Il futuro non è scritto

Il futuro non è scritto

Novembre 2024
Una fuga estiva nella Georgia di confine con Abcasia e Federazione Russa, per decifrare, insieme, il Caucaso e l’eterno dilemma del turismo.
Giulio Burroni

La diga di Enguri è la sosta naturale per chi viaggia da Zugdidi verso le valli dello Svaneti, regione montana del Caucaso settentrionale georgiano. Fermarsi è quasi obbligato, per sciogliere le tensioni accumulate su schiena e gambe, prendere aria nuova e liberarsi di quella viziata dal viaggio nel Marshrutka strapieno di camminatori. Da qui in avanti si snodano gli ultimi quaranta chilometri di tornanti d’asfalto misto a sasso che, in non meno di un’ora, portano a Mestia. 

La quarta diga più alta al mondo non è solo un‘infrastruttura di cruciale importanza strategica, ma anche una vera e propria matrice di storie, legate a doppio filo alla politica energetica e territoriale della Georgia. Dalla centrale di conversione di Enguri dipende infatti l’approvvigionamento energetico sia della Georgia che dell’Abcasia, una regione de facto separata dalla Georgia ma non riconosciuta come stato indipendente a livello internazionale, ad eccezione della Federazione Russa. Le due entità hanno fatto parte dello stesso stato fino al 1992, quando scoppiò il conflitto che si concluse l’anno successivo, con la vittoria delle forze separatiste abcase, sostenute dalla Russia di Eltsin. 

Poco sopra la linea dell’acqua dell’invaso della diga corre proprio il confine fisico con la regione separatista, il cui accesso è interdetto ai georgiani che qui, fino al primo conflitto del ’92, erano circa la metà della popolazione e oggi si sono ridotti al 17/20%.

A Enguri la parola “terraformazione” prende sostanza concreta: un’impresa umana di radicale modifica dello spazio che porta elettricità a milioni di persone, ma anche il sintomo fatto cemento del magma politico emerso in superficie dopo la dissoluzione del sistema sovietico. 

E i segni sono visibili anche a occhio nudo: le gallerie che i profughi georgiani in fuga dell’Abcasia usavano per uscire dalla regione in guerra; ferite segnate sul corpo delle montagne dal primo conflitto etnico scoppiato dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Si riconoscono solo se qualcuno te le indica, in alto, appena sotto le prime cime caucasiche: dei piccoli cerchietti poco più scuri dei boschi di aceri, faggii, carpini e infine, prima degli alpeggi, d’abeti rossi e pini. 

Appoggiato alla balaustra sulla parte sommitale della diga, mentre lo sguardo corre sull’enorme lago d’acqua dell’invaso, trattenuto da uno strapiombo cementizio di 270 metri e, in alto, alle prime come del Caucaso, la sensazione è di essere sulla soglia di un mondo diverso, tutto da comprendere. Ci riuscirò?

Risaliti nel pulmino si vorrebbe dormire o perlomeno vagare con la mente e mandare tante energie positive al signore al volante che ha in mano la tua vita; ma la testa corre tutta dietro alla complessità geografica, politica ed etnolinguistica di questa cerniera tra Europa e Asia chiamata Caucaso e alla remota possibilità che, in sole due settimane di viaggio, possa davvero capirci qualcosa di questa inedita complessità.

Complessità, appunto: parola comoda, parola-ombrello, casco anti-caduta che spesso viene messo sulla testa dei discorsi sulle ex-repubbliche sovietiche più vicine all’Europa. Del Caucaso se ne parla anche come di un “mosaico”, per via degli innumerevoli accostamenti, convivenze e dispute storico-territoriali mai davvero risolte, ancora incagliate nelle trasformazioni degli ultimi due secoli. Allievo di Kapuscinski, il giornalista polacco Wojciech Gorecki, lo ha chiamato “Pianeta” nel suo importante reportage di prossima ristampa per Keller editore: un corpo celeste con tutti i suoi satelliti di lingue e culture orbitanti. 

In ogni caso, c’è sempre un marker che si mette a bella evidenza prima di ogni discorso su queste terre: “presta attenzione, ti stai addentrando in terreni assai scivolosi”. Scivoliamo. 

La montagna delle lingue

Djamal al-alsun, lo definirono già i geografi arabi: la montagna delle lingue. Oltre una quarantina, in un area di mille chilometri di aree montane che parte dalle profondità del mar Nero e dal petrolio di Baku e si alza in una dorsale di vette, vallate e pianure su cui raramente il passo della storia si è fermato a riposare. 

In questa diagonale di terre tra Mar Caspio e Mar Nero sono confluite nei secoli decine di popolazioni in fuga dall’Asia Centrale, sotto la pressione dei nuovi occupanti delle steppe. Sospinti a ovest, si trovavano qui in feroce competizione per la spartizione delle risorse del territorio con le popolazioni che si erano spostate prima di loro; chi usciva sconfitto da questi scontri era forzato ad ulteriori migrazioni, spesso nelle zone più inospitali della regione, le uniche rimaste disponibili. È forse per tutte queste ragioni, e per le caratteristiche geografiche che di per sé favoriscono l’isolamento, che già il buon Erodoto scriveva, icastico, che “molti popoli abitano nel Caucaso”?

Il ghiacciao di Adishi, nella regione georgiana dello Svaneti. Agosto 2024. Foto di Giulio Burroni

Il confine fisico conta più di 150 vette oltre i 4000 metri e divide oggi quelli che effettivamente sono due mondi distinti: le repubbliche della Federazione Russa a nord (Circassia, Cabardino-Balcaria, Ossezia, Inguscezia, Cecenia e Daghestan), da quelle indipendenti del sud (l’Abkhazia, la Georgia e l’Azerbaijan). La loro storia culturale e politica è il prodotto congiunto di tante spinte: l’influenza della russificazione, i massicci spostamenti demografici, deportazioni ed esodi, a cui si sono aggiunti i cambiamenti legati all’indipendenza tra la prima dominazione russa – durante la guerra civile che ha segnato il passaggio dalla monarchia zarista alla repubblica sovietica – e la ridefinizione delle geografie umane nel periodo sovietico, la seconda guerra mondiale. 

La disgregazione dell’Unione Sovietica, avvenuta proprio mentre si affermava una nuova attenzione verso i diritti delle autonomie locali, ha ulteriormente complicato la situazione. E le responsabilità per le violazioni subite sono state quindi trasferite ai governi post-sovietici, che hanno spesso faticato a gestire le rivendicazioni ereditate da un sistema ormai scomparso, interpretato in modi assai diversi nell’area caucasica. 

Il risultato, ancora tutto in movimento, dell’interazione di queste faglie è un regione di straordinaria eterogeneità, pur nella sua relativa estensione, in cui gli equilibri sono stati continuamente rinegoziati e poi infranti in conflitti che a volte hanno covato sotto la superficie della repressione e altre volte sono esplosi in vere e proprie guerre.

Adishi, agosto 2024. Foto di Giulio Burroni

Costruire il Caucaso

Come le Alpi, anche il Caucaso non è soltanto un insieme di magnifiche aree montane e rurali, ma anche prodotto di un lungo e complesso processo di proiezioni esterne; sedimenti di immaginario accumulati nel tempo che, dapprima, hanno dato vita a idee collettive e successivamente hanno modellato il paesaggio montano stesso attraverso opere e infrastrutture, oggi collegate principalmente all’economia del turismo.

L’Europa post-illuminista troverà il suo primo sguardo su questa regione, perlopiù sconosciuta, nella letteratura di metà Ottocento, con quel Viaggio in Caucaso di Alexander Dumas che darà il via alla fascinazione romantica ed esotica di Puskin, Tolstoj e soprattutto di Lermontov. Erano gli anni in cui nel vecchio continente prendeva forza il mito dell’alpinismo esplorativo che, grazie alla febbrile attività dei pionieri britannici e delle guide locali, portò le bandiere nazionali sulle vette del Rosa, del Cervino e poi del Bianco. 

L’inglese Douglas William Freshfield aveva solo diciassette anni quando arrivò sulla vetta più alta d’Europa: era il 1862 e le Alpi, da lì in avanti, non gli sarebbero mai più bastate: ad aspettarlo c’erano monti e vallate alle porte dell’Oriente. Esplorazione del Caucaso sarà la chiusura del cerchio-viaggio che Freshfield, insieme a guide e cartografi inglesi, intraprese a fine del diciannovesimo secolo, percorrendo un vasto arco del Grande Caucaso, sia nel versante russo che in quello georgiano.

Mappa delle province del Caucaso. La linea rossa tratteggiata mostra il percorso di Douglas Freshfield nel suo viaggio.

Qualche anno dopo la prima spedizione, prese a viaggiare con Freshfield anche Vittorio Sella, esploratore, alpinista e fotografo italiano, che attraverso il resoconto fotografico ha contribuito come nessuno prima alla documentazione e alla conoscenza delle remote aree della regione. 

Vittorio Sella, Caucaso, 1890

A guardare le immagini delle lastre fotografiche di Sella scattate su banco ottico, o a leggere delle peregrinazioni dell’ufficiale dell’esercito imperiale Lermontov tra i passi innevati del Caucaso,  si resta increduli a pensare come certi individui fossero in grado di battere le altitudini inesplorate con addosso attrezzatura fotografica di quel peso o in carovane notturne al traino dei muli.  Eppure, forse, la risposta è sempre più semplice: l’uomo adatta sempre le sue abilità ai mezzi materiali di cui dispone,  e la percezione del rischio che oggi proiettiamo su quelle imprese è anche un filtro culturale legato alle possibilità del nostro tempo. Un filtro non propriamente oggettivo e sempre situato nella storia. 

Da fine Ottocento in avanti, anche l’alpinismo esplorativo nel Caucaso, come quello alpino, cede il passo a una concezione sportiva e sempre più tecnica dell’avventura in altitudine.  In tutto questo affanno generale per le vette, è il Monte Elbrus con i suoi 5600 e passa metri la spilla da appuntare al petto. La prima ascensione documentata della vetta occidentale (la più alta) è datata 28 luglio 1874 ed è attribuita a una cordata di inglesi e svizzeri accompagnati da una guida locale. Tuttavia, la vetta orientale (più bassa, 5.621 metri) era già stata conquistata nel 1829, da un contadino locale, Killar Khashirov, come parte di una spedizione scientifica russa. Nel 1909, poi, un gruppo di undici alpinisti russi allestì un accampamento temporaneo a 4.050 metri di altitudine. Prima di partire, lasciarono un’incisione su una pietra con la scritta “Shelter 11”. Vent’anni dopo, nello stesso luogo, un gruppo di alpinisti sovietici eresse quello che sarebbe diventato l’albergo più alto dell’URSS (e successivamente della Russia moderna): lo “Shelter 11”, destinato supportare le spedizioni alpinistiche e scientifiche sull’Elbrus.

La costruzione dei rifugi in luoghi estremi e isolati – pratica già ampiamente collaudata in Europa – rifletteva bene l’ambizione scientifica e ingegneristica dell’epoca, quando la natura non era più vista come inaccessibile e pericolosa, ma come un terreno da esplorare, misurare e conquistare. Gli stessi rifugi erano spesso realizzati con un’estetica razionale, coerente con i valori del modernismo, in cui la forma seguiva la funzione: strutture semplici, robuste, capaci di resistere agli elementi.

Lo Shelter 11 nel 1942, durante l’operazione Edelweiss. 

Con la Seconda Guerra Mondiale poi, l’Elbrus diventa teatro di scontri militari dal valore più simbolico che realmente strategico. A causarli l’operazione militare Edelweiss. La Wehrmacht non avrebbe potuto ottenere il petrolio di Baku senza prima controllare il Caucaso e nell’agosto del ’42 una squadra di truppe d’élite tedesche issò la croce uncinata sulla vetta dell’Elbrus. Lo scopo era più di dimostrare la supremazia tedesca in ogni ambiente, compresi i territori più ostili, che ottenere un reale vantaggio. Lo stesso valeva per la Russia che dai primi mesi del 1943, lanciò una controffensiva che riuscì a respingere le forze tedesche e riconquistare anche le posizioni sulle pendici dell’Elbrus. Entrambi gli eserciti sottraerono così importanti energie da teatri di guerra ben più strategici, e solo per garantire il proprio dominio sulla vetta più alta al confine tra i due mondi. Quattro mesi e mezzo di combattimenti tra i 4000 e i 5000 metri che provocarono centinaia di vittime. 

Combattenti di montagna in cima all’Elbrus

Saltando a incauti balzi verso l’epoca sovietica, il Caucaso diventa la meta principe dell’alpinismo di Stato a vocazione militare. Perché questa catena montuosa ha rappresentato per l’Impero russo prima e per l’Unione Sovietica poi, l’equivalente delle Alpi per i mitteleuropei: un simbolo di potenza e modernità, dall’Ottocento fino alle controverse Olimpiadi di Sochi del 2014, quanto il paesaggio è stato letteralmente ri-creato, con massicci interventi di terraformazione, deforestazione e opere di costruzione di impianti sportivi dalla dubbia utilità, in aree naturalistiche protette. 

Solo dopo l’89, le guide alpine un tempo al servizio dello Stato, e ora disoccupate, iniziarono a reinventarsi, offrendo i primi servizi di accompagnamento per gli alpinisti europei. E tuttavia, ci vorrà ancora del tempo prima di vedere degli sciatori civili sulle piste, e molti anni di più prima che i primi escursionisti zaino in spalla iniziassero a esplorare queste montagne.

Вертикаль (1966) драма

Vertical (1966), diretto da Stanislav Govorukhin, è un film d’avventura ambientato sulle vette del Caucaso e uno dei primi esempi del cinema di alpinismo sovietico.

Le montagne sono il nostro scudo

Nel Caucaso del Nord ci sono sette vette che superano i 5000 metri di altitudine e si trovano principalmente nella sezione centrale della catena, tra Russia e Georgia. Gole strette e profonde, ghiacciai, pareti rocciose e fiumi creano un ambiente estremamente alpino in cui le pendici settentrionali scendono ripide e le meridionali vanno più dolcemente verso le pianure georgiane. Se il versante nord è dominio dell’alpinismo, quello che scende in Georgia si presta meglio all’escursionismo e più di recente al cosiddetto eco-turismo. 

Con il “ripristino” della stabilità politica e le riforme economiche post-sovietiche, la Georgia ha iniziato a trovare nel turismo una delle sue attività economiche più rilevanti.  Il governo ha investito nelle infrastrutture, e sebbene mobilità e accessibilità abbiano tuttora dei problemi evidenti, negli ultimi due decenni, il turismo in Georgia è cresciuto in modo significativo, passando da circa 500.000 nel 2004 a oltre 9 milioni nel 2019.  Nel 2023, dopo la flessione negativa dovuta alla pandemia da Covid-19, i numeri sono cresciuti nuovamente, e si stima che i visitatori internazionali abbiano raggiunto circa 6-7 milioni, con una quota crescente verso le destinazioni montane.  E anche qui si sente sempre più parlare di turismo sostenibile, una definizione per niente pacifica se si pensa che le destinazioni vengono perlopiù raggiunte con voli di linea low cost, ma che qui limiterò in senso costruttivo a quei progetti di sviluppo di sentieri ecologici, alloggi e viaggi a basso impatto ambientale e promozione di pratiche di coabitazione tra turisti e comunità locali. 

L’alveo del torrente di origine glaciale Adishischala, alimentato dallo scioglimento del ghiacciaio di Adishi, nella ragione georgiana dello Svaneti. Foto di Giulio Burroni. 

Tra le due regioni più popolari per l’escursionismo estivo in Georgia, oltre al Kazbegi – con la sua strada Militare che collega Tbilisi con la città di Vladikavkaz in Russia, passando attraverso il valico di Jvari –  c’è lo Svaneti. Una zona tanto isolata dalle barriere, quanto oggi popolare tra gli escursionisti, che fa parte della regione del Samegrelo, a sud della catena principale del Grande Caucaso, confine naturale, barriera di roccia e ghiaccio tra Georgia e Russia.

Le popolazioni dello Svaneti sono storicamente caratterizzate da una forte omogeneità etnica e da particolari concezioni di comunità e di diritto che hanno funzionato come un cuscinetto sulle autorità, prima imperiali e poi sovietiche. Questo compattamento deriva non solo dalla lingua (lo svano, che appartiene alla famiglia delle lingue kartveliche, o sud-caucasiche, un ramo linguistico che include anche il georgiano, il mingrelio e il laz)  ma anche dalla dipendenza storica della popolazione dall’agricoltura in altitudine, sempre più compromessa oggi dai rischi idrogeologici aggravati dal cambiamento climatico (e dall’abbandono delle attività agricole per lo spostamento d’interesse sulle attività di accoglienza turistica). Da qui la necessità di creare un mondo vitale collettivo, ma soprattutto di mantenerlo stabile e a lungo termine, anche attraverso una comune identificazione con un’origine e un’eredità condivise.

Bambini locali nel villaggio di Adishi. Si potrebbe pensare che chi abita in montagna è isolato e costretto all’immobilità e invece proprio questi bambini, ogni giorno di scuola, viaggiano per più di 3 ore per raggiungere e tornare dalla cittadina di Mestia, lungo strade continuamente soggette a frane. Foto di Giulio Burroni. 

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Gli Svan, non a caso, rappresentano una delle cause identitarie che anche la Georgia si intesta più volentieri quando si tratta di rivendicare l’orgoglio nazionale. La regione si presta perfettamente a questo tipo di narrazione, poiché i suoi abitanti sono profondamente consapevoli della propria unicità culturale e mantengono un forte senso di distinzione rispetto ai gruppi circostanti. Questo senso di separazione è in parte dovuto al loro isolamento geografico, ma anche alla loro storia di indipendenza. Anche durante l’epoca sovietica, infatti, lo Svaneti rimase una regione difficile da controllare, con le strutture patriarcali che resistevano ai tentativi di collettivizzazione imposti dal regime. In molte occasioni, le riforme sovietiche venivano applicate solo superficialmente, con i clan locali che mantenevano il controllo effettivo.

Salt for Svanetia/ჯიმ შვანთე (1930) in HD with English subtitles and music

Salt for Svanetia: il film muto del 1930 diretto dal regista georgiano Mikhail Kalatozov

Tuttavia, presentare lo Svaneti come un’entità completamente unitaria e coesa è un modo decisamente semplicistico, probabilmente alimentato dalle aspettative esotiche indotte dal recente boom turistico. La realtà sembra più complessa. La natura della regione, con il suo isolamento geografico e le sue strutture sociali patriarcali, ha infatti preservato, magari offuscandole agli occhi stranieri, pratiche tradizionali come la vendetta di sangue che hanno reso difficile risolvere i conflitti tra famiglie a tutt’oggi ancora presenti. In un contesto di forte competizione per le risorse, e di scarsità delle stesse per via di territori sempre più fragili, gli scontri legati al controllo delle aree strategiche e le faide sono un elemento di tensione costante.

Ushguli, agosto 2024. Taxi driver nel villaggio di Ushguli, vero epicentro dei trasporti all’interno dello Svaneti. I viaggi in taxi e furgoni sono continui perché la maggior parte delle persone raggiunge questo luogo iconico su ruote.  Foto di Giulio Burroni. 

Negli ultimi decenni, questi conflitti hanno preso forme diverse, legandosi al traffico di armi e droga, a piccoli monopoli dei mezzi su gomma, fondamentali per far muovere i turisti fra le valli, con clan che lottano, ad esempio, per il controllo viario da Mestia, la principale città della regione, verso le aree più rilevanti per il turismo e l’economia locale. Operazioni di sicurezza, come quella governativa del 2021, che mirava al disarmo delle milizie locali, hanno cercato di ristabilire l’ordine, ma hanno spesso avuto un impatto limitato. L’isolamento geografico e l’autonomia culturale degli Svan hanno sempre reso difficile per lo stato georgiano imporre un controllo completo e risolvere le faide, che sono ancora radicate nelle tradizioni locali di onore e vendetta.

Oggi, l’interesse economico legato al turismo sembra aver contribuito a trasformare le dinamiche sociali interne, favorendo una sorta di pax sine bello tra i clan locali. Un po’ come è successo nel centro città di Napoli, in cui l’aumento del turismo di massa ha portato a una diminuzione dei crimini contro i visitatori, con i clan camorristici che hanno compreso l’importanza di mantenere un’immagine sicura per proteggere il flusso di denaro legato all’industria turistica. I quartieri un tempo considerati inaccessibili o pericolosi si sono aperti ai visitatori, mentre i furti e le aggressioni ai turisti sono diminuiti in modo significativo. 

Anche nello Svaneti, i villaggi un tempo remoti e segnati da tensioni locali, sono diventati mete ambite per gli escursionisti amanti della montagna. La necessità di offrire un ambiente sicuro e ospitale ai turisti ha spinto le comunità a collaborare, mettendo temporaneamente in secondo piano le antiche rivalità, ma allo stesso tempo ha aperto a altre inedite tensioni, legate al nuovo mercato della concorrenza tra host.

Is every guest (still) a gift from God?

Nel mio recente viaggio in Georgia, nell’estate 2024, la prima delle due settimane l’ho dedicata a un cammino proprio nella regione dello Svaneti, partendo da Mestia e arrivando dopo quattro giorni a Ushguli, gruppo di antichi villaggi molto noto per le sue torri medievali.

Si tratta di un percorso che, seppur meno affollato dei sentieri alpini, è comunque assai battuto, soprattutto nei mesi estivi: 55 chilometri di cammino impegnativo, tra valichi e fiumi glaciali, con pernottamenti nelle guesthouse di villaggi interni come Zhabeshi, Adishi e Iprari, dove la popolazione locale si sta adattando alla crescente domanda di alloggi, convertendo le proprie abitazioni in guesthouse e promuovendole sulle principali piattaforme online.

L’ospitalità dei georgiani, come è noto, è un valore culturale profondamente radicato in tutto il Paese: non è solo un luogo comune sbandierato nelle guide ufficiali o negli statement di diplomazia culturale. Tornando da queste zone, difficilmente potresti raccontare che i georgiani non siano un popolo gentile, riservato, accogliente e mai troppo invadente. Tuttavia, l’impressione che il rapido sviluppo del turismo stia mettendo a dura prova questo tratto distintivo si è mutata, alla fine del viaggio, in una certezza.

Zabeshi, agosto 2024. La guest house “Dodo” nel villaggio di Zabeshi. Qui il capofamiglia che insieme alla moglie Dodo è stato uno dei primi ad accogliere i viandanti nella loro grande casa. Foto di Giulio Burroni

I residenti di questi villaggi remoti si trovano a dover gestire delle inedite forme di domanda tutte concentrate nei mesi estivi, quanto le aspettative degli escursionisti internazionali confluiscono qui attraverso il filtro immateriale delle piattaforme di prenotazione, che pur offrendo visibilità contribuiscono a creare una forte pressione sui prezzi. 

Le recensioni online, spesso superficiali e influenzate da una visione idealizzata, possono avere un impatto significativo sulla percezione del luogo e sul comportamento dei futuri visitatori che, arrivati alla meta, interpretano le guesthouse come dei rifugi di montagna o dei pub, dove festeggiare le loro imprese con abbuffate e gozzovigli. Il turista inoltre, attratto dall'”autenticità” del luogo, si aspetta che anche i prezzi dell’ospitalità restino tradizionali, cioè molto economici. 

È facile quindi immaginare la pressione che i locali sentono nel cercare di soddisfare le richieste di questo segmento internazionale mentre affrontano una competizione crescente con i vicini. A tutto questo si sommano le difficoltà di comunicazione e le inevitabili incomprensioni culturali dovute alla mancanza di una lingua comune. 

Casa abbandonata nel villaggio di Adishi, agosto 2024. Qui un innevamento del tutto eccezionale devasto l’area e portò nel 1987 all’evacuazione del villaggio. Il villaggio rimase spopolato per molti anni e solo negli ultimi decenni, Adishi ha iniziato a ripopolarsi, principalmente grazie al crescente interesse turistico per lo Svaneti. Foto di Giulio Burroni.

Una carovana globale, in Gore-tex

Non è stata certo una sorpresa capire che sarei stato più che in compagnia durante il cammino di quattro giorni nel Caucaso georgiano: agosto non risparmia niente e nessuno. Eppure, vedere che Mestia, la piccola municipalità che fa da porta d’ingresso alle vallate interne dello Svaneti, fosse non il villaggio incantato di cui parlano le guide, ma un hub internazionale di giovani hikers in goretex ha infranto l’aspettativa egotica di avere tutta per sé la presunta autenticità dei luoghi e il primato dell’avventura. E sono bastati pochi minuti in giro per la piccola città a disilludersi e capire, dio voglia, che le tracce che si seguono in qualsiasi viaggio sono sempre già state battute dall’esperienza altrui, sedimentata commento dopo commento, like dopo like, fotografia dopo fotografia.

Sentirmi parte di questa varietà umana in cammino, ha portato a galla delle buone domande, prima fra tutte: cosa stavamo tutti cercando in questo angolo remoto del Caucaso? Il ragazzo francese in anno sabbatico lungo la Via della Seta, la fotografa australiana in viaggio con un amico ricercatore a Londra, la thru-hiker neozelandese reduce da venti giorni continuativi di cammino in Azerbaijan, o il gruppo di startuppari californiani dalla San Francisco con i prezzi al metro quadro prezzi ormai fuori controllo. E poi tanti giovani israeliani, in vacanza dopo l’ultimo anno di scuola, poco prima di iniziare un servizio militare che sarà tutt’altro che semplice. (La Georgia è una meta molto amata dai turisti israeliani, grazie alla vicinanza e all’assenza di visto).

Mestia, agosto 2024. Foto di Giulio Burroni.

Era evidente che questa varietà di volti e storie stesse applicando, ognuna a suo modo, quel western gaze con cui noi occidentali tendiamo a guardare a un paese ex-sovietico: l’estetica urbex, l’oggetto fuori contesto in scenari da “terzo paesaggio”, il diffuso abbandono industriale, le tenere babuske e la famiglia tradizionale. E poi tutto l’immaginario del sacro e della nostalgia che portano con sé le vette innevate e le valli glaciali.  

Perché ciò che carichiamo con noi in viaggio è sempre un bagaglio culturale delle nostre vite ordinarie dove l’esperienza autentica e il contatto con la natura rientrano come capitali simbolici da esibire una volta rientrati a casa. Ma spesso, quello che oggi chiamiamo approccio sostenibile al turismo si riduce al semplice vantaggio economico che abbiamo nel visitare un paese con una moneta decisamente più debole della nostra.

Da anni cerco di includere qualche giorno di cammino continuativo nelle mie estati e voglio continuare a farlo: ma perché lo faccio? Cosa cerco in queste fughe montane? Sono davvero esperienze più nobili, come tendo a pensare, rispetto ad altre più ordinarie? Perché, alla fine, cosa c’è di straordinario nel mio approccio “della domenica” alla montagna, dove nulla può realmente andare storto, dato che un elicottero di soccorso è sempre pronto a intervenire se il panico mi coglie sul crinale?

Farsi queste domande durante e dopo il viaggio, non dovrebbe tuttavia invalida l’esperienza che si sta facendo. Dovrebbe essere modo per bilanciare la spontaneità con una riflessione su che tipo di esperienza stiamo vivendo, perché in un’epoca in cui il turismo è uno dei principali motori economici, con impatti inediti sugli equilibri locali, è quasi obbligatorio farsi osservatori attenti dei nostri desideri di fuga e delle nostri immaginari nostalgici. Camminando tra i valloni glaciali dello Svaneti, ho cercato quindi di capire meglio cosa ci sia dietro il fascino delle nostre esperienze di meraviglia montana. E in fondo, se il problema è complesso, la risposta può essere anche molto chiara, se non semplice: il turismo, anche quello che si dichiara più “sostenibile”, è un’arma a doppio taglio per le comunità montane dello Svaneti georgiano. Se da un lato offre opportunità economiche in regioni fragili, segnate da povertà e spopolamento, dall’altro, la sua crescita disorganizzata è un serio rischio per il patrimonio culturale e naturale e per la coesione delle comunità. E mentre lasciavo lo Svaneti, in una carovana di pulmini stracolmi di vacanzieri tutti ben “consapevoli” come me, tornava chiara l’evidenza di quanto anche io stessi contribuendo a sedimentare l’immaginario turistico di questi luoghi, dando un piccola spinta alla loro progressiva e inesorabile trasformazione. 

L’eterno dilemma del turista è, anche per questa volta, tutt’altro che risolto. 

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Novembre 2024
Diario di una viaggio e di una turné con Pippo Delbono
Gianni Manzella

Pubblichiamo un estratto dal volume in questi giorni in libreria di Gianni Manzella, Delbono (Sossella editore). Come in un romanzo, il libro accompagna il lettore in un viaggio interiore dove racconti d’arte e di vita si intrecciano in maniera indissolubile.

Domenica 29 dicembre.

È già buio alle 17 e 30 quando l’aereo della El Al atterra all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. La strana compagnia che si presenta ai banchi di controllo è capace di disorientare anche l’ostilità manifesta della doganiera israeliana, una cerbera che ci mette tutto quel che le riesce di durezza nel rivolgerci le domande di rito: per quale motivo vogliamo entrare in Israele, dove andiamo, quanto ci fermiamo. Si chiama Denise, così dice la targhetta d’identificazione che porta sul maglione blu militare. 

Ci guarda spazientita, si attacca al telefono con una certa Svetlana. 

Scompare con i nostri passaporti e quando ritorna sembra urtata di doverci far passare. È la prima volta che viaggio in Israele e Palestina. Ci sono arrivato con Pippo Delbono e i suoi compagni, invitati per un giro in cinque teatri palestinesi con lo spettacolo Guerra. Ecco l’altissimo Gustavo e il piccolo Bobò che non si toglie mai di dosso la maglia biancazzurra di Maradona; Gianluca, dolce ragazzo down, e Armando che si muove con le stampelle e il frenetico Mr. Puma che bacia la terra dove arriva. Non c’è invece Nelson, che all’ultimo momento si è rifiutato di salire sull’aereo. Ci attendono la troupe milanese che farà le riprese del viaggio e il pullman guidato da Saleh, un arabo discreto e sornione. Il pullman si chiama Sindbad, come l’avventuroso marinaio della favola, forse è un presagio.

Il primo contatto con questa terra che si dice “santa” è un viaggio nella notte verso Gerusalemme. L’autostrada attraversa luoghi immersi nell’oscurità, apparentemente poco abitati. Però la strada è tutta illuminata da lampioni, come un viale cittadino, e davanti a noi appare come un filo luminoso che si dipana nel buio.

L’albergo si trova nel quartiere cristiano della città vecchia, a un passo dalla Porta Nuova. Il Knight’s Palace è una struttura legata al Patriarcato latino, zeppa di simbolici richiami alle crociate. Trofei guerreschi sono dovunque, armature medioevali, scudi appesi alle pareti, quadri di antichi cavalieri accanto al Cristo redentore. Anche l’occhialuto Patriarca è ritratto avvolto nel mantello di qualche ordine cavalleresco. Non suscita simpatia. 

Nella sala da pranzo, al piano inferiore, domina una veduta della Gerusalemme antica, chiusa nella sua cerchia di mura in mezzo a una campagna ancora disabitata. E sopra la croce col motto “Dieu le veult”.

Qui dove tutto dovrebbe parlare di una convivenza millenaria, ora bisogna attraversare un metal detector per arrivare al muro del pianto e la spianata delle moschee ci è preclusa dai soldati (“Per la vostra sicurezza” è la formula che non ammette repliche). Che a qualcuno interessi incrinare questa convivenza anche con gesti provocatori è subito evidente. Il primo ministro Ariel Sharon ha acquistato una casa nel mezzo del quartiere musulmano. 

Impossibile non vederla: sul tetto ha fatto issare un’enorme menorah, il candeliere rituale a sette bracci, e dall’alto scende per due piani una bandiera con i colori israeliani e la stella di David. Ma forse sono più inquietanti i segni minori di intolleranza, come i nomi in arabo delle strade cancellati o nascosti da adesivi.

È il nostro primo giro per la città vecchia, vorremmo subito vedere. Nella notte, la città vecchia è bianca e vuota. Le botteghe sono tutte chiuse. Nelle strade silenziose passano solo gli uomini delle pulizie. Al muro del pianto si arriva attraverso un tunnel che aumenta la sensazione di spaesamento che coglie quando si sbuca nel luogo sacro. Nella vasta piazza si muovono con passo veloce, quasi di corsa, tanti ebrei ortodossi dai lunghi cappotti neri e il cappello pure nero posato sulla testa che sembra sempre di una misura più piccola del dovuto. La parte bassa del muro è occupata da una fila ininterrotta di uomini in preghiera che muovono ritmicamente il capo, anche loro tutti vestiti di nero. Alle loro spalle altri uomini si muovono intorno ai tavoli dove sono ammucchiati i libri sacri, li prendono per leggere un brano e poi li rimettono a posto. Le donne stanno sulla parte destra, separate da una parete divisoria; quando si allontanano non possono voltarsi, devono retrocedere rivolte al muro fino ai limiti dell’area sacra.

La piazza una volta non c’era. È stata ricavata abbattendo il quartiere di casette che arrivava quasi a ridosso del muro. Ragioni di sicurezza. In alto, ben visibili, stazionano gli automezzi della polizia.

Lunedì 30 dicembre.

La differenza fra la parte araba della vecchia Gerusalemme e il quartiere ebraico è assai visibile di giorno. Quando le strade si riempiono della gente, delle musiche, dei colori, degli odori di ogni città mediorientale. Merci esposte per strada, confusione. Poi si attraversa un sottoportico, una frontiera invisibile, ed è come precipitare in un’altra realtà. Il Cardo, l’antica strada maestra d’epoca romana, appare in un nitore senza sbavature. Edifici perfettamente ristrutturati. Ristoranti e negozi eleganti, con un che di finto o artefatto.

Forse così qualcuno immagina il futuro della città vecchia, ripulita della presenza araba e trasformata in un monumento turistico.

La conferenza stampa di presentazione del nostro viaggio è convocata all’American Colony Hotel. È la sede ufficiosa degli incontri, delle trattative – ne parla Edward Said in un suo libro, aveva soggiornato qui nel 1992 quand’era tornato dopo quasi mezzo secolo nella città dov’era nato. Un’oasi di piacevolezza old fashion. Terrazzi con gazebo. Chiostri con alberi d’arancio. All’interno boiserie e stucchi, cieli stellati, alternarsi di due colori, bianco e azzurro, grandi tappeti e specchi decorati. Un esempio di quel che era questa città nella prima metà del novecento, per la sua società benestante, una borghesia palestinese di proprietari e commercianti.

Qualcuno chiede a Delbono se lo spettacolo, Guerra, prende posizione contro l’occupazione israeliana della Palestina. Sono qui per osservare e cercare di comprendere, è la risposta. Sono più o meno le stesse parole con cui Edward Said giustifica il suo ritorno in Palestina, dopo quasi cinquant’anni di lontananza.

Ho ripreso in mano il diario scritto in quei primi giorni del 2003. Sto trascrivendo quasi alla lettera le prime pagine. È un quaderno tascabile con i fogli legati da un doppio giro di anelli e la copertina di un cartone spesso, che avevo acquistato negli Stati Uniti qualche anno prima. L’avevo scelto, prima di partire, per la tasca interna che mi consentiva di conservare i piccoli pezzi di carta trovati per via. Biglietti di teatro. Il menu di un ristorante. Il minuscolo certificato con cui Rabbi Moshe Nahshoni assicura che il cibo servito sull’aereo della El Al è kosher. 

La prima parola che mi viene incontro nel diario è “ostilità”. Ostilità è il sentimento di chi si sente nemico, o circondato da nemici. Penso alle parole scritte da Edward Said su questi due popoli accomunati nell’universalità del dolore.

Avevo scelto l’intellettuale statunitense di origini palestinesi come ideale compagno di viaggio per la sua capacità di stare da una parte senza perdere di vista le ragioni dell’altra.

Tanto da arrivare a scoprire, da ultimo, due popoli legati da vincoli inscindibili. Professore di letteratura comparata alla Columbia University di New York, studioso dell’orientalismo ma anche militante della causa palestinese, Edward Said nel 1991 aveva scoperto di essere affetto da una malattia che non gli lasciava scampo. La sconvolgente diagnosi medica dice di una grave forma di leucemia. 

Per la prima volta, scrive, deve convincersi dell’inevitabilità della morte. 

Della propria morte. Decide di lasciare ogni incarico pubblico e di partire per la Terra Santa per visitare i luoghi di origine della propria famiglia. Ripercorrere con la memoria quelle storie più antiche gli sembra un accompagnamento consono al declinare della vita. Vi tornerà nel 1996 per vedere cosa è cambiato dopo gli accordi di Oslo.

Non mi ero reso conto subito, in quel momento, di quanto questa cognizione improvvisa della propria morte fosse prossima a quella vissuta da Delbono negli anni torbidi della malattia.

Sono qui per osservare e cercare di comprendere, risponde Delbono a chi lo incalza cercando una sua collocazione nella scontata dialettica amico-nemico. Non è il rifiuto di fronte alla necessità etica di prendere posizione. Ché anzi osservare e comprendere è proprio il passo necessario per prendere consapevolmente posizione. Lo farà con le immagini di un film.

Il film che Delbono ha tratto dalle immagini riprese durante il viaggio in Palestina si intitola Guerra. Ma piuttosto che allo spettacolo presentato il titolo fa riferimento allo stato del paese che in quel momento ci appare davanti. O forse a come una creazione teatrale nata in tutt’altro contesto può misteriosamente rispecchiare quello stato. 

Una guerra strisciante, che sembra insinuarsi in ogni piega del vivere quotidiano. E infatti il film si illumina sull’immagine di un filo spinato. E a lungo non servono parole, dopo quelle di Pasolini poste in epigrafe. Serve solo guardare. 

Immagini di distruzioni. Rifiuti abbandonati. Altri muri sbrecciati e altro filo spinato. Il ferro già un po’ arruginito dell’armatura che emerge dal cemento frantumato.

“Per ogni cosa c’è il suo tempo, per ogni faccenda sotto il cielo”, urla Pippo nello spettacolo. “C’è un tempo per la guerra e un tempo per la pace. C’è un tempo per gettare i sassi e un tempo per raccoglierli”. Qui tutto sembra essersi fermato al tempo dei sassi.

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Cristian Raimo è stato sospeso dall’insegnamento per tre mesi, con una decurtazione del 50% dello stipendio. L’impiego, nel corso di una festa di partito, di una citazione cinematografica dal nome evocativo (la “Morte Nera”), di verbi (“colpire”, per esempio) e aggettivi (tra cui, “lurido” e “cialtrone(sco)”) riferiti ai contenuti abitualmente espressi da un soggetto che è incarnazione sia di un ruolo pubblico sia di un’individualità, come nel caso del Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, gli è valso – nel quadro di un particolare contesto politico, giuridico e culturale – la misura disciplinare menzionata sopra. 

Le reazioni immediate dell’area di governo alle parole del docente e le istanze punitive che le ha contraddistinte sono state prontamente recepite dall’Ufficio Scolastico Regionale del Lazio. che ha avviato il procedimento approdato alla sospensione del dipendente. Il Ministro interessato ha commentato osservando che: “”Io ho un milione e 200mila dipendenti, figuriamoci se mi devo occupare di tutti i procedimenti disciplinari che sono tanti. È un problema dell’Ufficio scolastico regionale del Lazio, non mi occupo di queste cose”. 

Le reazioni politiche e sindacali sono state immediate e si incentrano essenzialmente sull’impiego politico di misure amministrative. Ovvero sulla negazione di fatto della libertà di pensiero ed espressione della critica. Un tratto che appare proprio di questa particolare vicenda, ma che è virtualmente applicabile a chiunque nel quadro di un preciso modo di configurare il rapporto di fedeltà dei dipendenti pubblici con le proprie amministrazioni (ciò che nel caso della scuola, è prescritto dall’articolo 13 del Codice di comportamento dei dipendenti del Ministero dell’istruzione). 

Com’è tipico degli episodi eclatanti di “censura”, questa vicenda presenta piani di lettura di ordine politico, giuridico e culturale. Inoltre se è possibile personalizzare la questione incentrandosi sulle particolari identità dell’“offensore” (Raimo)  e dell’“offeso” (Valditara), è ugualmente necessario osservare la struttura, le funzioni astratte svolte dai soggetti coinvolti e le possibilità di applicazione analogica dei ragionamenti che compongono tanto la misura amministrativa adottata quanto le reazioni degli attori pubblici (dai singoli politici ai partiti di ogni orientamento, passando per la società civile e i dirigenti delle amministrazioni). È chiaro infatti che la vicenda è esemplare, replicabile e che è politica non tanto perché attenga a un caso particolare, ma perché è parte di un preciso modo di governare i rapporti sociali. Inoltre è il frutto di una serie di trasformazioni sia culturali sia politiche che caratterizzano da decenni la storia nazionale, senza per questo essere indipendenti dalle dinamiche globali che caratterizzano questi stessi ambiti.

La prima ovvia trasformazione attiene all’aziendalizzazione del settore pubblico. Ciò non soltanto nel senso dell’ormai comune adozione di procedure volte a misurare e incrementare le prestazioni individuali o organizzative; ma anche in quello di una depoliticizzazione dei ruoli e delle funzioni pubbliche. Non è un caso che il Ministro dell’Istruzione, chiamato a commentare la sanzione somministrata al docente, possa rispondere osservando che: “io ho un milione e duecentomila dipendenti… è un problema dell’Ufficio Scolastico Regionale del Lazio non mi occupo di queste cose”.

Il tono della risposta è appropriato nella misura in cui mette in scena un disinteresse personale e politico verso l’aggressore (quella terzietà rispetto ai fatti e alle persone che è propria dell’agire burocratico), ma  rammenta contemporaneamente quella del delegato amministrativo di una grandissima impresa che ha (in quanto persona) un certo numero di dipendenti.

Nel disinteresse esibito verso l’altra persona coinvolta nel conflitto (che egli stesso aveva riconosciuto a caldo come interlocutore e nei confronti del quale auspicava una risposta istituzionale adeguata) c’è dunque sia la possibilità di fare mostra di stare esercitando una mera e impersonale gestione dei grandi flussi, sia quella di sottrarsi a un dialogo a distanza con la controparte (Raimo). Ossia vi è, come si è già detto, la depoliticizzazione di un provvedimento, che viene fatto passare per  tecnico e amministrativo: per l’appunto, un fatto di gestione di una vicenda di indisciplina e nulla più.

A contraddire parzialmente l’enunciato, però, c’è quella personalizzazione del ruolo espressa dalla coniugazione del verbo avere (“ho un milione e duecentomila dipendenti”), che svela in realtà un rapporto comprensibilmente molto personalistico col ruolo e che suggerisce necessariamente una visione complessiva delle cose, specialmente quando queste non sono realmente minute (come nel caso dello scontro con un noto intellettuale).

In tale quadro opporsi a un critico rifiutando di adottare una pratica dialettica  e delegando invece al ramo tecnico dell’amministrazione il compito di risolvere autoritariamente uno scontro in atto, è contemporaneamente tanto un’opzione politica (essenzialmente autoritaria) quanto un modo di disconoscimento dell’oppositore (ossia un corso simbolico di azione). Ma anche una possibilità tecnicamente possibile, in ragione di sentenze della Cassazione che, a partire quantomeno dal 2007, sanciscono sostanzialmente che il parlare male del datore di lavoro implica “potenzialità negativa sul futuro adempimento degli obblighi del dipendente”, aprendo così la possibilità a differenti sanzioni che includono anche il licenziamento. Da sottolineare come questo genere di sentenze siano state applicate non solo a dipendenti privati, ma anche a quelli pubblici.

Ne deriva che senza una serie precedente di mutamenti tecnici e ideologici che trasformano il senso del lavoro pubblico, oppure che rinforzano principi in fondo già esistenti e latenti nell’ordinamento, le risposte apparentemente impolitiche sarebbero state meno praticabili. O, forse, sarebbero state sostanzialmente impraticabili dentro la particolare cornice di cui discutiamo: quella di una critica politica che avviene in un contesto politico (una manifestazione di partito) che, come tale, è distinto da quello professionale. Un piano professionale, tuttavia, che viene implicato proprio per impartire una sanzione che atterrebbe invece a quello politico.      

Un altro aspetto della vicenda è che dietro misure di questo tipo si rinviene l’idea che il ruolo segua le persone e che i distaccamenti occasionali da esso non siano consentiti. Nell’epoca delle identità “post-convenzionali”, in cui solo raramente un attaccamento totalizzante al ruolo è praticato spontaneamente da chi lo rivesta, questo è curioso. In fondo, proprio a partire dai ruoli politici, i detentori di cariche possono essere sboccati, possono mimare atti sessuali brandendo un microfono, fare le corna nelle foto ufficiali con i colleghi, ritrarsi seduti in un gabinetto e molto altro. Allo stesso modo si può essere avvocati e musicisti, giudici e scrittori e via dicendo con le possibilità. Alla luce di questa occorrenza e, insieme, delle disuguaglianze implicite nel differente grado con cui è accordato ad alcuni di distaccarsi vistosamente dal ruolo, si può anche dire che sentenze, trasformazioni ideologiche e azioni amministrative certificano la natura diseguale e arbitraria dei sistemi di regolazione, così come delle facoltà connesse ai differenti ruoli.   

 Poiché ci si muove entro un sistema arbitrario, in circostanze tra loro analoghe tutti i ruoli sarebbero potenzialmente esposti ai medesimi rischi. Tuttavia è vero che alcune attività sono più a rischio di altre. L’ambito dell’istruzione è una di quelle particolarmente esposte. Ciò avviene perché, già sul piano del senso comune, questo settore è connesso al tema della riproduzione sociale (ossia del formare generazioni moralmente sane) e perché vi è l’idea che l’esemplarità sia d’obbligo per chi entri in contatto con delle “spugne” quali sarebbero i giovani.

Semplificando di molto, anche in questa rappresentazione del rapporto tra adulti e giovani è possibile intravedere l’importanza di una visione “pedagogica” attraversata da presupposti gerarchici. Si tratta di quei presupposti che postulano l’incapacità giovanile di distinguere i comportamenti e di dipendere dunque dall’esemplarità degli adulti. Quegli stessi adulti che costituiscono da molti secoli – ossia a partire dal processo di formazione di un sistema sociale che prelude al contemporaneo e all’emersione di psicologie connesse –  tanto il terreno dell’imitazione quanto del conflitto e del distacco (gli stessi atteggiamenti che nel caso italiano hanno partorito una conflittualità sociale significativa, divenuta chiarissima negli anni Settanta del secolo scorso).

Verosimilmente è proprio in ragione di tali conflitti e distacchi  che nel corso degli ultimi decenni la reazione congiunta dei dispositivi istituzionali ha proceduto a riconfigurare la propria immaginazione dei giovani e dei ruoli connessi alla loro formazione. Estendendo di conseguenza l’insieme degli obblighi a cui sono sottoposti i docenti.

Nei fatti questa visione gerarchica e pedagogica è contraddittoria. Per esempio da un lato infantilizza i giovani a lungo; dall’altro si traduce in dispositivi complessi di attivazione precoce nel mondo del lavoro (si pensi agli obblighi di tirocini)  o in forme diffuse di patologizzazione (la significatività statistica delle sindromi comportamentali o d’apprendimento tra gli studenti).

Inoltre agisce anche come una giustificazione per neutralizzare la critica politica, il non-conformismo o il radicalismo intellettuale. In ragione di questa logica chi è un insegnante dovrebbe per esempio esimersi dall’adozione di un linguaggio polemico e anche lontanamente allusivo alla violenza. La polemica aspra nei confronti dell’autorità – sembrerebbe dirsi – non è un atteggiamento che si adatti alle responsabilità di chi si occupa dei giovani. Il rischio, infatti, sarebbe quello di dare legittimità alle naturali spinte centrifughe di giovani menti in formazione e, perciò, a loro modo anche labili.

In tale quadro, tuttavia, è altrettanto interessante l’appropriazione che questo mondo, essenzialmente reazionario e latamente incentrato nella ricostituzione di un ordine piccolo-borghese che rammenta molto da vicino i valori deamicisiani di Cuore, fa delle politiche del linguaggio. Attenti a ogni sfumatura, i politici di destra impegnati a commentare le parole del prof. Raimo, vedono per esempio come la critica all’“abilismo” delle politiche del Ministro siano contraddette dai riferimenti a una debolezza del Ministro stesso.

Ribaltano cioè su Raimo una serie di coazioni decostruttiviste che sono state tipiche del modo di procedere della cultura progressista applicata al linguaggio. Non importa che gli esiti possano essere assurdi (come nel caso di chi sostiene di comprendere, che poiché Valditara sarebbe debole, Raimo allora intenda allora colpirlo come un bullo). Nel compiere queste operazioni la nuova cultura di destra mostra che certe tecniche su cui ha fatto molto affidamento la sinistra radicale degli ultimi decenni sono in fondo neutre e, come tali, si prestano a essere impiegate da differenti attori per svolgere compiti diversi. E anche come tali tecniche siano in fondo essenzialmente cosmetiche, fornendo solo una base superficiale applicabile su strutture – ossia dispositivi tecnici e istituzionali – che possono servire benissimo le istanze autoritarie. E che, anzi, sembrano servire queste anche meglio che le altre.  

In tal senso la vicenda di cui discutiamo mostra anche come alla formazione di un determinato ordine abbiano inavvertitamente concorso una pluralità di forze sociali e che, per quanto la fase sia prevalentemente reazionaria, essa sia in realtà ibrida. Ossia generata col differente concorso di forze sociali apparentemente schierate nella difesa di valori diversi eppure stranamente compatibili per alcuni aspetti, a partire dalla funzione meramente estetica di parole, atteggiamenti e metodi. 

In un quadro che è oggettivamente dominato da forze che amano ritrarsi come primariamente tecnocratiche, oppure politiche nel senso di essere interessate unicamente alla difesa di valori “naturali”, quale spazio rimane per le classiche manifestazioni di presenza intellettuale? Cosa rimane della libertà di parola e dell’uguaglianza? Verosimilmente poco. Giusto il diritto alla parresia, col suo eterno corollario di morte (se non altro simbolica. Una “morte” fatta di allontanamenti, decurtazioni di stipendi e intaccamento di risparmi). 

Si tratta allora di mettere in piedi uno strumentario della critica politica che sia adatta ai tempi. Insomma si tratta di pensare – e praticare –  una nuova arte del parlare male del potere. Un’“arte”, dunque, che non si limiti a essere estetica, ma egemonica. Che possa insinuarsi e circolare, senza però generare nuove crocifissioni pubbliche. Si tratta, insomma, di riprendere seriamente in mano il tema della cultura e della critica in un’età autoritaria. E di farlo sfuggendo alle tentazioni testimoniali. Se non altro perché – proprio come in età passate – a mancare è un pubblico ampio e sensibile al sacrificio, oltre che alla parola, degli intellettuali.   

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Novembre 2024
Ho sempre pensato che fare politica fosse una cosa seria, e non roba da imbonitori da fiera. Vuoi vedere che lo stupido ero io?
Alessandro Carrera

In monarchia sei governato da un idiota perché così ha voluto Dio. In democrazia sei governato da un idiota perché così hai voluto tu. A suo modo, è un progresso. E nel 2015, all’epoca della prima vittoria di Donad Trump, girava questo meme: “‘Il leopardo mi ha mangiato la faccia!’ dice la donna che ha votato per il Partito-dei-leopardi-che-ti-mangiano-la-faccia”. 

Al posto di tutte le brillanti analisi del voto americano a posteriori, sceglierei allora lo sfogo di un lettore del “New York Times” di prima delle elezioni, a commento del solito articolo del conservatore di turno che accusa l’elitismo della sinistra che non capisce i problemi della gente comune. Per inciso, a me, che non credo di essere fuori del comune, qui a Houston dove vivo, con la gente comune mi capita di parlare, e vi assicuro che non è facile. Perché dopo due minuti di conversazione che sembra normale viene fuori che uno tutte le mattine ascolta quello che gli dice Gesù e si regola di conseguenza, un altro dice che qui ci vorrebbe gente come me, istruiti che vengono dall’Europa, non quella feccia di immigrati ispanici (ispanico pure lui), mentre un altro ancora mi vuole dimostrare che gli immigrati basta che passino la frontiera e hanno più diritti di lui e fanno più soldi di lui. Eh, cosa vuole che le dica, saranno più furbi.

Da cui l’uscita del lettore del NYT. Mi vergogno dela mia ingenuità, scrive. La mia idea che siamo simili al 99,5% della popolazione e che abbiamo qualcosa in comune tra le varie classi è stata smentita in pieno. Avrei dovuto prendere lezioni dal top 1%. Il loro disinteresse per la comunità, la democrazia, l’equità è assoluto. Per loro si tratta solo di accaparrare, dominare, frodare, inquinare e comprare politici, legislatori e forze dell’ordine. Loro, al contrario di me, sanno che io, come parte della classe media, non sono meritevole di cittadinanza in questo mondo, che è il loro. E bravi. Eccomi qui, a pensare come uno stupido che la politica sia uno strumento al servizio di tutti, di me che sono classe media come della classe operaia. Mi sono sbagliato. Se fossi più intelligente, adotterei gli atteggiamenti e i comportamenti del top 1%. Non lavorerei per nient’altro che per accaparrarmi tutto quello che posso. La classe operaia ha parlato chiaramente: “Poiché fare la spesa costa troppo, voterò per un delinquente fascista che dichiara apertamente il suo amore per i nazisti, promette una dittatura e deporterà tutti coloro che non rientrano nel suo progetto etno-religioso”. 

Vengo alla sua conclusione, che gli sono grato di avere espresso con una durezza di cui io non sarei stato capace: “D’ora in poi, qualsiasi mossa politica che miri a elevare la classe operaia la considererò una minaccia personale”.

Ora, com’è che la classe operaia una volta pensava di “elevarsi”? Semplice: mandando i figli a scuola. E l’ha fatto; in gran numero continua a farlo. Ma i figli che vanno a scuola, anche se continuano ad essere i figli dei loro genitori, non sono più figli della classe operaia, sono un’altra cosa. Tornano a casa dopo il primo giorno di università, aprono bocca e si accorgono che i genitori non li capiscono più (so benissimo di cosa sto parlando, credetemi). Poi, un giorno, questi figli-non-più-figli, che magari non guadagnano neanche molto di più di quello che guadagnavano i loro genitori, scoprono con loro sorpresa di essere diventati élite, e quelli che glielo rimproverano, come Donald Trump ed Elon Musk, sono proprio quelli che sono sempre stati figli solo dei propri soldi. 

No, la classe operaia non è fatta di santi, anzi può essere tanto fascista e razzista quanto qualunque altra classe. Non lo sa, ma non è lesa maestà farglielo notare. Non è elitario informare un entusiasta di Elon Musk (“Ha salvato gli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale senza chiedere un soldo ai contribuenti!”, parole testuali) che invece Musk i soldi dai contribuenti li ha presi eccome, grazie alle sue commesse miliardarie con il Pentagono e la Nasa, e se l’entusiasta pensa che Musk faccia beneficenza al governo americano non è solo un ingenuo, è molto peggio.

No, non c’è niente di male a chiamare stupido uno stupido, o fascista un fascista. Il fascismo (Kant direbbe il male radicale) è il default dell’essere umano che ha paura di tutto e alla percepita aggressione del mondo esterno reagisce con una violenza preventiva che scambia per redentrice. Se le cose non stessero così, non ci sarebbe bisogno delle istituzioni, delle leggi e di quello che Freud ha chiamato il disagio della civiltà, questa autoprigione che ci siamo costruiti e dentro la quale siamo tutti infelici perché non possiamo essere tutti fascisti.

E a quelli che non sono fascisti ma solo spaventati, come si può parlare? Cosa dire ai giovani preoccupati per il loro futuro, che a settembre sono andati a sentire Trump in un comizio in Pennsylvania, cinquanta miglia a nord di Pittsburgh, e l’hanno votato perché gli hanno sentito dire: “Votate Trump e il vostro reddito salirà di colpo. Il vostro patrimonio andrà alle stelle. Il prezzo della benzina e degli alimentari crollerà!” (“Vote Trump and your incomes will soar. Your net worth will skyrocket. Your energy costs and grocery prices will come tumbling down!”). Che cosa dirgli oltre a: ma veramente basta così poco? Se per fare il presidente è sufficiente venire a dirvi: “Votate per me e vi farò ricchi”, allora sono capace anch’io. Perché ho sempre pensato che fare politica fosse una cosa seria, e non roba da imbonitori da fiera? Vuoi vedere che lo stupido ero io?

Trump è semplicemente un prosperity preacher, come il famoso Joel Osteen qua a Houston. Andate a sentire le sue omelie, e vi dirà: “Pregate e sarete ricchi!”. Gliel’ho sentito dire io, e le migliaia di fedeli che raccoglie ogni settimana (la sua chiesa è un ex stadio di pallacanestro), e che ricchi non sono, applaudivano convinti.

Ma i commentatori conservatori, oh, quelli ci sono andati a nozze nello sbeffeggiare il moralismo della sinistra che non capisce i bisogni del proletariato. E certo, la sinistra è insopportabile nella sua spocchia puritana, la stessa che era dei repubblicani di una volta, ma mettersi sullo scranno in base al principio secondo il quale “gli elettori hanno sempre ragione” è pura ipocrisia, perché qui non si tratta veramente di scelte ideologiche. Non è che gli elettori di Trump abbiano scelto la “destra”. In America la “massa” non ragiona in base a destra e sinistra; ragiona in base a chi appare vincente e a chi appare perdente, in base ai valori “eroici” delle società antiche. Se sei un winner hai ragione, se sei un loser vuol dire che non avevi ragione.

E chi ha sempre ragione sono i ricchi. Una volta, parecchi anni fa, una studentessa mi ha parlato dei suoi genitori. Avevano una bottega di barbiere a Dallas. Hanno sempre faticato a tirare la fine del mese, e hanno sempre votato repubblicano. Perché i ricchi hanno ragione, dicevano. Se non avessero ragione non sarebbero ricchi.

Nel 1974, il poeta Gary Snyder scrisse dei versi molto antologizzati e molto criticati. La poesia si intitolava Sono entrato al bar dei cani sciolti (I Went into the Maverick Bar), un vero bar di Farmington, nel New Mexico. Prima di entrare, Snyder si raccolse i capelli lunghi sotto il berretto e lasciò l’orecchino in macchina. Poi ordinò birra e un doppio bourbon. Vide una coppia ballare come si ballava nelle scuole superiori negli anni Cinquanta e pensò: “Mi venne in mente quando facevo il boscaiolo / e i bar di Madras, nell’Oregon. / Quella gioia di avere i capelli a spazzola e la rozzezza dei modi, / America, la tua stupidità. / Mancava poco che tornassi a innamorarmi di te” (“I recalled when I worked in the woods / and the bars of Madras, Oregon. / That short-haired joy and roughness— / America—your stupidity. / I could almost love you again”).

Il giorno dopo le elezioni sono andato a un ricevimento pomeridiano che la Provost, la vice-rettrice della mia università, ha offerto all’intero corpo docente. Chissà perché proprio quel giorno. Forse per non farci pensare troppo a un messaggio della settimana prima in cui si parlava nebulosamente di possibili tagli a programmi non abbastanza produttivi. Eppure l’atmosfera era allegra, c’era molto da mangiare, piccoli doni per tutti e una lotteria. Nessuno parlava di politica, se qualcuno ha menzionato le elezioni di sicuro l’ha fatto sottovoce. Del resto siamo in Texas, non è che la vittoria di Trump cambi molto le cose quaggiù.

Poi è arrivata la banda della School of Music, rallegrata da due studenti con in testa un’enorme maschera dell’animale-mascotte dell’università, il coguaro o leone di montagna (i Cougars sono la squadra di football). Gli studenti-coguari si sono poi messi a girare tra i tavoli a salutarci, con guanti e scarpe a forma di zampa felina e una coda che gli pendeva dalla schiena. Come se a una festa dell’Università dell’Aquila il rettore dicesse agli studenti di andare in giro con addosso una pelle di orso marsicano. Aveva ragione Gary Snyder. Quello che ha salvato l’America fino ad ora e nonostante tutto, e spero che continui a salvarla, non è la destra o la sinistra. È la sua incantevole stupidità.

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Novembre 2024
100 anni di pensiero pratico e visionario. Un convegno a Venezia
Valeria Verdolini

Pubblichiamo l’anticipazione di parte dell’intervento che Valeria Verdolini terrà l’8 novembre a Venezia al convegno Basaglia e la libertà: una eredità politica attuale.

Sul muro di uno degli edifici che compongono l’ospedale triestino, sparpagliato nel parco di San Giovanni, si legge: “La libertà è terapeutica”. Se il luogo obbliga a riflettere sul “terapeutica” a me, forse per la mia formazione giuridica, interessa soprattutto il concetto di “libertà” come terapia. Perché se la libertà è la cura, la questione centrale diventa qual è, in ultima istanza, la malattia che ci affligge. Leggendo tutti i lavori del gruppo basagliano, prodotti prima a Gorizia, poi a Trieste e infine nei molti luoghi del mondo dove hanno lavorato e de-istituzionalizzato i manicomi, si deduce che la malattia mentale rappresenta solo una piccola porzione delle diagnosi. Quando esiste, non basta a spiegare la sofferenza. Possiamo forse provare a immaginarla come detrito, come il residuo calcareo, la maceria visibile (e vitale, e conflittuale) di una serie di processi molto più complessi.

Proprio per questo, quando è stato possibile, per arginare tale contagio è stata immessa una dose antidotica di libertà: abbattendo i muri a Gorizia e a Trieste e poi con la legge 180/78, il punto di partenza di un processo di psichiatria democratica. La norma purtroppo non è riuscita fino in fondo nel suo intento di liberazione e non per cattiva volontà degli estensori, ma per la complessità delle battaglie politiche e culturali che comportano i processi di de-istituzionalizzazione e le pratiche di gestione territoriale della cura. 

Ma andiamo per ordine. Per capire di quali mali si parla è necessario partire dal principio. Come mai parlare di libertà in un ospedale, o peggio ancora, in un luogo fisiologicamente chiuso come un manicomio? In che modo la libertà diventa un pezzo centrale e terapeutico della dinamica di cura? Soprattutto, di cosa parliamo quando parliamo di libertà? Affermare che la pratica di libertà sia terapeutica significa assumere che la malattia, soprattutto la malattia mentale, si manifesta come una patologia politica, o meglio come una patologia del potere. 

La fortunata formulazione si deve all’antropologo Paul Farmer (2004). Farmer sostiene che le violazioni dei diritti umani non sono incidenti, anzi, non sono casuali nella distribuzione o nell’effetto che generano. Le violazioni dei diritti sono, invece, da considerarsi quali sintomi di patologie più profonde del potere e sono legate intimamente e matematicamente alle condizioni sociali che così spesso determinano chi subirà abusi e chi sarà protetto dal danno. 

La concezione di patologie del potere si esplicita nella pratica della “violenza strutturale” che l’antropologo definisce come un’ampia rubrica di prassi che include una serie di offese alla dignità umana: povertà estrema e relativa, disuguaglianze sociali che vanno dal razzismo alla disuguaglianza di genere ai residui coloniali, e le forme più spettacolari di violenza che sono abusi incontestabili dei diritti umani, alcune delle quali puniscono gli sforzi per sfuggire alla violenza stessa.

Insomma, possiamo riassumere sotto il vasto concetto di “oppressione” le forme e le pratiche che consideriamo come patologie del potere. La malattia quindi, soprattutto la malattia mentale, è la manifestazione di una patologia del potere, allora -solo allora- la sola medicina, la sola terapia, è la libertà. Se è difficile pensare a uno scambio materiale tra Farmer e Basaglia in termini di confronto e letture, è interessante la comune connessione tra sofferenza, violenza e potere. 

Ne L’istituzione negata c’è un passaggio che racconta le forme di violenza sistemica alla quale siamo socializzati: “Una favola orientale racconta di un uomo cui strisciò in bocca, mentre dormiva, un serpente. Il serpente gli scivolò nello stomaco e vi si stabilì e di là impose all’uomo la sua volontà, così da privarlo della libertà. L’uomo era alla mercè del serpente: non apparteneva più a se stesso. Finché un mattino l’uomo sentì che il serpente se n’era andato e lui era di nuovo libero. Ma allora si accorse di non sapere cosa fare della sua libertà: nel lungo periodo del dominio assoluto del serpente egli si era talmente abituato a sottomettere la sua propria volontà alla volontà di questo, i suoi propri desideri ai desideri di questo, i suoi propri impulsi agli impulsi di questo che aveva perso la capacità di desiderare, di tendere a qualcosa, di agire autonomamente”.

E ancora: “In luogo della libertà aveva trovato il vuoto”, perché “insieme col serpente gli era uscita fuori la sua ‘essenza’ nuova, acquistata nella cattività” e a lui non restava che riconquistare a poco a poco il precedente contenuto umano della sua vita.

Nel testo si esplicita l’analogia della favola con la condizione istituzionale del malato mentale. La riflessione si spinge però ancora più lontano: “L’incontro con il malato mentale ci ha anche dimostrato che – in questa società – siamo tutti schiavi del serpente e che qualora non tentiamo di distruggerlo o di vomitarlo, non ci sarà più un tempo per riconquistare il contenuto umano della nostra vita.”

La favola del serpente è un dispositivo che ci permette di vedere alcuni aspetti di questa relazione tra sofferenza, violenza e potere. Chi esercita la violenza? Chi esercita il potere? Chi trae vantaggio da quell’esercizio? La violenza strutturale, le patologie del potere, le “istituzioni della violenza” come il manicomio (o come il carcere oggi, giusto per fare qualche esempio) hanno sempre esercitato una funzione di separazione, “tra chi ha potere e chi non ce l’ha”. Tra noi liberi, e le persone alla mercé del serpente. O forse tra i differenti serpenti che ci abitano. 

Dove si annidano e come si riproducono questi serpenti? Per i Basaglia, in primis si tratta della violenza esercitata da chi ha il coltello dalla parte del manico, nei confronti di chi è irrimediabilmente succube. (ivi, p. 115). Ancora, sempre ne L’istituzione negata è la suddivisione dei ruoli a determinare il rapporto di sopraffazione fra potere e non potere, che riproduce costantemente lo stesso meccanismo di esclusione del non potere da parte del potere: “la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che si instauri nella nostra società” (ivi, p. 114). 

Separare, definire chi ha dignità di cittadinanza e chi non ce l’ha, selezionare chi può accedere alla cura e chi trova nell’esclusione e nella reclusione il proprio spazio è il nodo politico, oggi come allora è il senso di questa patologia. Le “istituzioni della violenza” si fondano perciò su quella base: la differenza di classe che rappresenta il nodo cruciale dello stato moderno e liberale. 

Per questo, mai come oggi, perché la libertà sia terapeutica, perché la cura possa funzionare, tanto la cura quanto la libertà devono essere politiche e strutturate a partire da una cultura politica condivisa. Forse, sarebbe più chiaro esplicitare che “la libertà è politica”. Ma quando mai la libertà non lo è? Ovvio che questa dicitura suona come una banalità nella misura in cui la libertà è sempre stata politica, tanto nelle forme quanto nelle narrazioni. L’urgenza è quindi il riempire di significati tanto il termine “politico” quanto il termine “libertà”. Questo è l’esercizio che possiamo fare oggi in questo centenario non solo della nascita di Basaglia, ma del “basagliare”. Qual è la ricetta della libertà come terapia? 

Mai come oggi, dopo queste incredibili e sconcertanti elezioni americane, riveste un’importanza centrale la dimensione politica della rivoluzione basagliana, ed è necessario nominare, definire, socializzare i concetti e le pratiche. In che modo tale esperienza è rivoluzionaria? Dove sta l’utopia della realtà, o come mi piace dire, il realismo magico dell’esperienza triestina? Dove troviamo l’attualità di quel lavoro, che sopravvive al passare del tempo? Innanzitutto, nella giovinezza delle pagine dei molti testi prodotti dal gruppo di lavoro che si è costruito come un vero e proprio collettivo prima a Gorizia e poi a Trieste.

In quei ragionamenti, la libertà ha rappresentato un grimaldello politico all’interno del manicomio, ma più in generale nelle trasformazioni sociali che sono seguite alla chiusura degli ospedali psichiatrici. In quell’esperienza, con “politico” si è inteso un vero e proprio lavoro culturale capace di cambiare le forme del pensiero prima delle pratiche. A Gorizia, a Trieste, è stata politica la possibilità di liberare gli operatori, prima dei pazienti, di riconoscere e distanziarsi dalla violenza e dal potere per alleviare finalmente la sofferenza. Per buttare giù il muro dell’ospedale, per slegare le persone, per accettare l’anormalità della “normalità” è necessario visualizzare, immaginare, credere alla magia realistica di quella libertà. Essere liberi è un’utopia. Essere liberi significa guarire del tutto. 

Quando Basaglia parla di libertà non parte perciò da un’idea astratta, ma da una pratica concreta. Il medico veneziano aveva conosciuto concretamente la privazione della libertà, l’istituzionalizzazione, nella prigionia per antifascismo. Quei giorni in carcere costituiscono un’esperienza fondamentale, non necessaria che ha permesso a Basaglia di specchiarsi nei pazienti, di vedere in che modo il suo esercizio di potere istituzionale poteva essere diverso. Si poteva curare non assecondando quella dinamica di potere e non producendo quella violenza.

In un mondo con manicomi chiusi, ma forse meno libero e più ammalato di patologie del potere, cosa si può fare in concreto? Le risposte principali offerte dai lavori triestini sono due e interconnesse: il rovesciamento istituzionale e il lavoro culturale.

Il rovesciamento istituzionale passa attraverso diversi gradi di responsabilizzazione di tutti i soggetti che partecipano all’istituzione, unico strumento fattivo per poter conquistare spazi di libertà. Se chi deve esercitare quel potere, quella violenza, dismette quel ruolo, allora anche quel meccanismo non seguirà più la logica della separazione, bensì quella della relazione. La negazione istituzionale diventa, attraverso l’assunzione di responsabilità e di una finalità comune, “il simbolo della lotta a ogni sistema di oppressione e sopruso” (ivi, p. 334).

“La libertà è terapeutica” diventa perciò pratica di democrazia e rafforzamento dello spazio di agibilità degli individui. Perché le patologie del potere sono plurime, e limitare le infezioni autoritarie diventa un problema di salute pubblica e di salute democratica. È molto banale da dire però la nominazione e il lavoro culturale, il problematizzare e risemantizzare le malattie (e gli abusi), il definire le urgenze proprie della salute mentale, ma anche delle molteplici sofferenze istituzionali, significa ricollocare le istituzioni, la cittadinanza, il pubblico nella prospettiva della liberazione dal potere, non nell’esercizio diseguale della separazione tra le persone.

Pensiamo ai modi in cui la sofferenza sociale viene punita attraverso i dispositivi di controllo urbano, o la crescente stigmatizzazione del disagio giovanile e allarme sulla pericolosità dei minori nelle città. Pensiamo a Caivano e al DDL Sicurezza in discussione alla Camera, ma anche alla nave Libra che si dirige verso le coste albanesi. Pensiamo ai 62180 detenuti in violazione delle sentenze europee.

Proprio perché questo processo è dialettico ingaggia la politica ma soprattutto evoca la “politeia”: tutti noi possiamo essere parte attiva se ci interroghiamo con uno sguardo orientato alla cura, al richiamo al senso democratico, al bene comune. E dobbiamo esserlo, perché liberare significa riportare nel collettivo la sofferenza, e farsene collettivamente carico. La cura è democratica se riduce le diseguaglianze e non le aumenta. La libertà è terapeutica se le diagnosi sono accurate, e le decostruzioni necessarie. Se noi partiamo da questo secondo me abbiamo, oggi più di ieri, mille ragioni per rileggere Basaglia e molto lavoro da fare. 

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Novembre 2024
Trump incarna paure e sogni regressivi
Federico Ferrari

Come si chiama una persona che parla più lingue? Un poliglotta. E una persona che parla due lingue? Un bilingue. E una persona che parla una sola lingua? Un americano. 

Guardando gli esiti delle elezioni statunitensi mi è tornata in mente questa vecchia freddura. Non è, infatti, difficile interpretare la figura di Trump come l’incarnazione di un ritorno del rimosso della grande espansione globalizzatrice della seconda parte del Novecento. Il miliardario newyorkese è il sintomo di un diniego, di una paura e di una speranza. Il diniego è quello di un mondo ormai totalmente interdipendente, dove nessun problema può essere affrontato solo a livello locale. Non siamo più solo nel mondo, astratto e poetico, della teoria della complessità in cui un battito d’ali ad Hong Kong può generare una tempesta a San Francisco, ma in un globo a tal punto interconnesso che qualunque scelta, anche la più individuale (un hamburger al posto di un’insalata) si riverbera (socialmente, economicamente, culturalmente, climaticamente) a livello globale. Si svolge, in fondo, nella psiche dell’elettore trumpiano un processo di negazione dell’esistenza di un mondo, definitivamente, reticolare e condiviso, dove l’altro non può essere escluso, perché le scelte dell’altro (e dell’altro che io sono per altrui) influiscono sulla mia vita e su quella di tutti. 

In fondo, Trump afferma, senza troppi giri di parole, che l’altro va espulso, va ignorato, va rimosso. In questo modo, il neoeletto presidente fa leva, principalmente, sulla paura dell’altro e aiuta ad esorcizzare questa paura, alimentando la (falsa) speranza che tale negazione della realtà (sempre altra e alterantesi) porti a una pace sovrana (e immobile), dettata esclusivamente dalla scelta di un proprio stile di vita (possibilmente ancorato nel passato, nel già dato e sperimentato). Si tratta di una rivisitazione dell’individualismo liberista che, però, richiamandosi a un sovranismo assoluto, ignora la globalizzazione del mondo (la ignora in modo paradossale, proprio perché la spinta propulsiva della globalizzazione è stata data dal mercato liberista).

Solo i più ingenui – o le vittime di altri processi di diniego del reale – si possono davvero stupire del successo trumpiano, in quanto analoghe figure governano, ormai, mezzo mondo, tra cui il paese che parla la lingua in cui mi esprimo. La globalizzazione è, da diversi anni, in un movimento di contrazione. Il sovranismo planetario è, precisamente, sintomo di questa sistole epocale. La grande torre di Babele sembra avere generato il panico e, un po’ ovunque, gli spaesati abitanti di questo inedito coacervo di lingue, tradizioni e culture sperano di potersi nuovamente rifugiare nel monolinguismo, nella terra delle radici, nella mitologia etnica, nella xenofobia immunitaria, nella costruzione di grandi muraglie, nell’isolamento, nell’autarchia. Credono, in questo modo, di esorcizzare la mondializzazione del mondo, la comparsa di un destino e di una storia dell’umanità e non più delle nazioni e dei singoli popoli. Non c’è da stupirsi, l’aperto fa paura, l’ignoto ancora di più, e l’altro, con il suo carattere intrusivo e straniante, terrorizza.

Trump incarna queste paure e questi sogni regressivi. E li incarna nel modo più esplicito e triviale. È l’esasperazione dell’americano della freddura che riportavo all’inizio di questo breve articolo. 

Una speranza resta, però. La speranza che ad ogni sistole segua una diastole resta per quelli che ancora credono che ogni monolinguismo sia, in realtà, un monolinguismo dell’altro, in cui è l’altro che davvero parla – fosse pure un altro che resta oscuro, sconosciuto, sommerso, nell’ombra, se non nella clandestinità. A questi monolinguisti poliglotti, che nella propria identità sentono la presenza di una differenza, incoercibile e ineliminabile, una differenza che rinvia sempre ad altro, all’altro che ci costituisce; una differenza, cioè, che è un’interrelazione tra tutti, in un mondo sempre più globale e interdipendente, ecco a questi cosmopoliti, a questi comunitari senza comunità resta una debole ma insopprimibile speranza.

Gea è ben più solida delle paure e delle ansie dei suoi abitanti. Ma gli attacchi di panico, le angosce depressive, i gesti di violenza (anche autolesionistici), dettati dalla paura, non vanno mai sottovalutati. La paura, l’angoscia va individuata, circoscritta, analizzata, compresa e trasformata, perché non è mai esclusa la possibilità che possa dare origine alla fine dell’alternanza di sistole e diastole, causando un arresto cardiaco del soggetto della storia. 

Respiriamo, dunque, e iniziamo a vincere le nostre paure (che sono nostre, in un simile mondo interconnesso, anche se sono quelle dell’altro, dell’altro a me estraneo, dell’elettore di Trump, di Putin, di Netanyahu, di Orban, di Meloni, di Salvini…). Trump non è che un sintomo. Il mondo è lì, nel suo insieme, che aspetta il farsi della sua verità comune e universale. Creiamo una nuova lingua, una pluralità di lingue. Pratichiamo l’esercizio della traduzione. Babele non faccia paura. Babele contiene la sola salvezza possibile, quella di tutti.

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Novembre 2024
L’elettore indeciso è come quelli che comprano i regali di Natale la sera della vigilia
Alessandro Carrera

È il 4 novembre 2008, il giorno in cui si elegge il prossimo presidente degli Stati Uniti. Siamo a Bloomington, nello stato dell’Indiana. Il signor Norman Muller, commesso di un supermercato, è nervoso perché proprio l’Indiana sarà lo stato in cui si decideranno le elezioni, mentre la moglie Sarah è molto eccitata all’idea che proprio suo marito possa essere scelto come Grande Elettore. Norman non lo ritiene per nulla probabile, ma tutto quell’affaccendarsi intorno a lui lo preoccupa. È sempre stato un uomo tranquillo e non ha mai pensato di diventare chissà che. Adesso però ci sono i computer che calcolano, fanno previsioni, collimano i dati relativi alle preferenze della gente, alle loro aspettative. Hanno i loro profili, e di sicuro hanno anche quello di Norman Muller.

È stato verso la fine di ottobre che la situazione è peggiorata. C’erano agenti del Servizio Segreto in giro per Bloomington. Non ce l’avevano scritto in faccia, ma non era difficile riconoscerli, così come era facile prevedere che il Grande Elettore dell’Indiana sarebbe stato scelto proprio a Bloomington. Finché accade: l’agente Phil Handley bussa alla porta di casa Muller. È lui il prescelto, è lui che dovrà dare il suo voto. Nei due giorni che mancano al 4 novembre, nessuno, in casa Muller, potrà uscire o comunicare con nessun altro. Gli agenti del Servizio Segreto, che ora stazionano in casa, si occuperanno del necessario. Muller è angosciato, dal suo voto dipende il destino del Paese. Già in passato è accaduto che i Grandi Elettori abbiano votato un presidente che poi è stato odiato. Ma la moglie non desiste. È la tua grande occasione, ripete al marito. Ti basta adempiere il tuo dovere civico e sarai famoso, ti intervisteranno, andrai in televisione, finalmente arriveranno un po’ di soldi.

Infine, giunge il giorno delle elezioni. È l’ora di andare. L’agente Handley scorta fuori casa il signor Muller, depresso ma rassegnato. Per ragioni di sicurezza lo fa salire su un carro armato che lo porta a un tunnel sotterraneo il quale, a sua volta, sbuca in un ospedale dove lo aspettano tre scienziati che gli applicano degli elettrodi al corpo, collegandolo in remoto a un computer gigantesco, sepolto in un luogo segreto, che gli manderà delle domande scritte alle quali Muller dovrà rispondere. Le domande saranno tra le più varie, ma non riguarderanno minimamente la campagna elettorale in corso. Il computer potrebbe chiedere a Muller cosa ne pensa della qualità della nettezza urbana nella sua città, se preferisce lo smaltimento o gli inceneritori. Potrebbe chiedergli se ha un medico personale o un’assicurazione sanitaria pubblica, o che opinione si è fatto della scuola che frequenta sua figlia. 

Nemmeno le risposte saranno importanti; il computer baderà piuttosto all’intensità con la quale Muller vorrà rispondere. Gli elettrodi registreranno la pressione sanguigna, la conduttività della pelle, l’emanazione delle onde cerebrali e le reazioni delle ghiandole sudorifere. Sulla base dell’espressione fisiologica dei sentimenti e delle emozioni, il computer determinerà il voto del signor Muller. Non solo per questo o quel candidato presidenziale, ma anche per tutte le migliaia di elezioni locali che in quel giorno sono in corso negli Stati Uniti, dal consiglio comunale di Phoenix in Arizona a quello di Wilkesboro in North Carolina. Sarà quello che “sente” Norman Muller, commesso di supermercato, a decidere il futuro dell’America.

La prova dura tre ore. Al termine, Muller non sa per chi ha votato, né gli viene detto. Ma il computer lo sa, e lo renderà noto non appena gli scienziati avranno terminato di verificare i dati. Muller è stanco, ma poco per volta comincia s sentirsi orgoglioso, un vero patriota. Grazie a lui, il popolo degli Stati Uniti ha esercitato ancora una volta il suo libero diritto di voto.

No, le cose non sono andate proprio così il 4 novembre 2008, il giorno in cui è stato eletto Obama. Sono andate così, invece, in un racconto intitolato Franchise (Diritto di voto) scritto da Isaac Asimov nel 1955 e compreso nella raccolta Earth Is Room Enough (La terra è grande abbastanza, Editrice Nord, 1984). Diritto di voto fa parte di un ciclo di sedici racconti nei quali compare in modo diretto o indiretto il computer Multivac (variante asimoviana di Univac, nome di uno dei primi computer). A noi non resta che collegare i fili che Asimov ci ha lanciato e verificare quanta parte della sua distopia si è avverata.

Innanzitutto, chi è Norman Muller, scelto via computer come “rappresentativo” dell’intero popolo americano? È un “Norman”, è normale, è la norma, ed è l’elettore indeciso, l’undecided voter, o forse il low-informed voter, l’elettore poco informato, quello che alle domande dei sondaggisti risponde che prima di decidersi su quale candidato votare “deve saperne di più”. L’elettore indeciso è come quelli che comprano i regali di Natale la sera della vigilia; di più, è il mistero, l’animale strano, l’unicorno, la balena bianca, la pantera profumata di cui le campagne elettorali vanno in cerca senza mai riuscire a stanarlo.

E che cos’è Multivac? È l’algoritmo che filtra la semiosfera, che decodifica l’infinita massa dei dati che le imprese, i media e i social media possiedono di noi, al fine di rendere prevedibile e computabile una scelta che l’elettore indeciso non sa fare o non sa di aver già fatto. E a dire il vero non c’è neanche bisogno che decida. Sono le sue emozioni, le sue idiosincrasie, i suoi sentimenti, le sue “percezioni” a decidere per lui.

Una delle domande che Multivac rivolge a Muller, anzi l’unica che poi Muller si ricorda, è: “Che cosa ne pensa del prezzo delle uova?”. Questo in un immaginario 4 novembre 2008. Al momento attuale, negli Stati Uniti, in un vero 5 novembre 2024, il prezzo medio di dodici uova è di 3 dollari e 82 centesimi, il 40 per cento in più di quello che era un anno fa. Ma ora è sceso; qualche mese fa era arrivato a 5 dollari. La colpa non è di Joe Biden; è dell’influenza aviaria che negli ultimi due anni ha decimato il pollame e ha pure ridotto le dimensioni delle uova. Ma gli elettori di Trump menzionano spesso il prezzo delle uova come prova del fallimento della presidenza Biden e della totale incompetenza di Kamala Harris. Se Norman Muller di Bloomington, Indiana, Grande Elettore Indeciso, ha risposto a Multivac che è colpa dei democratici se il prezzo delle uova è troppo alto, sappiamo in che direzione sono andate le elezioni.

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Ottobre 2024
200 storie di artist_ italian_ del Novecento narrate a 200 cani
Vittoria Caprotti

La figlia del mio scrittore preferito ha spiegato che “Come sarà poi sempre una sua caratteristica, prenderà il discorso alla larga, partirà dalla teoria, dalla fantasia, dal ‘nulla’ per arrivare, camuffato e truccato, a parlare di se stesso”: volendomi, io, liberare da camuffamenti e trucchi, lo dichiaro fin da subito che qui, ora, voglio parlare di me, prendendola ugualmente alla larga.

Per parlare di me, allora, parto da una mostra intitolata A place to stay. Voi che leggete, avete poco, pochissimo tempo to stay in questo a voi ancora, per ora ignoto place, dato che la suddetta mostra chiude domani, venerdì 1 novembre. A place to stay è il luogo che Cecilia Mentasti ha ideato per gli spazi di Care Of presso la Fabbrica del Vapore di Milano. È un’area cani sui generis, o meglio: un’area cani perfettamente in linea con quest’era dell’Aquario in cui il progresso tecnologico pare vincerla sempre e, allora, non si digitalizzano e smaterializzano solo i fidanzati a causa di Tinder e del ghosting, ma pure i cani.

Nel tentativo di far riapparire i cani dopo averli smaterializzati – non pretende tutti, ma almeno alcuni, come certi tipi post ghosting –, Mentasti cerca di adescare quelli che per caso passassero di lì – magari senza padroni, scappati – con dei biscotti da lei preparati utilizzando uno stampo a forma di osso e recante il titolo della mostra, sempre da lei prodotto. Biscottini e relativo stampo poggiati su dei blocchi bianchi ad altezza cane, qualche micro-seduta pieghevole da campeggio e delle casse audio nere – alcune adagiate sul pavimento grigio, altre elevate su dei treppiedi – con i loro cavi compongono l’allestimento minimal della mostra. Tra bianchi, neri e grigi, pur piccoline, brillano, poggiate sul tavolo all’ingresso, un po’ di copie del catalogo con le loro copertine rosa.

Dei 76 animali da compagnia co-protagonisti assenti della mostra di Mentasti vediamo solo una foto nel catalogo, ne leggiamo i nomi e in certi casi – quelli degli animali più casinisti – ascoltiamo il loro abbaiare o il loro zampettare o il loro ansimare attraverso le casse sparpagliate nella sala. Ma non li incontriamo mai davvero, questi cani. È un’area cani per cani smaterializzati – tinderiani – che dobbiamo decidere se ci stanno simpatici o ci fanno paura senza averli incontrati, prima di incontrarli, solo vedendoli in foto – tinderiani, appunto. Da cat person che sono, guardo tutte e 76 le foto con sufficienza. Ai cani l’artista ha raccontato le storie e le opere di altrettanti artisti, oppure momenti della Storia dell’Arte contemporanea, come la Biennale di Venezia del 1999. Sfogliando l’elenco dei nomi degli animali, trovo Titti (è il mio soprannome) e Vittoria (è il mio nome): volendo parlare di me, devo parlare di loro. Magari avrà ragione Giulietta nel chiedersi “Che cos’è un nome?” e nel rispondersi “Quella che noi chiamiamo una rosa, con qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente”, ma per me – me, che il mio scrittore preferito già preannunciato è Giorgio Manganelli e che Nanni Moretti se c’è da citarlo, lo cito – le parole sono importanti, soprattutto i nomi. Passo, così, dalla sufficienza con cui avevo guardato le loro foto – quelle di Titti e Vittoria – al pensare, grazie ai loro nomi, che effettivamente, adesso, mi sembra lampante che sono loro i due animali migliori, i più degni di attenzione e pure di un po’ di simpatia, nonostante non siano gatti.

Titti è un Cavalier king Charles Spaniel, mentre di Vittoria non riconosco la razza – se ne ha una – e, in ogni caso, sembra più una mucca che un cane, con quel corto pelo bianco a chiazze nere. Dalla voce di Cecilia Mentasti, Titti ha ascoltato la storia del Gruppo XX e Vittoria quella di Angelo Savelli. Il Gruppo XX è stato un collettivo formatosi nella primavera del 1977 per volere di Rosa Panaro (scultrice), Mathelda Balatresi (pittrice), Antonietta Casiello (docente di filosofia) e Mimma Sardella (funzionaria del Ministero dei Beni Culturali); il nome faceva riferimento ai due cromosomi femminili e lo scopo delle quattro era di sbugiardare – in modo ironico, ma fermissimo – stereotipi e luoghi comuni su ruoli di genere et similia. Angelo Savelli, invece, è noto come “il pittore del bianco” per l’assoluta centralità di questo colore nella sua produzione: una centralità che lo portò a escludere qualsiasi altra possibilità cromatica e a lavorare solo con il bianco, sul bianco, per il bianco. Chissà cos’avrebbe detto Savelli delle chiazze nere che insozzano il manto di Vittoria.

Nel catalogo c’è l’immagine di un terzo cane, di nome Zen, a cui presto attenzione – e a cui già prima di entrare in A place to stay sapevo di dover fare caso. A lui Mentasti ha parlato di Thea Vallè, dicendogli: “Qualche giorno fa ho bevuto una cedrata con una mia amica che mi ha raccontato una storia, la storia di un’artista che non conoscevo e di cui sta cercando di mettere in salvo una grossa e pesante scultura. Ho deciso di fare anch’io la mia parte e raccontarti la sua storia. L’artista in questione si chiamava Thea, Thea Vallè”. Presto attenzione a Zen, perché l’amica con cui Mentasti aveva bevuto una cedrata ero io (l’ho detto, che ho voglia di parlare di me). Thea Vallè – nata Teresa Broggini, nel 1934, a Oleggio, in provincia di Novara – tra gli anni ’60 e gli anni ’70 visse di fronte a quella che oggi è casa mia e che allora era la casa dei miei nonni. Insieme a Thea c’erano altri artisti e mia nonna – donna della Vergine, mercuriale crocerossina (io ho la Luna in Leone: è per questo che parlo sempre di me) – portava torte e lasagne e cose così agli artisti, i quali ricambiavano regalandole loro opere. Su una delle pareti del corridoio che dal salone della casa dei miei nonni porta al cortile sono appese tre litografie di Thea: nella mia preferita delle forme verdi dai contorni irregolari e spezzati si stagliano sul fondo bianco. Mio nonno, amante della montagna, quand’ero piccola mi diceva che quella litografia ritraeva una cima con la neve che si scioglie e un bosco ai suoi piedi: forse aveva ragione lui. Nelle forme minimaliste di Thea si celano messaggi religiosi ed esistenziali, e le montagne hanno molto a che fare con l’ascensione spirituale, oltre che fisica.

La storia di Thea Vallè raccontata a Zen l’ho ascoltata seduta su una delle sediette pieghevoli da campeggio. Quando mi alzo, mi viene incontro un cagnolino, lasciato libero di correre dalla sua padrona che si sta ancora chiudendo la porta di Care Of alle spalle. Totalmente disinteressato ai biscotti-esca preparati dall’artista, il cane si dedica unicamente ai miei stivali, leccandoli ben bene, festante. Temo che Mentasti, nel voler ri-materializzare e cani e ragazzi post ghosting, abbia sbagliato qualcosa. Dev’esserci, nel corpicino di questo cagnolino, qualche tipo con il famigerato, diffusissimo fetish per i piedi che l’avrà ghostata chissà quando. Insomma, come Maga Circe Mentasti è pessima, ma per fortuna come artista è tutto il contrario. Mi chiedo se un giorno parleranno di lei a dei cani, o magari a dei pesci pipistrello dalle labbra rosse (esistono davvero: cercateli).

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Ottobre 2024
Cosa succede nella mente di chi ha già deciso di votare Trump?
Alessandro Carrera

Una vecchia commedia di Eduardo De Filippo, non una delle più famose, si intitola La paura numero uno. L’ha scritta nel 1950, all’epoca in cui i giornali di mezzo mondo si chiedevano se ci sarebbe stata una guerra calda (non era ancora fredda) tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, e il timore della catastrofe nucleare era altrettanto diffuso di quanto lo sarebbe stato nel 1962 con la crisi di Cuba. 

Il protagonista, Matteo Generoso, di professione amministratore di condominio, è angosciato dalla lettura dei giornali, non lavora più, non fa altro che pensare alla guerra che scoppierà, finché il cognato escogita un trucco per tranquillizzarlo. Crea una finta trasmissione radio in cui un annunciatore (in realtà il fidanzato della figlia) dice che la guerra è scoppiata, ma non tra Stati Uniti e Unione Sovietica, bensì tra tutti gli stati del mondo contro tutti gli altri stati, per un totale di circa 21.000 dichiarazioni di guerra che proprio in quel momento gli ambasciatori del mondo intero si stanno scambiando tra loro. 

La conclusione, spiega il cognato dopo la fine della finta trasmissione, è che sì, siamo in guerra, dopotutto l’ha detto la radio, come fai a non credere alla radio, ma siccome è una guerra di tutti contro tutti vuol dire che nessun esercito partirà, la gente andrà ancora a fare la spesa, al sabato sera andrà al cinema e a ballare, e insomma tutto continuerà come prima. Matteo Generoso ci crede, si convince di aver avuto ragione, si calma e si limita a riempire la cantina di provviste bastanti per mesi, giusto perché non si sa mai, e a comprare milleduecento rotoli di carta igienica più dieci paia di bretelle, visto che lui la cintura non la mette.

La situazione presentata nel primo atto della commedia è simile, in modo preoccupante, a quella dell’elettorato che voterà per Donald Trump. In uno dei suoi recenti comizi, oltre a dire che l’America sta sprofondando nella miseria più nera e che  le orde dei migranti al confine hanno trasformato gli Stati Uniti nel bidone della spazzatura del mondo intero, Trump ha anche detto che la benzina costa 8 dollari al gallone.

Ora, l’ultima volta che io ho fatto il pieno, pochi gorni fa, ho pagato la benzina 2 dollari e 79 centesimi al gallone (un gallone equivale a tre litri circa). Una decina di giorni prima, nello stesso luogo, l’ho pagata 2 dollari e 52 centesimi. Il prezzo della benzina fluttua tutti i giorni, è stabilito internazionalmente e il Presidente degli Stati Uniti non ha il potere di cambiarlo, ma è almeno da un anno che alla mia solita stazione di servizio il prezzo non sale sopra i 3 dollari. È vero, io ho fatto un pieno di normale, non di super, e in Texas la benzina costa meno che in altri stati. Dove si sono più tasse, come in California, si arriva a costi più alti, ma al momento non c’è nessuno stato in cui la benzina costi 8 dollari al gallone.

Cosa succede dunque nella mente di chi ha già deciso di votare Trump? Mettiamo che quell’elettore viva in Texas – uno stato dove Trump riceverà una valanga di voti – e che abbia fatto benzina alla stessa pompa dove l’ho fatta io. Per il personaggio creato da Eduardo, il fatto che la gente vada al mare e al ristorante, compri nei negozi e si diverta è la prova che siamo in guerra e che tutti si comportano come se non ci fosse un domani. Allo stesso modo, per l’elettore di Trump il fatto che la benzina costi 2,79 è la prova che ne costa 8. Il cittadino è angosciato, così non si può andare avanti, per tranquillizzarsi deve eleggere Trump, perché Trump ha detto che la benzina costa 8 dollari e Trump è come la radio nel 1950. Intanto, sarà meglio fare il pieno subito perché non si sa per quanto tempo la benzina sarà a 2,79. 

C’è una vecchia barzelletta ebraica in cui un commerciante dice a un altro che andrà a Łódź per un viaggio d’affari, al che l’altro ribatte: “Perché vuoi farmi credere che andrai a Łódź quando so benissimo che andrai a Łódź?” In altre parole, l’elettore di Trump sa benissimo che la benzina costa 2,79, ma perché i democratici vogliono fargli credere che costa 2,79? La dissonanza cognitiva che sprigiona dalla storiella rispecchia ciò che accadrà nei prossimi giorni. Se Trump verrà eletto, lo sarà in gran parte grazie agli elettori che sono spaventati dall’aumento dei prezzi degli alimentari (che è reale, è serio, ed è una conseguenza del Covid e dei successivi disguidi nelle catene di fornitura, anche se ormai è più contenuto di come lo descrive Trump), così come il signor Generoso era spaventato dalla guerra. Ma quando Trump dice che la benzina costa 8 dollari al gallone non spaventa i suoi elettori, anzi li rassicura, così come il signor Generoso si rasserena quando gli dicono che la guerra c’è davvero. Al contrario di Kamala Harris, Trump non ha mai detto, neanche una volta, che farà qualcosa per abbassare i prezzi. E se ne guarda bene. I suoi elettori non vogliono sentirsi dire che porterà il prezzo della benzina a 2.79. Vogliono sentirsi dire che la benzina è a 8 dollari e allo stesso tempo pagarla 2.79. Vogliono la fine del mondo, ma una fine del mondo in cui tutto continua come prima. 

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Ottobre 2024
Mentre le grandi corporation usano il copyright per proteggere i propri interessi economici, i creativi indipendenti rischiano di veder limitata la loro libertà
Francesco D’Isa

Il recente caso legale tra Alcon Entertainment e Elon Musk solleva questioni interessanti e complesse sul copyright e l’uso delle immagini nel mondo dell’intrattenimento. Alcon ha accusato Musk e Tesla di aver utilizzato senza permesso immagini fortemente ispirate a Blade Runner 2049 durante la presentazione dei nuovi robotaxi. Il punto che va oltre questa vicenda specifica è il dibattito su cosa significhi davvero “originalità” in un’opera creativa e come il copyright si applica in questi casi. L’immaginario visivo di Blade Runner – città distopiche, cieli arancioni, macchine volanti, personaggi con lunghi trench – non è del tutto originale. Si tratta di un’estetica derivativa che attinge a una lunga tradizione di film noir, fantascienza classica e romanzi cyberpunk. Elementi come il detective solitario in trench provengono direttamente dal cinema noir degli anni ‘40, mentre le città futuristiche richiamano opere precedenti come Metropolis di Fritz Lang e i classici della narrativa distopica del Novecento. Il copyright protegge la specifica versione di Blade Runner, non l’idea stessa di una città futuristica con un detective in trench.

Il problema sta qui: le grandi aziende sono in grado di registrare come “proprietarie” delle estetiche che in realtà derivano da decenni di influenze culturali. Queste idee appartengono al patrimonio comune della creatività, ma vengono legalmente vincolate da un sistema che spesso favorisce i giganti del settore. E questo non riguarda solo casi celebri come quello di Elon Musk, ma colpisce soprattutto i creativi indipendenti, che potrebbero trovarsi in difficoltà a difendere il proprio lavoro in un contesto legale che richiede enormi risorse economiche per essere affrontato. Mentre le grandi corporazioni usano il copyright per proteggere i propri interessi economici, i creativi più piccoli rischiano di veder limitata la loro libertà di reinterpretare e rielaborare idee già esistenti. In un certo senso, lo stesso copyright che dovrebbe incentivare la creatività, è diventato una spada di Damocle che minaccia di ostacolare la libertà creativa e la diffusione dei saperi.

Un recente articolo di Loredana Lipperini, pubblicato e analizzato su Giap, denunciava le restrizioni sempre più stringenti sull’uso di citazioni in opere narrative, soprattutto di brani musicali e letterari. Autori come Nick Hornby, Murakami e Pasolini oggi incontrerebbero difficoltà nel citare opere famose senza dover pagare costosi diritti o ricorrere a parafrasi impoverenti. Questa situazione si è aggravata negli ultimi anni, rendendo complessa l’inclusione di citazioni nei romanzi senza affrontare problemi legali, anche per brevi frasi. La legge sul diritto d’autore italiana permette citazioni solo per fini critici o saggistici, escludendo la narrativa, causando frustrazione e paure tra autori e editori.

Eppure tutti gli artisti lavorano in dialogo con il passato, traendo ispirazione da ciò che è venuto prima di loro. Se proteggiamo eccessivamente la “proprietà” delle idee, rischiamo di bloccare quel ciclo vitale di influenze e innovazioni che ha sempre alimentato la creatività umana. Intendiamoci, in questo caso è evidente la cattiva fede di Musk e del suo team, che hanno tentato di utilizzare immagini ispirate a Blade Runner 2049 dopo aver visto negata la richiesta di licenza da Alcon. L’azienda aveva rifiutato ogni autorizzazione e si era opposta all’associazione tra il film, Tesla e Elon Musk. Nonostante ciò, Musk ha citato il film durante la presentazione e mostrato un’immagine simile, sostenendo di essere un fan di Blade Runner. La questione qui non verte solo sulla somiglianza dell’immagine, ma piuttosto sulle azioni che sembrano voler collegare Tesla all’immaginario del film, anche contro il volere dei detentori dei diritti. Ma la questione è più ampia e complessa: un dispositivo che era nato per proteggere e diffondere la cultura sempre più o spesso ottiene l’effetto opposto. Lo si evince anche dal fatto che, come dimostra persino l’azione di Musk, su questioni di copyright i soldi e gli avvocati spesso pesano più delle ragioni e dei torti.

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