

Chiediamo l’istituzione di un fondo dedicato che copra i costi di accessibilità necessari a garantire autonomia ed eque condizioni professionali nelle fasi di produzione e tournée.

Parliamo della copertura economica del lavoro di assistenza personale, di interpretariato LIS, degli alberghi accessibili, dei mezzi di trasporto consoni ecc.

Chiediamo la messa in accessibilità di tutte le Open Call di settore

Chiediamo la rivalutazione delle norme sul limite di reddito che fanno decadere la pensione di invalidità alla luce della natura intermittente del lavoro artistico

Noi oggi siamo qui perché abbiamo bisogno di essere viste e che con noi venga vista la complessità della nostra situazione lavorativa.

A chi dice che i tempi sono difficili, che le priorità sono altre, che bisogna aspettare, rispondiamo che noi siamo vive adesso e il tempo dellattesa non può essere il nostro. Noi non abbiamo più tempo!

Perché mentre si aspetta, si invecchia fuori dalla scena.
Mentre si aspetta si diventa adulti senza aver avuto la possibilità di formarsi.
Mentre si aspetta si spegne il diritto di immaginare un futuro.
Mentre aspettava, qualcuno tra noi, è morto.

Il lavoro nello spettacolo non può essere considerato un privilegio o un passatempo altrimenti la qualità sarà sempre più infima, la pluralità annullata e la riflessione collettiva impoverita.

Oggi, qui, noi parliamo di cittadinanza, identità e diritto.

Ed è responsabilità della politica creare e garantire le condizioni necessarie affinché nessuna persona sia costretto a scegliere tra ricevere un sostegno per l’assistenza o poter vivere un’esperienza lavorativa.

Per questo oggi, in questa sede, chiediamo alla politica di assumersi un impegno pubblico serio e lungimirante in sostegno e tutela delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo con disabilità.

E chiediamo che il Governo si esprima chiaramente su quali risorse intende mettere in campo per garantire pari opportunità a chi lavora nello spettacolo e vive con disabilità.

La storia che stiamo scrivendo non ci rende fonte di ispirazione ma soggetti attivi di una battaglia collettiva per i nostri diritti.

Grazie, Al.Di.Qua.Artists
3 luglio 2025

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Discorso – Conferenza Stampa al Senato della Repubblica
Roma, 3 luglio 2025

Testimonianze lavorat dello spettacolo con disabilità

“Non può partecipare al corso, non per mancanza di titoli, ma perché la scuola non è accessibile”

“La tua voce è adatta per la parte, ma non posso prenderti perché non so se i teatri in cui ci esibiremo sono accessibili”

“I camerini non sono accessibili, dovrai cambiarti nel bagno del bar qui di fronte”

“Non ho tempo di adeguare la coreografia alla tua fisicità”

“Purtroppo non prevediamo compenso per l’assistenza personale per cui dovrai pensarci tu”

Buon pomeriggio a tutt, queste sono solo alcune delle innumerevoli frasi che molte persone con disabilità che lavorano nella musica, nel teatro e nella danza, si sentono dire nella quotidianità e oggi sono qui per raccontarvi di queste esperienze.
C’è chi ha studiato canto per anni ma non ha potuto entrare nella scuola che sognava perché non c’erano ascensori. Chi ha superato provini su provini, ma è stata esclusa/o perché nessuno voleva “assumersi la responsabilità” di avere una persona con disabilità in compagnia.
C’è chi ha rinunciato a produzioni teatrali perché i costi dell’assistenza personale erano a suo carico. Chi ha lavorato senza guadagnare nulla, perché l’intero cachet è servito a pagare l’assistente. E poi c’è chi ha perso la pensione di invalidità per aver accettato un contratto precario e mal pagato.
Ci sono artistə che si cambiano nei bagni del foyer o in macchina, perché i camerini non sono accessibili. Che vengono sollevatə di peso per raggiungere un palco, mettendo a rischio la propria sicurezza e quella di chi aiuta. Che attraversano cortili, scalini e passaggi esterni ogni volta che devono andare in bagno, consumando energie che dovrebbero essere dedicate alla scena.
Ci sono coreografi che non sanno – o non vogliono – adattare una coreografia. Registi che rinunciano ad integrare. Scuole di danza dove durante un esercizio sensoriale si ride delle persone neurodivergenti.
C’è chi arriva a un festival e scopre che la camera d’albergo scelta dalla produzione non è accessibile e per tre giorni non può nemmeno fare una doccia dopo le prove. Chi, la sera della cena con i produttori, resta fuori dal ristorante per via di due rampe di scale e perde l’occasione di far conoscere il proprio lavoro.
Ci sono teatri che chiedono di provare e montare tutto in 30 minuti, senza capire che per alcune persone non è una richiesta logistica: è un’esclusione mascherata da tabella di marcia.

Tutto questo accade in Italia. Oggi.

E non parliamo di eccezioni: parliamo di una struttura. Di una cultura che considera le persone con disabilità come un problema da gestire e non come protagoniste del mondo artistico. Una cultura che impone sacrifici sistematici a chi dovrebbe solo poter creare, formarsi, esprimersi, lavorare. L’accessibilità non è una gentile concessione. È la misura del nostro impegno per una società in cui la libertà e la bellezza siano davvero per tuttə.

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Nel Carcere di Volterra dal 25 al 28 luglio andrà in scena un nuovo spettacolo della Compagnia della Fortezza, una riscrittura originale della Cenerentola. Fondata dal regista e drammaturgo Armando Punzo nel 1988, la Fortezza è una delle compagnie di ricerca teatrale più note e premiate al mondo, e a oggi è la più longeva esperienza di teatro professionale all’interno di un istituto di pena.

Quarto capitolo di una lunga saga cominciata dieci anni fa, Cenerentola è un viaggio nel mondo dell’arte, della scienza e della conoscenza, alla ricerca di compagni e compagne di strada di ogni epoca; figure straordinarie che attraverso le loro ricerche nei campi più vari del sapere, dalla matematica alla fisica, dalla letteratura alla pittura, dalla poesia alla musica, ci hanno insegnato a guardare oltre il reale, oltre il quotidiano, oltre ogni certezza data, oltre ogni destino già segnato. Lo spettacolo sarà quindi una riscrittura della classica fiaba che tutti conosciamo, per dare forma a una Cenerentola intesa come “vita piena”, come “vita senza paura”.

Per la realizzazione dell’opera, Punzo, i suoi collaboratori e i detenuti-attori stanno immaginando una “macchina scenica dell’incanto”. Scenografie, costumi e oggetti di scena, pensati, disegnati ed elaborati per creare una serie di giganteschi tableaux vivant in continuo mutamento. Uno spazio fisico, concreto, in cui possa prendere vita un’utopia altrettanto concreta.

Il progetto per la realizzazione di scenografie e costumi è molto ambizioso e la sua realizzazione richiede un budget superiore a quello annualmente a disposizione della Compagnia. Per questo si è reso necessario lanciare una campagna crowdfunding per chiedere sostegno a tutti/e coloro che vorranno offrire un contributo alla realizzazione di questa nuova grande opera.

Cenerentola ha in sé tutte le possibilità, è uomo, donna, pianta, animale, è sé stessa e allo stesso tempo oltre se stessa. È acqua, terra, fuoco, aria, è stella in un universo di stelle lucenti e pianeti spenti, abbandonati questi ultimi, a specchio con noi, al loro solitario inutile vagare e girare su sé stessi. Ma non lo sa ancora, non le si è ancora rivelata quella fenditura del reale che la porterà lontano da ciò che è stata indotta a pensare di essere.

Questi pianeti ci assomigliano, ne abbiamo un vago sentore in noi che non afferriamo fino a quando una visione non ci libera da noi stessi. Lei non pensa, è. È noi, desiderosi di andare oltre noi. È il principio vitale che genera vita, guarda alla vita ed è per la vita senza nessuna fatica. È la curiosità che dovremmo avere e che dimentichiamo di esercitare, è la forza in divenire che ci sostiene e che tradiamo. I nostri pensieri, invece, per lo più ordinari, ci proiettano in terra, ci legano. La ricerca è fuori dal cerchio dell’ovvietà. Cenerentola non sa ancora che la cenere che la ricopre è quella di un mondo che brucia per far posto ad un altro, svanito in volute di fumo grigio. Quello che resta di questo quadro è punto di fuga per un’azione insensata, che sconvolge il canone interiore ed esteriore, è l’esplosione, è la fusione iniziale, la caduta degli dei e il sorgere di un uomo nuovo; porta d’accesso al possibile di un’esistenza rinnovata. Fuga in avanti, proiezione delle mille possibilità dell’uomo che si raccordano grazie ad altre Cenerentole, umanisti e scienziati, che sognano ad occhi aperti il davanti a loro. Ernst Bloch è il teorico del sogno ad occhi aperti, tratta l’utopia come il possibile concreto che si può raggiungere, il non ancora esistente che si può realizzare a costo di perdere noi stessi, di mettere in atto una trasformazione che confligge con quelle che sembrano verità inscalfibili. L’utopia è la verità della vita possibile e libera, della vita che cerca l’umano nell’uomo, citando Vito Mancuso. Il quadro iniziale in cui è inserita Cenerentola ha i colori dell’arrendevolezza, quelli rassicuranti in cui tutti possono sentirsi rappresentati, quelli che ci inducono ad amarla senza conoscerla perché riconosciamo in lei la nostra condizione di uomini umiliati, sviliti, arresi, da noi stessi nel nostro essere matrigna, figlie e figliastra. La narrazione della sua misera esistenza sembra essere l’unica realtà possibile, quella senza scampo di una vita già scritta che viene da lontano e che proietta nel futuro il suo limite, la stessa che intuiamo in noi e per noi, anche se noi sappiamo che possiamo eccedere, ma abbiamo timore di frequentare i limiti della nostra esistenza. Ma nel riconoscere questa Cenerentola, sveliamo in noi il bisogno di alterità che chiamiamo arte, poesia, filosofia, bellezza, scienza, in un connubio che ci riporta alle origini delle domande dei primi filosofi sul mistero della vita e del mondo. Cenerentola nel nostro specchio deformato è arte che non si arrende, pensiero scientifico senza limiti, è possibilità del bene, dell’amore, della felicità.

Un artista può assecondare il paradigma del suo tempo, può assumere in sé l’intero universo culturale in cui sente di essere immerso (come in una prigione invisibile), oppure opporsi perché in questo sente il suo limite e il limite imposto all’uomo. Il male si manifesta nella accettazione distratta dell’esistente, del così è nella forma non consapevole della propria condizione, nell’ignoranza del proprio essere e del limite che subisce.

L’arte non dovrebbe ridursi a mendicare accettazione, accoglienza e funzioni, non dovrebbe recedere dalle sue prerogative rivoluzionarie per compiacere un mondo, la società, e uomini che sentono minacciate le proprie certezze. Dovrebbe essere la favola del possibile. Dovrebbe essere la Cenerentola dalle mille potenzialità che si manifestano a contatto con il mondo. Non dovrebbe preoccuparsi di sentirsi utile, anche quando lo stato di solitudine assoluto può diventare disperante per l’animo dell’artista e tutto sembra contrario alle sue forze. La verità di una visione – se si tratta di una visione libera da tali inganni e legami – è tale da creare buchi nella realtà, squarciare veli spessi di secoli, spazzare via credenze, offrire, per necessità incarnata, prospettive di crescita, allargamento di coscienza e emancipazione dell’uomo.

Armando Punzo

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Maggio 2025
Aleksandra Jovićević, Ana Vujanović

La performance, le arti performative e i performance studies sono concetti, relativamente recenti e non del tutto definiti, che abbracciano varie pratiche artistiche e teoriche. Tralasciando le molteplici definizioni linguistiche e semantiche, con il termine “performance” intendiamo un comportamento, un’esibizione, un evento o un’azione pubblica. Con “arti performative” intendiamo, invece, le diverse pratiche artistiche, i modi del fare, come la performance art, la body art, gli happening, le diverse scritture coreografiche e corporee, che non sono solo oggetto di studio della storia dell’arte e dello spettacolo, ma anche dei performance studies. Con cui proponiamo una disciplina, nata come sintesi di diverse discipline scientifiche: l’antropologia, la teatrologia, la sociologia, l’estetica, la filosofia, la psicoanalisi teorica, e i cultural, feminist, gender e queer studies ecc. A prima vista, una gamma così vasta di discipline e di metodi può sembrare incoerente, ma dimostra la “democraticità” e l’apertura dei performance studies, che permettono la ricerca e l’analisi di tutti gli aspetti del comportamento umano e postumano, dalle più semplici performance nella vita quotidiana fino alle diverse performance artistiche e culturali, incluse la performatività della scienza e della natura.

Fin dalla loro fondazione, i performance studies non si limitano all’analisi degli atti performativi ma anche all’analisi dei loro contesti sociali, politici e culturali, così come le conseguenze che ne derivano. Sono proprio i contesti e le conseguenze ciò che la nostra ricerca si propone di articolare. Grazie ai performance studies, la nostra conoscenza di ciò che è definito come “performance” è continuamente indagata in quanto esempio di una vitale prassi artistica e allo stesso tempo come uno strumento per interpretare i molteplici processi sociali, politici, culturali. Precisamente, questo volume rappresenta un tentativo di rivolgere l’attenzione ai complessi mutamenti sociali e culturali del nostro tempo, influenzati dalle tecnologie, dalla mediatizzazione della società, dal discorso radicalizzato della coscienza civile, dai problemi ecologici, dai nuovi discorsi bioetici, dalla medicalizzazione e dalla mediatizzazione del corpo, come anche dalla globalizzazione e dal nuovo ordine del mercato neoliberale.
I performance studies si sono sviluppati e ramificati in molteplici direzioni e di recente hanno subito notevoli cambiamenti, che a livello epistemologico riflettono le tendenze di fondo e le tensioni interne alle discipline umanistiche, dalla storia dell’arte e spettacolo ai cultural studies. La complessità e diversità dei performance studies è spesso utilizzata per leggere e interpretare diversi fenomeni, eventi, concetti e testi sociali e culturali. Negli ultimi due decenni l’apertura degli studi verso il nuovo materialismo, le grammatiche dell’espressione corporea, le pratiche discorsive, la performatività della natura, il postumano e le diverse forme di femminismo (femminismo intersezionale, anarco-femminismo, eco-femminismo ecc.) ha permesso di sviluppare nuovi approcci e metodologie interdisciplinari. Il nostro lavoro rappresenta, quindi, un tentativo di offrire diverse definizioni, gettando al contempo uno sguardo critico sull’istituzionalizzazione dei performance studies, spesso definiti come una postdisciplina. Tale definizione implica che si tratti di un nuovo metodo che supera la precedente suddivisione delle discipline accademiche e che è in continua evoluzione, soggetto al cambiamento tanto quanto la società circostante.

Ci proponiamo che la ricerca così concepita possa costituire una guida per tutte le persone interessate allo sviluppo dei performance studies, così come delle discipline affini, quali gli studi postfemministi e postcoloniali, queer, black ed indigenous studies, le teorie di decolonizzazione e deculturalizzazione, così come anche le nuove forme dell’estetica e della filosofia delle arti.

La performance, come categoria generale, deve essere costruita come ‘vasta gamma’ oppure ‘continuum’ di azioni a partire da rituale, gioco, sport, divertimento popolare, arti performative (teatro, danza, musica) e performance quotidiane, fino all’esecuzione dei ruoli sociali, professionali, di genere, razza e classe, alle pratiche curative (da sciamanesimo a chirurgia) e alle varie rappresentazioni e costruzioni di azioni nei media e su internet.
R. Schechner, Foreword: Fundamentals of Performance studies, in Teaching Performance studies

Secondo questa definizione di Schechner, molte performance appartengono a più di una categoria (per esempio i giochi olimpici sono contemporaneamente una manifestazione sportiva, ma anche un grande rituale sociale e un evento mediatico). Lungo il continuum delle pratiche performative si sommano costantemente nuove forme, mentre altre vengono eliminate. Inoltre, a differenza della teatrologia, della filmologia, o della storia dell’arte, i performance studies non sono legati a un medium preciso. Questo rende i performance studies particolarmente adatti per analizzare tutte le possibili forme di espressione artistica e altri tipi di espressione che sintetizzano e integrano movimento, suono, linguaggio, narrazione, corpi e oggetti. Come già notato, l’accento va posto soprattutto sul comportamento, il suo contesto e la sua percezione. Un’opera d’arte può essere la stessa, sia che venga esposta in un museo o in una galleria, ma inserita in un diverso contesto di esposizione e percezione, essa acquisisce nuove connotazioni, anche nel caso in cui si tratti dello stesso artefatto. In altre parole, la particolarità dell’opera non sta nella sua materialità, ma nella sua interattività, anche se si tratta di oggetti materiali. Di conseguenza, i performance studies non sono semplicemente una teoria sulle arti performative, ma una forma di percezione che permette di individuare diverse forme di esperienza. Queste esperienze possono incrinare o rovesciare il regime epistemico esistente, creando nuove grammatiche della performance, avvicinando i performance studies al pensiero di Jacques Rancière, che definisce l’estetica come una nuova partizione del sensibile.

Chiamo partizione (partage) del sensibile quel sistema di evidenze sensibili che rendono contemporaneamente visibile l’esistenza di qualcosa di comune e le divisioni che, su tale comune, definiscono dei posti e delle rispettive parti. Una partizione del sensibile fissa, dunque, allo stesso tempo un comune condiviso e delle parti esclusive. Questa partizione delle parti e dei posti si fonda su una ripartizione (partage) degli spazi, dei tempi e delle forme di attività che determina il modo stesso in cui un comune si presta alla partecipazione e il modo in cui gli uni o gli altri avranno parte a questa partizione.
J. Rancière, La partizione del sensibile: Estetica e politica, DeriveApprodi, Roma 2022.

I performance studies trattano la performance secondo quattro direttrici principali.

In primo luogo, considerano qualsiasi comportamento umano “ripetuto” o “preparato” come un oggetto di ricerca, prestando particolare attenzione a quelli che rivelano l’artificialità sociale nascosta dietro la cosiddetta “naturalezza” della vita quotidiana. Sebbene i teorici della performance facciano ampio ricorso a materiali d’archivio (libri, articoli, saggi, fotografie, documenti archeologici ecc.), la loro attenzione principale si concentra su ciò che Diana Taylor definisce come “repertorio incarnato”, ovvero un insieme di pratiche, gesti e memorie che si trasmettono attraverso il corpo, costituendo resti vivi del processo performativo.

In secondo luogo, un aspetto cruciale dei performance studies è rappresentato dalla performance art. Numerosi teorici e artisti che si occupano di forme di performance considerate nuove, sperimentali e d’avanguardia hanno già integrato direttamente molte delle tecniche e delle forme della performance art. Questo ha reso quasi integrale il rapporto tra la realizzazione della performance, la sua interpretazione critica e lo studio teorico.

La terza direttrice dei Performance Studies è il metodo antropologico della “descrizione densa” (thick description) elaborato da Clifford Geertz (The Interpretation of Cultures, 1973), che nei performance studies assume una nuova configurazione nell’analisi e nell’osservazione della performance. Se in antropologia la descrizione densa era impiegata per comprendere culture “altre”, nei performance studiesviene utilizzata per esplorare la propria cultura e i propri comportamenti, spostando lo sguardo dall’esotico all’endotico. Questo tipo di osservazione/studio, che implica simultaneamente la partecipazione diretta e il distacco critico nei confronti dell’oggetto d’indagine o di sé stessi, stimola la revisione, la presa di coscienza e il riconoscimento del fatto che le condizioni sociali e il sapere performativo di una persona non sono sempre fissi, ma rappresentano l’oggetto di verifiche e revisioni, un processo che Schechner individua come un continuo “processo di prove”. 

Infine, la quarta direttrice dei performance studies consiste nella loro partecipazione attiva ai processi e alle rivolte sociali. Molte studiose e studiosi dei performance studies non cercano affatto di mantenersi ideologicamente neutri. Anzi, una delle premesse teoriche fondamentali della disciplina è che nessun approccio o atteggiamento possa — o debba — essere neutro, poiché nel comportamento umano non esiste nulla di veramente imparziale. La sfida consiste piuttosto nel coltivare una consapevolezza critica del proprio posizionamento rispetto agli altri, e nel decidere responsabilmente se mantenerlo o trasformarlo. Ad esempio, il nuovo materialismo studia la complessità della continua materializzazione del mondo e il suo cambiamento paradigmatico come produzioni di sapere e posizionamenti etici riguardanti i problemi ecologici, bellici, di violenza e lutto. Questo approccio si concentra sulle significazioni e rappresentazioni che mirano a intrecciare politicamente natura e vita dalle prospettive postcapitaliste, postumane e postcoloniali. Ne consegue la necessità di un’etica capace di assumere piena responsabilità delle nostre azioni nel mondo. Come osserva Hannah Arendt, arti performative e politica condividono un elemento essenziale: entrambe si manifestano nello spazio pubblico come forme di esposizione e di intervento nella realtà condivisa. Arendt paragona l’attività artistica alla prassi politica, evidenziando come la piazza pubblica (agorà) e la scena teatrale rappresentino entrambe spazi di azione. Tra questi due spazi esistono numerose correlazioni, come la co-presenza corporea degli esseri umani, i contatti e la prossimità fisica, che conferiscono una dimensione politica.

Le arti che non realizzano alcuna “opera” hanno grandi affinità con la politica. Gli artisti che la praticano – danzatori, attori, musicisti e simili – hanno bisogno di un pubblico al quale mostrare il loro virtuosismo, come gli uomini che agiscono (politicamente) hanno bisogno di altri alla cui presenza comparire: gli uni e gli altri, per “lavorare” hanno bisogno di uno spazio e struttura pubblica, e in entrambi i casi la loro “esecuzione” dipende dalla presenza altrui.
H. Arendt, La crisi della cultura: nella società e nella politica, in Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 2017.

Tuttavia, come sottolinea Arendt, non si tratta di una definizione in senso stretto, bensì di una metafora — che rischia però di diventare fuorviante se si commette l’errore di considerare lo Stato o il governo come opere d’arte, come un presunto “capolavoro collettivo”. La politica istituzionale, infatti, resta strutturalmente estranea — se non contrapposta — alla logica dell’arte. Infatti secondo Arendt, nel corso del Novecento, scrittori, filosofi, artisti e altri intellettuali hanno potuto accedere alla sfera pubblica solo in periodi di rivoluzione, e il movimento dell’arte moderna stesso ha avuto origine da una fervida ribellione degli artisti contro le stesse società costituite. Nonostante questa posizione marginale, esistono ancora artiste e artisti che utilizzano la performance come strumento di critica radicale contro varie forme di oppressione, guerre, razzismo, patriarcato, femminicidi, tardo capitalismo e crisi ecologiche. Regina José Galindo, Coco Fusco, Piotr Pavlenskij, Selma Selman, Tania Bruguera, Shirin Neshat, Ron Athey, Tanja Ostojić, Daniela Ortiz, Susana Pilar, Kader Attia, Gabrielle Goliath e altre/i sono tutte/i artiste/i in cui la praxis e la poiesis mirano a produrre cambiamenti nelle società in cui vivono, soprattutto attraverso azioni corporee non discorsive. La performance art introduce una nuova ecologia delle arti, spostandosi dall’estetico e l’impersonale all’autobiografico e l’etico. Secondo Bonnie Marranca, in La performance. Una storia personale, in American performance 1975-2005, a cura di Valentina Valentini, se un tempo la musica era la forma artistica più alta e di riferimento, oggi è la performance art a porsi al centro del sistema delle arti, sia come ontologia sia come gesto che prende forma nello spazio e sulla scena.

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La scorsa settimana, il centro di ricerca PerLa – Performance Epistemologies Research Lab dell’Università Iuav di Venezia ha ospitato un incontro con Bojana Kunst, direttrice dell’Istituto di Studi Teatrali Applicati dell’Università Justus-Liebig di Giessen, autrice del volume L’artista al lavoro. Prossimità tra arte e capitalismo, pubblicato nella collana Performance+ (diretta da Annalisa Sacchi e Piersandra Di Matteo).

In dialogo con Roberta Bernasconi e Ilenia Caleo, le pratiche artistiche contemporanee sono esplorate attraverso le condizioni lavorative precarie e flessibili, legate alla logica del progetto, in un contesto globale segnato da nazionalismi e conflitti geopolitici. A partire da queste riflessioni, Giuseppe Allegri analizza le implicazioni istituzionali e sociali che influenzano il lavoro artistico contemporaneo e le forme di vita.

L’attuale stato di cose, assolutamente disperato, mi riempie di speranze.
Karl Marx, Lettera ad Arnold Ruge, 1844

«Ciò che può rendere le attività umane comuni a tutti noi è il fatto che possediamo la meravigliosa capacità di fare di meno e di fare tutt’altro rispetto a ciò che potremmo fare». Questa frase, posta quasi in chiusura del gran bel “lavoro” di Bojana Kunst su L’artista al lavoro. Prossimità tra arte e capitalismo, mi ha perseguitato negli ultimi mesi, in cui avrei voluto scrivere proprio di questo volume. Eppure mi sono trovato a fare (molto) di meno e (poi) a fare tutt’altro rispetto a quello che comunque avrei potuto (e anche voluto) fare, cioè parlare di questo testo. Un testo che per giunta parla di noialtre tutti, più o meno invischiate nel lavoro culturale latamente inteso, artistico, editoriale, comunicativo, formativo, relazionale, cognitivo, performativo, visivo, teatrale, spettacolare, etc. Insomma, di tutte quelle variegate in/operose attività lavorative che finiscono con il confondersi con la vita, che la vita mettono al lavoro, in una sorta di bulimica e, al contempo asfittica, mobilitazione esistenziale permanente, riempita però di flessibilità, intermittenza, insicurezza, soprattutto della retribuzione e della propria stabilità mentale. Con la consapevolezza che la «precarietà strutturale» (non solo economica) «segna l’esperienza del momento presente, così come le atmosfere e i ritmi della vita contemporanea» (p. 163). Una precarietà a tempo indeterminato e permanente, appunto. Un continuo saliscendi ciclotimico, tra ossessivo burn out e abulica indolenza, nello stratificato auto-sfruttamento di quella potenzialità umana che è di per sé stessa comunicativa, immaginativa, creativa, relazionale. Nell’esausto sfinimento di ciascuna persona immersa nell’alternarsi di «lavoro quotidiano continuo e di lavoro a progetto» (p. 188).

Bojana Kunst

El hombre que trabaja pierde tiempo precioso
Così eccoci qui, finalmente. O ancora. E per fortuna. Visto che il lavoro è malattia, notava ancora Karl Marx citato dal compianto Mladen Stilinović (1947-2015), e può condurci alla morte. Nel Belpaese con oltre mille morti, letteralmente ammazzati dal e al lavoro, ogni anno. Quel Mladen Stilinović che nel 1978 realizzò la sua opera Artist at Work (che dà il titolo al libro), facendosi fotografare mentre dorme nel suo letto. Un fannullone pigramente rilassato, un lavoratore faticosamente operoso; dimentico di sé stesso nel sonno, impegnato a mettere a valore anche il suo riposo. Ma se la vita è lavoro, tutto appare come una proverbiale perdita di tempo. Che disdetta! Soprattutto sapendo che saremo per troppo tempo morti, ci ammoniva quell’assai talentuoso e altrettanto svogliato artista di Andrea Pazienza, che poi se andò veramente troppo presto.

Allora, forse meglio cambiare registro. E questo libro me lo permette. Recuperando, con un “semplice” testo scritto, il tempo perduto in questi mesi in cui (non) ho fatto svogliatamente tutt’altro.  

Vogliamo tutt’altro
Annusa i fiori finché puoi. Così recita il motto che ci introduce nello spazio im-materiale di vogliamo tutt’altro, ambiente assembleare di un plurale movimento trans-generazionale di persone che lavorano nell’ambito della cultura e dell’arte e in assemblea permanente da gennaio 2024. Un pacifico e al contempo indomito esercito di sognatrici e sognatori, di questi tempi? Che fanno tesoro dei propri sonni e sogni? Forse una possibile fenditura dalla quale vedere spazi di presente e futuri alternativi, per rifare il mondo e rovesciare le narrazioni, come esorta Ilenia Caleo nell’introduzione al volume che definirei fantasmagorica, perché attraversata da un fantasmatico immaginario irriducibile all’esistente. Un immaginario collettivo frutto di sommovimenti artistici e culturali stratificati nel nuovo millennio, che può fungere da cassetta per gli attrezzi di nuove linee di fughe: dal precariato culturale e universitario degli anni Zero, alla riapertura degli spazi artistici abbandonati nelle città. Dal Teatro Valle Occupato a Roma e Macao a Milano, tornati nuovamente nel deserto culturale e sociale in cui le affaticate istituzioni locali e nazionali li hanno nuovamente abbandonati, al Sale Docks a Venezia e all’Asilo Filangieri a Napoli, ancora vitalmente attraversati da quella moltitudine di operatori e operatrici del lavoro artistico e culturale che li ha restituiti alla città. Perché ricominciare a immaginare non è mai un ricominciare da zero e troppo spesso siamo dimentichi di noi stessi. Mentre c’è una memoria condivisa che ci permette di sapere chi possiamo ancora essere, chi probabilmente ancora siamo.

Umjetnik radi (Artist at Work), Mladen Stilinovic, 1978.

Tempi nuovi per nuove connessioni
Così è forse questo il momento primaverile per tornare ad annusare i fiori. Insieme. Insieme a quelle coordinate che ci orientano nel tessere nuove e impreviste alleanze, proprio nei tempi che appaiono più disperati e disperanti. Che impresa, ci appare, solo l’azzardare questo orizzonte di eventi a venire. Eppure è questo il tempo di tornare a praticare l’impresa comune di una cooperazione sociale delle molteplici, lentissime e riflessive, attività artistiche e culturali, negli spazi vuoti e abbandonati di una rigenerazione urbana e sociale che può darsi solo pensando altrimenti tanto lavoro e impresa, quanto società e istituzioni, quindi pubblico e comune, per l’autonomia delle città contro i poteri sovrani. Ora che questi poteri sovrani divengono ancora più oscuri e opprimenti, nel vecchio e nuovo Continente.

Proprio a partire da quelle città d’Europa che non dobbiamo abbandonare alla cupa furia nichilistica dei peggiori incubi identitari, ma ripensare come luoghi di nuovi processi di innovazione e invenzione istituzionale, frutto di attività e soggettività irriducibili all’esistente. E con la maturità, da parte delle istituzioni pubbliche locali, di farsi strutture serventi e abilitanti dell’essere in comune della società, riconoscendo gli spazi di autonomia e protagonismo di quelle stratificate e molteplici collettività delle diverse attività artistiche e culturali che cooperano per immaginare città e territori più solidali, accoglienti, creativi e in definitiva felici e sicuri per ciascuna persona. Perché la felicità e la sicurezza sono elementi di una socialità tra molti e diversi, fatta dalle persone che vivono le città, per rifiutare tanto i ricatti dei mercanti politici dell’odio e della paura, quanto la tracotanza della grande malavita organizzata che già usurpa intere zone di quartieri, città, metropoli.

Teatro Valle occupato

L’aria delle città non rende più liberi?
Con l’accortezza di investire (economicamente, socialmente, istituzionalmente) sulle possibilità di una sommersa e variegata porzione di società che si muove faticosamente alla comune ricerca di quell’arte condivisa di pensare e praticare altrimenti i tempi che ci toccano in sorte. Proprio partendo dalle attività ricreative, culturali e artistiche, rompendo la prossimità tra arte e nuove e vecchie forme di dominio, riaprendo la connessione tra arte e gioiosa libertà di vivere insieme. Qui dovrebbe situarsi questo reciproco aiuto, questo mutualistico sostenersi tra le collettività di una società impoverita e l’ingegnosa disponibilità delle istituzioni locali a tessere tanto percorsi comuni di co-design e co-gestione territoriale, quanto sostenere l’impatto sociale di queste pratiche quotidiane di cooperazione e azione comune. Contro le passioni tristi che inquinano quell’aria delle città che avrebbe dovuto renderci libere e liberi.

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Febbraio 2025
Guido Vetere

Gli automi parlanti portano una sfida radicale alle nostre concezioni di linguaggio, cultura e umanità. E invitano a esplorare con rigore e sensibilità un mondo in cui le frontiere tra umano e artificiale si ridefiniscono, interrogando la nostra capacità di convivere con queste nuove presenze, Intelligenze aliene. Linguaggio e vita degli automi (Luca Sossella editore) di Guido Vetere verrà presentato martedì 25 febbraio alle ore 18:30 con l’autore insieme aMaurizio Lenzerini, Mario De Caro e Luca de Biase presso la libreria Spazio Sette di Roma.

Con la comparsa degli automi parlanti, come ad esempio i chatbot, ultima frontiera dell’intelligenza artificiale, l’umanità non si confronta solo con una nuova tecnologia, ma è chiamata a riflettere sul proprio rapporto con il linguaggio, fulcro della vita psichica e sociale. Specialmente nel XX secolo, la filosofia ha guardato al linguaggio come la materia costitutiva della coscienza e il fondamento delle relazioni umane. Cosa accade oggi quando anche gli automi si mettono a parlare?

L’opera inizia richiamando lo spettro inquietante evocato dall’Invasione degli ultracorpi di Don Siegel (1956): alieni che imitano perfettamente l’essere umano, privandolo tuttavia della sua personalità. Così, le macchine moderne replicano perfettamente il linguaggio ma allo stesso tempo ne restano separate, incapaci di comprenderne il nucleo simbolico e intenzionale. Si profila la presenza immanente di un’intelligenza aliena, che ci interroga non tanto sulla sua natura tecnologica, quanto sul modo in cui essa potrebbe trasformare la nostra vita linguistica e con essa la nostra vita sociale.

La riflessione prende avvio dalla “svolta linguistica” della filosofia novecentesca per riconnettere alcuni suoi temi alla tecnicalità dei modelli generativi dell’intelligenza artificiale attuale. Sia nella filosofia, sia nella tecnologia, l’ambizione razionalista della logica formale si confronta con l’empiria pragmatica dei modelli quantitativi e statistici. Nel linguaggio dell’intelligenza artificiale la parola non è un segno, ma una probabilità, una previsione, un moto dell’automa nel campo di forze indotto dalla testualità. L’algoritmo che sceglie la prossima parola nella frase che va generando è un compositore di melodie linguistiche assonanti ma prive di intenzioni significative.

L’analisi dell’autore non si limita alla scienza e alla tecnica; il libro prende posizione rispetto a un dibattito sociale e culturale di grande attualità. L’irruzione degli automi parlanti e la loro crescente integrazione nella vita quotidiana sollevano urgenti domande sull’etica, sulla libertà e sulla responsabilità. Come possiamo convivere con questi oggetti-soggetti che sembrano tanto umani pur nel loro automatismo, che ci inquietano ma si dimostrano utilissimi in molti compiti finora esclusivo appannaggio del lavoro cognitivo? La risposta non risiede nel silicio delle imperscrutabili reti neurali, ma nelle “forme di vita” che sapremo costruire mobilitando la nostra coscienza critica.

Da questa posizione viene il rifiuto di una visione essenzialista e soluzionista che mette il problema del rapporto con l’artificiale a carico degli algoritmi e della tecnologia, ritenendo ad esempio di poter certificare l’etica gli automi parlanti con le procedure di collaudo simili a quelle dell’ingegneria del software. Viene anche il rifiuto della falsa dicotomia apocalitticiintegrati che già Umberto Eco aveva criticato negli anni ’60. Le immagini distopiche di un’umanità soggiogata dagli automi e quelle utopiche di una intelligenza artificiale generale in grado di rispondere alla “domanda fondamentale della vita, dell’universo e di tutto quanto” sono entrambe da respingere. In realtà, l’ecosistema dell’intelligenza artificiale generativa è molto più articolato e complesso di quanto emerge da certe (non neutrali) cronache, essendo animato da migliaia di gruppi di ricerca, pubblici e privati, impegnati a produrre tecnologie e risorse anche nello spirito dei sistemi aperti e trasparenti. Orientare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale verso l’innovazione sociale, anziché verso il profitto, è una possibilità concreta. Realizzarla richiede tuttavia l’impegno attivo dell’intelligenza umana, basato su una chiara e ampia visione di ciò che sta accadendo e che potrà accadere.

In questa esplorazione critica, il libro non è solo un viaggio nella storia delle idee e delle tecnologie, ma una riflessione sul destino umano in un mondo condiviso con nuove forme di intelligenza. Che siano – come si dice – minaccia o opportunità, gli automi parlanti ci obbligano a un confronto profondo con noi stessi, con il nostro linguaggio, e con la nostra capacità di attribuire significato al mondo.

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Febbraio 2025
Il settore moda, e la necessità di coraggio industriale
Stefano Monti

Nel corso delle ultime settimane, sono state molteplici le riviste che hanno proposto riflessioni legate allo stato di salute del settore produttivo della moda.

Un settore che negli ultimi decenni ha visto moltiplicare nel mondo la propria rilevanza, trasformandosi da icona del bello ad icona del lusso. Grandi gruppi finanziari hanno iniziato ad avviare strategie di investimento importanti, sviluppando strategie di diversificazione, dapprima attraverso la creazione di filiere di produzione del valore distribuite su tutto il pianeta, poi sviluppando attività non caratteristiche, come le strategie di investimento immobiliare, e divenendo così sempre più un simbolo di ricchezza, con l’emersione di veri e propri colossi come LVMH, con fatturati annui multimiliardari, asset fisici (immobili) distribuiti in tutto il pianeta (a fine ’22, la società possedeva circa 5.700 negozi, senza tener conto degli stabilimenti produttivi).

L’ascesa di tali società si fonda, tuttavia, su modelli di business che non sempre agiscono secondo una logica di sviluppo territoriale, e tale condizione può essere soltanto mitigata dagli impegni assunti e condotti in termini di Corporate Social Responsibility (la responsabilità sociale d’impresa, filone con il quale si intende misurare la validità delle aziende non solo secondo i canonici criteri economico-finanziari, ma anche attraverso gli impatti che tali aziende o società sviluppano nel mondo).

Da decenni, infatti, il mondo della moda, con particolare riferimento ai segmenti più ricercati, si basa su una catena di produzione del valore che coinvolge, oltre alle imprese che detengono e distribuiscono i prodotti (i brand), una serie di società di piccole e piccolissime dimensioni, che si occupano della lavorazione di specifiche componenti del prodotto finale, e che a loro volta sono intermediate da altri soggetti il cui lavoro è, in sostanza, coordinare i rapporti tra la società del lusso (che è il soggetto che immetterà nel mercato il prodotto), e la galassia di piccoli e piccolissimi fornitori che concretamente realizzano il prodotto.

In questo meccanismo, tuttavia, si assiste ad una grande differenza di produzione di valore. Senza entrare in dettagli tecnici, è piuttosto nota tale distribuzione. All’apice di tale organizzazione c’è il brand che propone sul mercato un prodotto a prezzi molto elevati, e che le persone acquistano non solo perché tali prezzi esprimono elementi oggettivi (come la qualità del prodotto), ma anche elementi immateriali, che dalla ricercatezza alla esclusività, fino al loro essere “beni di status”, costituiscono un valore aggiunto importante.

Al lato opposto di questa organizzazione ci sono le conoscenze, le competenze, quel “know-how” molto spesso artigianale che è una delle componenti più centrali dell’intero “castello”: tutte le componenti immateriali che influiscono sulla percezione globale del brand e dei suoi prodotti sono infatti paragonabili a degli strumenti “derivati”, che tuttavia si fondando su un “sottostante”, e quel sottostante è, in buona sintesi, l’oggetto che è immesso nel mercato. 

Si tratta di una dimensione piuttosto “razionale”, che tuttavia rischia di condurre a potenziali cortocircuiti quando il valore dei derivati inizia a perdere una reale connessione con i sottostanti su cui sono costruiti.

Tornando all’economia reale, nel nostro Paese ci si sta iniziando a render conto che il settore, per come è costruito oggi, presenta alcune criticità che rischiano di avere impatti significativi.

Si tratta di criticità strutturali, che si basano su prassi ormai consolidate, e che richiederanno pertanto importanti cambiamenti per essere modificate. 

Si pensi ad esempio alla differenza di potere contrattuale esistente tra i vari operatori del settore: da un lato c’è un brand che ha grandissima capacità di spesa, e che non solo determina il valore sul mercato del prodotto, ma anche il prezzo a cui tale prodotto deve essere acquistato, e dall’altro esiste una galassia di piccole e piccolissime realtà territoriali, che spesso fondano la loro intera esistenza sul rapporto di fornitura con un singolo cliente. Da un lato un colosso, rappresentato sul territorio da una figura intermediaria; dall’altro un imprenditore locale che senza quella commessa difficilmente riuscirà a sopravvivere. 

Analizzata all’interno di uno schema economico classico, tale rapporto di forza può sembrare ragionevole, ma perde del tutto la propria logicità se ci si concentra sul sottostante: perché è l’imprenditore locale a generare valore, non l’intermediario, e, sempre ragionando sul sottostante, e quindi sul prodotto materiale che viene immesso nel mercato, nemmeno il brand del lusso.

Vista da questa prospettiva, sarebbe invece logico il contrario di quanto accade: chi genera valore dovrebbe avere un vantaggio competitivo, mentre chi genera operazioni che si basano su quel valore, dovrebbe trovare in una condizione di “dipendenza” infrastrutturale.

Quello che determina quindi questa anomalia del potere contrattuale (che in realtà è visibile in molti settori, non solo quella della moda), è semplicemente “il denaro”.

Questa condizione è una criticità sistemica, che ben si riesce ad arginare fin quando il mercato cresce, ma che alle prime contrazioni inizia a mostrare che l’intera struttura si basa su fondamenta che sono molto fragili. 

E così, come riporta il Fatto quotidiano, emergono casi come Sud Salento S.r.l., una realtà che con i suoi 335 dipendenti non si può propriamente definire minuscola, ma che a fronte di una decisione del proprio committente principale di abbassare i livelli produttivi per rispondere in modo dinamico al calo della domanda dei propri prodotti, non ha trovato altra alternativa che licenziare un terzo dei propri dipendenti. E, sempre come riporta la stampa generalista, questo non è l’unico caso.

A questo punto diviene però necessario fare un passo “indietro”, e mettere ogni cosa nel giusto ordine. La narrazione semplificata che è stata sinora adottata non vuole in alcun modo proporre una visione piramidale in cui il brand è il “re”, che identifica negli intermediari i propri “vassalli”, e di lì a catena valvassori, valvassini e infine gli artigiani come “servi della gleba”.

In ognuno di questi passaggi si crea valore, di cui ognuno beneficia anche sulla base del rischio d’impresa, e delle competenze acquisite non soltanto in una logica di produzione, ma anche in termini di tecnica commerciale, manageriale, finanziaria.

Assumere tuttavia la prospettiva dell’anello più debole della catena è in ogni caso importante per poter comprendere come migliorare il sistema nella sua interezza, senza assumere alcuna posizione ideologica ma ripercorrendo, punto a punto, il percorso che dalla materia prima diviene semilavorato, poi prodotto, poi icona di stile e di lusso.

È una prospettiva con cui il nostro Paese deve fare i conti e per differenti ordini di motivi.

Al gradino più alto c’è la riflessione strategica: le dinamiche che sono state costruite negli ultimi decenni hanno infatti di molto indebolito la struttura del “made in Italy”, che pur rappresentando un valore aggiunto altamente ricercato nel mercato globale, attraverso la strutturazione del mercato viene distorto al punto da tradursi in una posizione di debolezza contrattuale al pari di quanto accada con manodopera a basso costo in Paesi che non godono dello stesso riconoscimento dell’Italia. 

Immediatamente successiva è la riflessione legata alla dimensione industriale: una catena di produzione di questo tipo implica un’aleatorietà importante in termini di stabilimenti produttivi, occupazione, investimenti. Un’aleatorietà che non giova la costruzione di percorsi di natura finanziaria di bassa o media dimensione. Sarebbe infatti incauto, per un piccolo investitore, allocare parte dei propri capitali in un’industria di produzione tessile che rischia di chiudere i battenti se, per qualsiasi motivo, dovesse verificarsi una riduzione della domanda di beni di lusso in Giappone o in Cina. 

Tale condizione comporta ancora un’altra riflessione, che è quella economica collettiva: al di là degli impatti sulla vita economica delle persone (precarietà significa riduzione dei consumi e degli investimenti ed incremento, quando possibile, della sola componente di risparmio), e lasciando fuori dalla riflessione tutte le implicazioni sociali, relazionali e anche culturali (inteso come cultura di un territorio che si riflette sulla vita dei singoli), c’è anche la dimensione del sostegno a quei dipendenti che, d’improvviso, rischiano di perdere il proprio posto di lavoro, e che coerentemente con i principi su cui si basa il nostro sistema Paese, vengono sostenuti anche attraverso il ricorso a risorse straordinarie messe in campo dal settore pubblico.

A fronte di tali considerazioni, quindi, piuttosto che esser pronti, come collettività, a sostenere il comparto nel caso di crisi, forse sarebbe più corretto iniziare a riflettere su come sostenere il comparto per svilupparne la solidità, la crescita, lo sviluppo.

Al centro del tavolo, probabilmente, non dovrebbero esserci le trattative per i licenziamenti, ma lo sviluppo di nuove società, nuovi brand, in grado di distribuire in modo più equo la ricchezza prodotta, e che siano in grado di definire anche un sistema del made in Italy più forte, in cui alle dimensioni della mera produzione si associno anche quelle del disegno, della progettazione, e infine della valorizzazione di tali prodotti.

Quest’ultima riflessione apre poi le porte ad una connessione che non sempre pare essere presa in considerazione quando nel nostro Paese si parla di “industria culturale e creativa”. L’Italia, con i suoi Musei, la sua Storia, la sua Arte, il suo Design, e tutto ciò che siamo soliti associare al nostro Paese quando ne vogliamo tessere le lodi, oltre ad avere ereditato tali patrimoni, ha anche maturato, in alcuni settori, una grande capacità di valorizzarli.

Tale competenza (che dal Colosseo al Cristo Velato, dagli Uffizi fino a Brera) altro non è che la capacità di creare valore aggiunto che rende inestimabile un patrimonio che siamo soliti dare per scontato rappresenti un incontestabile tesoro per l’umanità.

Malgrado tale affermazione sia sostanzialmente corretta, è anche giusto ricordare che non è sempre stato così: quasi tutti i nostri monumenti, nella storia, sono stati percepiti in modo molto differente. Lo stesso Colosseo, che oggi è simbolo indiscusso del nostro Paese, ha conosciuto momenti di alterna fortuna. 

Riconoscere la capacità di creare valore immateriale da elementi materiali è un tassello importante per il nostro Paese, non soltanto per un riconoscimento storico, ma come competenza distintiva che, come collettività, dobbiamo sempre più imparare a sviluppare.

Il sistema della moda, come espressione delle nostre industrie culturali e creative, non può certo essere stravolto, ma può essere arricchito, consolidato, sviluppato. Occorre fantasia, modelli di business innovativi, capacità di dialogare con investitori, volontà anche politica di sostenere un processo di riconfigurazione industriale, e soprattutto coraggio.

È però prioritario avviare una riflessione in questo senso. Perché un euro speso per sostenere lo sviluppo del Paese, basato su competenze distintive e su progettualità concrete, male molto ma molto di più di un euro speso per evitare che le crisi colpiscano i dipendenti.

Non che questi ultimi non siano dovuti, anzi. Ma piuttosto che star lì a medicare le ferite, sarebbe più utile costruire delle armature più pesanti.

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Febbraio 2025
Opinioni di un cane. Una serie a quattro mani
Guido Vitiello, Ilaria Gaspari

Per strada ogni tanto qualcuno mi ferma e chiede: ma che razza è? Colpisco, modestamente. Nelle risposte sento dire meticcio, bastardino; non sono parole di mio gradimento. Io direi piuttosto che sono un cane antologico, poiché ho preso il meglio da diverse razze. Le mie origini rimangono avvolte nella leggenda, e non ci sono prove certe della mia provenienza: ma le prove certe sono per gli incompetenti. La leggenda mi vuole figlio, da parte di madre, di una sfolgorante golden retriever con l’allure di una diva; da parte di padre, di un focoso piccolo corgi che non ebbe paura di arrampicarsi pur di assicurare alla sua progenie il futuro di avvenenza che mi sto infatti godendo. Dal ramo materno ho preso l’inclinazione per la vita comoda, e il gusto un po’ vezzoso per l’eleganza e la bellezza. Da quello paterno, un tratto di eccentricità tipicamente britannico, unito a una certa ruvidezza selvatica.

Per questo, capirete che quando mi trovo di fronte un cane in cappottino, in maglioncino o in paltò, provo sentimenti misti: una schietta ammirazione per la squisita fattura di capi che sarebbero senz’altro piaciuti alla mamma, ma anche un gran fastidio per l’indulgere dei miei simili alle mollezze della vita addomesticata. E questo, naturalmente, è il segno di papà.

Ora, mi è capitato di recente di dover rivedere le mie opinioni sulla questione dell’abbigliamento canino. È successo perché ho letto un libro. Vi chiederete, ma i cani leggono libri? Ebbene sì, se hanno desiderio di ampliare le loro vedute, i cani leggono libri. Naturalmente, libri che parlino di cani, in belle edizioni annusabili.

Il libro di cui parlo è Dries, i giorni del pensiero cagnolino. Ora, non saprei quali altre forme di pensiero esistano oltre a quello cagnolino, quindi mi è venuto anche il sospetto che si tratti di un gioco di parole. Dries è, come me, un cane antologico. Nel libro, il signore che si prende cura di lui dimostra di volergli un gran bene, il che gli fa onore. Racconta delle molte cose che Dries gli ha insegnato, e ho apprezzato anche questo: spesso gli umani sono proprio duri di comprendonio, e addestrarli è disperante. Comunque, salta fuori che questo signore era contrario come me all’abbigliamento per cani, finché non ha capito che Dries, che è mingherlino e ha il cuore molto vicino al terreno perché è alto un soldo di cacio, d’inverno sente freddo e trema tutto. Così ha deciso, dopo molti tentativi di allacciargli cappottini che rimanevano pendenti e scalcagnati, di infilargli un maglione blu a collo alto, molto elegante. Io freddo non ne sento mai, perché papà veniva dalla brughiera e mamma mi ha regalato una pelliccia fin troppo calda, alle latitudini a cui vivo: pensate che è la stessa che usano i nostri parenti sulla costa del Maine, dove vive il ramo statunitense della famiglia. Ma da quando ho letto di Dries e del suo maglioncino blu, mi sono detto che alla fine non c’è niente di disonorevole, per un cane, ad approfittare di questi ritrovati del progresso. D’altronde il cane è la misura di tutte le cose, di quelle che abbaiano in quanto abbaiano e di quelle che non abbaiano in quanto mordono.

Emilietti

Emilietti

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Febbraio 2025
Claudio Calvaresi

Come usare i processi di partecipazione nelle politiche? La partecipazione serve a produrre conoscenza utilizzabile, come risultato dello scambio tra diversi tipi di sapere; a ridefinire i problemi, modificare le poste in gioco nei processi decisionali e, in definitiva, alterare gli schemi di interazione degli attori; a favorire un incremento della razionalità degli attori e generare apprendimento sociale.

È questa, in sintesi, l’interpretazione della partecipazione proposta da Paolo Fareri, ricercatore, analista e progettista di policy, in un saggio del 1998 dal titolo “Rallentare”, un testo riferimento per chi si occupa di politiche urbane1. La sua tesi è che la partecipazione è uno strumento per la costruzione di politiche efficaci, cioè adeguate al problema pubblico che intendono trattare. La partecipazione – secondo Fareri – non va intesa come mezzo per costruire il consenso tra gli attori e raggiungere una decisione condivisa. Ciò corrisponderebbe a ridurre le sue potenzialità a obiettivi di efficienza decisionale. È piuttosto uno strumento per far emergere punti di vista non considerati, cornici di senso non previste, mettendo al lavoro l’«intelligenza della democrazia». La partecipazione è una strategia di apertura dei processi decisionali per sostenere la costruzione di soluzioni capaci di comprendere la complessità e l’articolazione delle posizioni degli attori. Non prova a comporre interessi e preferenze diversi, ma serve a far emergere, nell’interazione, nuove definizioni del problema. Il passaggio è da problem solving a problem setting; da obiettivi di raggiungimento dell’accordo tra gli attori a obiettivi di generazione di innovazione. 

In questo senso, la partecipazione è un “evento locale”, una rottura nel corso standard dei processi decisionali, un dispositivo per la costruzione di soluzioni che privilegiano la sperimentazione più che la convergenza. È condizione per il cambiamento, perché corrisponde a una sorpresa; è fonte di anomalia e dunque promessa di innovazione. 

Gli anni in cui usciva il saggio erano caratterizzati da una ripresa di interesse verso la partecipazione nei piani e nei progetti urbanistici. Era la fase che Fareri definì della «partecipazione progettata», quell’insieme di metodiche e pratiche professionali per il coinvolgimento degli stakeholder. La partecipazione, progettata da nuove figure tecniche che si presentavano come “facilitatori”, era un’offerta di apertura dei processi decisionali da parte del sistema politico alla società. Con il consueto acume, Pierluigi Crosta vi lesse un effetto (solo a prima vista paradossale) di de-politicizzazione. Le pratiche sociali di produzione del “pubblico” garantite dai professionisti della partecipazione erano state rese controllabili e prevedibili, diminuendo la loro capacità di produrre apprendimento, che è sempre eventuale. In questo senso, avevano smarrito il loro valore politico. 

Siamo oggi in una nuova fase. Sono infatti numerosissime le iniziative, promosse da cittadini, gruppi informali, associazioni, che affrontano problemi (o opportunità di intervento) di natura collettiva. Sono politiche pubbliche “di fatto” e i loro protagonisti sono attori di policy. In questo scenario, la partecipazione progettata mostra la corda, perché a spingere alla mobilitazione è soprattutto realizzare cose, più che contribuire al miglioramento della decisione pubblica.

Dunque, quale dovrebbe essere oggi la posizione utile da assumere? In che modo rendere efficaci queste politiche pubbliche implicite? È un passaggio stretto, sul crinale tra accompagnamento e abilitazione, tra sostegno e rimozione dei disincentivi e delle barriere che bloccano l’esercizio del protagonismo. È bene saper progettare, anche «per evitare di essere progettati», ma neppure progettare oltre il necessario. Occorre invece dare agio all’imprevisto e non ridurre l’interazione a tecnica di design. La soluzione non è un canvas ben fatto: bisogna conquistare spazio, fornendo qualche attrezzo per coltivarlo e magari espanderlo. È necessario accompagnare gestendo la prossimità, disponendosi alla giusta distanza, sollecitando «riflessione nel corso dell’azione», reframing e auto-sovversione. Non più facilitatori, ma knowledge broker o amici critici. 

Essere a fianco, favorendo circuiti virtuosi tra education e advocacy, nelle città, nelle periferie difficili, nelle aree di margine. Fornire riconoscimento, lavorare nel e con il conflitto, garantire cura del presente e protezione sul futuro, consapevoli che il modello emergente è il decreto Caivano. 

Di questi argomenti, discuteremo martedì 11 febbraio, h.18, presso Avanzi, in via Ampere 61/A, a Milano in un confronto tra chi scrive e Gabriele Pasqui, docente di Politiche Urbane al Politecnico di Milano, che al saggio di Paolo Fareri ha dedicato di recente un commento profondo e suggestivo. 


  1. Il saggio è poi uscito all’interno di una raccolta, pubblicata postuma, con lo stesso titolo: P. Fareri (2009), Rallentare, Franco Angeli, Milano. ↩︎

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Febbraio 2025
La memoria rimossa della “spagnola”
Gabriele Frasca

La cosiddetta “spagnola” ebbe una caratteristica che la distingue ancora oggi da molte altre epidemie e pandemie: colpì in maniera drammatica la fascia di età tra i 20 e i 40 anni, con un picco statistico di mortalità, sia per gli uomini che per le donne, intorno ai 27 anni. Mercoledì 12 febbraio sarà disponibile in libreria L’influenza della guerra (Luca Sossella editore) un volume del laboratorio Soldado de Nápoles a cura di Gabriele Frasca. Qui una sezione di approfondimento con audio e immagini. Di seguito un testo di Gabriele Frasca.

Da quando ne ho memoria, e dunque per intenderci dagl’inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, non c’è stata Vigilia di Natale della mia infanzia che non prevedesse lo stesso copione. In realtà a seguirlo puntualmente ci pensava mio padre, il cui umore, appena tornato da lavoro, restava tutto sommato buono, fin quando continuava ad armeggiare con l’albero che secondo i piani avrebbe dovuto completare da minimo una settimana. Era metodico nell’allestimento dell’abete, pur continuando a preferire il più tradizionale presepe, e un vero virtuoso della sincronizzazione delle luci e degli addobbi luminosi, ma tendeva comunque di natura a procrastinare ogni impegno. Finiva così al solito col ridursi all’ultimo momento, per il divertimento mio e di mia sorella, che sulla carta avremmo dovuto aiutarlo ma che eravamo neanche a dirlo solo d’intralcio. Comunque, pur con qualche maledizione fra i denti, si arrivava finalmente a ergere il pinnacolo, entravano in azione le luci intermittenti, e – sissignore! – era proprio Natale. Quando poi stavamo per cominciare il cenone, coi pochi parenti che si univano a noi in quelle occasioni, il clima era decisamente allegro. Ma durava poco. Nemmeno si metteva a tavola, e mio padre s’incupiva, senza che ci fosse alcun bisogno di sollecitarlo per rivelarne la ragione. «In questo stesso giorno, e quasi a questa stessa ora», diceva ogni volta come sprofondando di nuovo in un dolore irrisarcibile, «tanti anni fa, è morta mia mamma, lasciandomi orfano a soli 15 mesi». E poi, con un tono di voce tutto particolare – una sorta di sussurro inorridito che negli anni ho sentito spesso risuonare in persone più vecchie di lui quando evocavano lo stesso aggettivo sostantivato –, aggiungeva: «La “spagnola”».

Mio padre era nato nell’ottobre del 1917, tre giorni prima di Caporetto, e sua madre, mia nonna, ancora molto giovane, sarebbe morta il 24 dicembre dell’anno dopo. Non ebbi mai modo di chiederglielo, né credo che mio padre fosse o meno a conoscenza di un’eventuale nuova gravidanza di sua madre, circostanza che l’avrebbe resa più esposta alle conseguenze estreme dell’infezione, se la “spagnola” risultava letale come poche cose al mondo per le donne incinte, come se «la natura», per dirla con le parole di Alberto Lutrario, il Direttore Generale della Sanità Pubblica di quegli anni remoti, avesse «scelto questa via per attenuare lo squilibrio dei sessi determinato dalla guerra».  Come che sia, l’atmosfera natalizia spariva di un sùbito, mentre mio padre si perdeva nelle sue memorie e un’ombra di tristezza ci avvolgeva tutti. Sarà ovviamente per questo che anche per me – testimone di un testimone, e dunque l’ultimo in grado d’intestarsi un po’ di storia orale – il termine “spagnola” ha significato qualcosa, ha fatto parte della mia vita, come il ricordo di quella terribile epidemia che nell’ultimo anno della cosiddetta Grande Guerra, e anche nell’immediato dopoguerra, più dello stesso conflitto aveva portato il lutto praticamente in ogni famiglia.

La conta delle vittime, il cui numero apparve comunque da sùbito spropositato, non potrà mai raggiungere una cifra che possa essere ritenuta ufficiale; e non soltanto perché i dati proposti per l’Africa e l’Asia risultano inficiati dall’inadeguatezza dei sistemi di rilevazione e archiviazione del tempo, ma anche perché persino in società ordinate con servizi medici e statistici ben consolidati, come l’Europa e l’America settentrionale, tutto dipendeva dalle diagnosi mediche individuali, che potevano ascrivere i decessi a cause diverse. I morti di polmonite del periodo, innanzitutto, ma anche quelli di tubercolosi, risultano ovviamente indiziati di nascondere da qualche parte il volto violetto del virus. Senza dimenticare che l’influenza all’epoca non rientrava fra le malattie sottoposte all’obbligo di denuncia, e quindi il più delle volte spariva dalle schede necrologiche. Sta di fatto che però proprio in Italia i numeri cominciarono a circolare assai per tempo, forse persino prima che in altre nazioni, grazie all’economista e statistico mantovano, ma di formazione universitaria napoletana, Giorgio Mortara, che pubblicò già nel 1925 per la crociana Laterza il saggio La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra. Le cifre lì ci sono tutte, persino più alte di quelle che successivamente sarebbero state fornite su scala internazionale; anche se in qualche modo si districano a fatica, non tanto dal numero dei caduti nel conflitto, quanto piuttosto in àmbito civile da una mortalità complessiva che l’ovvio propagarsi della cosiddetta “triplice endemia” (tubercolosi, sifilide e malaria), e soprattutto gli stenti dovuti a una politica alimentare da parte del Regno d’Italia a dir poco avventata, aveva incrementato non poco. Comunque per Mortara, che a lume di statistica si basava sulla stima dell’eccedenza di decessi tra i civili negli anni in questione, le vittime di “spagnola” nella nostra penisola fra l’ottobre del ’18 e la primavera del ’19 sarebbero state addirittura 530.000, che diventavano facilmente 600.000 aggiungendovi i morti nei comuni invasi dagli austriaci dopo Caporetto (da cui non erano giunti conteggi affidabili) e naturalmente i prigionieri di guerra. Erano cifre spaventose – e lo sono anche quelle più contenute proposte attualmente, che oscillano fra le 350.000 e le 410.000 unità –; ma erano se non altro qui da noi alla luce del sole, sia pure nella penombra di un volume per molti versi innovativo. E se la guerra, nelle parole di Benedetto XV, era già stata definita il 1° agosto del 1917 un’«inutile strage», quale espressione, con quelle cifre, avrebbe dovuto rendere conto della ”spagnola” a conflitto ultimato? Massacro? Genocidio? Olocausto? E soprattutto, se nelle parole del papa non si può che leggere un rimprovero a tutte le classi dirigenti delle nazioni coinvolte, chi avrebbe dovuto mai essere ritenuto responsabile di quella vera e propria sconsiderata ecatombe che faceva impallidire la stessa «inutile strage»? Il fato? L’ignoranza? Dio? 

I numeri, si diceva, altrove ci hanno messo del tempo per divenire pubblici, rimanendo per lo più a disposizione della consorteria – in ascesa durante tutto il Novecento – degli epidemiologi. In America il primo, e per molto tempo l’unico, a provare a fornirne, fu il batteriologo Edwin  Oakes Jordan, che nel suo volume del 1927 Epidemic Influenza, apparso per l’American Medical Association, avrebbe proposto un numero complessivo di decessi su scala mondiale di 21 milioni e seicentomila morti – anzi, per l’esattezza, per ripetere i suoi calcoli chissà in base a quali informazioni tanto puntuali: 21.642.283 – , una cifra alla luce dei fatti decisamente al ribasso, che sarebbe stata però ritenuta attendibile per circa sessantacinque anni. Il che voleva dire che pur non essendoci in America, come altrove, famiglia che non aveva i propri lutti, nessuno chissà perché era in grado di fare due più due. Va anche detto che persino nel 1991 gli epidemiologi americani Patterson e Pyle si limitarono in verità solo a ritoccare la cifra totale, portandola a 30 milioni, e continuando a sottostimare il numero delle possibili vittime nelle varie parti del mondo.

È stato dunque solo a ottant’anni esatti dall’evento che la vera portata della pandemia si è manifestata per quello che era, in virtù dei nuovi conteggi a opera di Niall Johnson e Jürgen Müller, che portarono il numero delle vittime a 50 milioni, sebbene il geografo australiano e lo storico tedesco si sentissero immediatamente in dovere di avvertire che anche quel dato poteva risultare sottostimato, addirittura del cento per cento. E finanche di più, a tenere dietro alla caute proposte dei loro interventi successivi. Il che faceva intravedere un numero di morti inimmaginabile. Solo in America erano decedute almeno 675.000 persone, col rischio che tante altre fossero sfuggite alle registrazioni. Secondo una tale stima al ribasso, il numero delle vittime della “spagnola” negli Stai Uniti sarebbe comunque più alto dell’insieme dei soldati americani caduti nelle due guerre mondiali, in Corea e in Vietnam. E se per davvero ci si limita a raddoppiare la cifra minima proposta da Johnson e Müller, un simile raffronto lo si può facilmente portare a livello globale. Com’era stato possibile allora che una tale ecatombe fosse per tanti anni finita nelle pieghe della storia, e sotto il tappeto della storiografia?

Ora: sarà pure vero che «la simbiosi fra storia e memoria è delicata in tutte le società», come ha recentemente puntualizzato Jay Winter; ma resta comunque sospetto che l’emozione della “spagnola” sia rimasta viva nelle storie familiari, per lo meno per tre generazioni, mentre gli archivi, che sono sempre lì a disposizione, sono stati invece a bella posta disertati, e sin da sùbito. Mortara era un economista che credeva nel metodo statistico, e lo ha applicato nel corso del tempo a tanti argomenti anche scabrosi, come l’uso dell’alcol o le unioni al di là del matrimonio, senza temere eventuali ricadute politiche o reprimende moralistiche; Jordan invece un epidemiologo, che in quanto tale non aveva paura di affermare che, a fronte dell’origine ignota dell’infezione, era stato sicuramente l’affollamento dei campi militari a propagarla e a renderla tanto mortale. E se è per questo, un esame ravvicinato dell’intera questione potrà riservare non poche sorprese. Non ultima la constatazione che nell’ambiente medico tutto si può dire tranne che l’argomento sia stato calcellato. Anzi: come ebbe a dichiarare nelle sue memorie “atipiche” Frank Macfarlane Burnet – il microbiologo australiano che fu insignito del Nobel nel 1960 per i suoi rivoluzionari studi sull’immunizzazione, e che nell’agosto del 1919 era stato colpito da una forma lieve dell’influenza –, per lui e per molti altri ricercatori l’obiettivo di isolare la causa della “spagnola” fu lo stimolo principale per lo meno per un quindicennio. Senza dimenticare quanto la pandemia del 1918-1919 spicchi nelle storie mediche dedicate all’influenza, a partire da quella del 1942 che si deve proprio a Burnet e ad Ellen Clark. Tutto ciò contribuisce a creare il grande  paradosso della “spagnola”, quello di essere cioè un evento scientificamente ben documentato, ossessivamente presente nelle memorie familiari, come mostra il mio aneddoto, e comunque per molto tempo dimenticato dalla società, dalla storiografia ufficiale e apparentemente persino dalle espressioni artistiche, a meno di non tornare a frequentarne il rimosso, cui quasi per suo stesso statuto l’arte dà forma.

Perché allora questa congiura del silenzio? La nascita del Laboratorio, cui alla fine abbiamo dato il nome di “Soldado de Nápoles”, e che in circa tre anni di ricerche e cadenzate riunioni ha prodotto i saggi contenuti ne L’influenza della guerra, è stato il tentativo di dare una risposta a questa domanda.

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