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Il futuro non è scritto

Il futuro non è scritto

Maggio 2024
Pubblichiamo un estratto dal libro di Luca Bergamo, È qui il mio respiro (Luca Sossella editore)

Un cambiamento d’epoca

Usavo transizione in opposizione a crisi per evocare lo stesso concetto a partire dal 2012. Dicevo: se politica e collettività bollano come temporanei i cambiamenti in corso, se prevale la convinzione che sia sufficiente aspettare perché tutto torni come prima (del crollo dei mercati finanziari nel 2008), i rischi di collasso e di guerra in Europa sono molto alti. Non ci voleva Cassandra per immaginare una tempesta all’orizzonte, eppure…

È qui è il mio respiro verrà presentato a Milano, giovedì 23 maggio alle ore 18.00 presso il Grand Hotel de Milan (via Manzoni 29). Con l’autore interverranno Innocenzo Cipolletta e Filippo Del Corno. Modera Irene Soave.

Solo più tardi ho scoperto l’espressione del Papa, che senza dubbio è più incisiva, chiara e da allora l’ho fatta mia. Mi scorre ora davanti agli occhi e… Nel mezzo del cammin penso; la selva oscura. Dante!

Il collegamento mi sembra azzardato, tuttavia non riesco a cancellare la convinzione di essere proprio in quella selva che nasconde alla vista il futuro e fa svanire il passato che merita di essere ricordato. Proprio là, dove la via è smarrita.

Immersi in un cambiamento vertiginoso per rapidità e implicazioni, circondati da guerra, povertà, collasso del clima, perdita di controllo sulla tecnologia… siamo nella selva oscura, dove la via è smarrita.

Diritta non è mai stata la via, bisogna riconoscere. Ma con tornanti, salite e vertiginose discese, retromarce e riprese, una qualche strada verso una società più rispettosa della dignità umana l’avevamo percorsa. Ora è interrotta. Senza una bussola che indichi la direzione di marcia e senza la volontà di consultarla, il passato sbiadisce, perde di significato, magari celebrato ritualmente ma senza consapevolezza o empatia.

Resta solo un presente continuo in cui il progetto del futuro non ha radici. Senza il campo delle possibilità non si può immaginare alcuna alternativa a quello della realtà contingente. Se così fosse, forse è utile ricordare e riflettere intorno a ciò che potrebbe essere, che vorremmo fosse. Ma cosa ricordare e cosa no. La storia? Le storie? Quali e come?

Scompare proprio tutto?

“Tutte le immagini scompariranno. […] Tutto si cancellerà in un secondo. Il dizionario costruito termine dopo termine dalla culla all’ultimo giaciglio si estinguerà. Sarà il silenzio e nessuna parola per dirlo”, così Annie Ernaux in Les Années.

Ecco cosa se ne va con l’ultimo respiro (almeno per chi non crede in altre vite terrene o spirituali). Una parte di te resta nella vita di altre persone, vicine e lontane. Per un po’. Poi, salvo poche eccezioni di cui parla la storia o la leggenda, permane mescolata nelle cose, nelle abitudini, nelle tradizioni. Il resto svanisce. Oggi sempre più in fretta, perché travolto da una società che muta a un ritmo troppo incalzante, che con l’urbanizzazione selvaggia dissolve le forme sociali grazie alle quali un po’ di storia vissuta può essere condivisa tra generazioni diverse.

Come fa una società che vive nel presente immanente a sentire – non a capire – il dolore di un sopravvissuto alla Shoah o di una mamma che perde il suo piccolo nelle acque del Mediterraneo mentre cerca la speranza o di un anziano che vive a Rafah, ai confini tra Russia e Ucraina, nel Sahara Occidentale? O la gioia del primo passo sulla Luna o della scoperta del bosone di Higgs? O la rabbia e la paura della perdita di lavoro, di una diagnosi infausta, della mancanza d’acqua…?

Senza un’intelligenza collettiva, senza l’empatia che implica mettersi nella pelle di un altro da sé invece di tapparsi occhi e orecchie, è possibile emanciparsi dalle miserie di cui è densa la vicenda umana?

Quanto ci allontaniamo da questa necessaria capacità affogando in uno stile di vita che l’urbanizzazione, la mercificazione di tutte le esperienze e l’espansione della sfera emotiva dei nostri avatar schiaccia nel presente continuo? Dove finiscono il passato e il futuro?

Le gallerie non se ne occupano, ma per fortuna molte grandi istituzioni culturali hanno iniziato a riconoscerne il valore; sono sempre più diffuse le pratiche dell’arte contemporanea che s’immergono nelle comunità di base, per riscrivere possibili futuri investigando il passato e il presente attraverso le storie delle persone. Me l’ha fatto scoprire Sara Alberani, tra le diverse prospettive sull’arte contemporanea cui mi ha avvicinato.

Resta solo l’arte – parole, forme e colori, suoni – per condividere l’unicità che abita ciascun essere umano, le sensazioni, emozioni, i pensieri che ogni esperienza sollecita o alimenta? Null’altro?

Anche l’oratoria è, era, un’arte. Una di quelle cui si devono anche grandissimi guai nella società di massa, da Hitler e Mussolini e così via. Oggi va sotto il nome di comunicazione.

Di nuovo, senza una bussola, senza etica, ogni creazione umana può essere piegata per fare del male.

Ogni volta da capo

In I robot e l’impero di Isaac Asimov, Daneel (robot) parla con Giskard (robot) che gli confessa di aver influenzato le menti di una folla per accrescerne l’empatia con il discorso che pronuncia Lady Galadia (umana).

“Non vedo come questo sia possibile, amico Giskard – commentò Daneel – Anche a me pare impossibile, amico Daneel. Non sono umano. Non so cosa significhi in prima persona possedere una mente umana con tutte le sue complessità e le sue contraddizioni, quindi non sono in grado di comprendere certi meccanismi. Ma, almeno in apparenza, le moltitudini sono più facilmente influenzabili degli individui. È un paradosso vero? Lo spostamento di un grosso peso richiede più forza dello spostamento di un piccolo peso. Lo spostamento lungo una grande distanza richiede più tempo dello spostamento lungo una distanza piccola. Perché, allora, è più semplice controllare una folla che un gruppetto di pochi? […] Giskard parve riflettere alcuni istanti, quindi disse: Non è la ragione a essere contagiosa, ma l’emozione.

Lady Galadia ha scelto argomentazioni capaci, a suo parere, di far leva sui sentimenti della gente. Non ha cercato di ragionare con il pubblico. Dunque, […] più la folla è numerosa più è facile controllarla puntando sull’emotività lasciando da parte la razionalità. Dal momento che le emozioni di base sono poche e le concezioni razionali molte”.

Ogni vita, ogni sapere, ricomincia dalla parola e dai gesti di chi ti alleva.

Che peso avrà nei prossimi decenni l’intelligenza artificiale nella formazione dei sentimenti, nella formazione all’emozione?

Durante la Divali, la festa induista delle luci, ho sentito dire: “Essere non-violento non significa dirsi che non ho l’impulso alla violenza, ma che non posso farla e imporsi di non farla”. Una scelta, che coinvolge ragione ed emozione, consapevole che ci sono circostanze della vita in cui si vuole fare del male a qualcuno, ma che è sbagliato farlo.

Quali valori dovranno essere leggi inviolabili per le intelligenze artificiali, quali i limiti del loro impiego, quali ricordi conservare, condividere, quali rimozioni? Quali gli strumenti culturali degli umani per non diventarne succubi?

Il futuro, una volta

Ho sempre avuto un rapporto fragile con la memoria dei fatti della mia vita e delle emozioni che li accompagnarono, lo sguardo sempre e fin troppo orientato al futuro. Per cui ricordo poco e costruisco – ho costruito – pensiero su pensieri, scansato la memoria delle sensazioni e delle emozioni vissute per lasciare spazio vergine (o quasi) a quelle di domani. E forse per questo sento poca musica pur adorandola, perché su di me esercita tutto il suo potere di rianimare la memoria emotiva. Forse, in fondo, sfuggo la memoria emotiva perché m’intimorisce.

Tuttavia, le convinzioni di cui parlo qui sono indissolubilmente legate a emozioni vissute e alla loro elaborazione.

Da qualche parte conservo una bacchetta magica di Harry Potter regalata ai miei figli. Provo a farne uso per tirare fuori dal bacile dei ricordi e dei pensieri qualche filamento che spieghi, o semplicemente collochi ragione ed emozione in un qualche rapporto.

[Luca Bergamo, È qui il mio respiro, in libreria dal 5 giugno, qui in preordine)

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Maggio 2024
In occasione del convegno Materiality at the Intersection of Ecology and Religious Studies, Relazioni: ha incontrato Benedetta Panisson

Nel 1000 il Doge di Venezia, Pietro II Orseolo, sposò il mare. L’unione avvenne nel porto di S. Nicolò. Vestito di ermellino e con un corno in testa, sfilò lentamente a bordo del Bucintoro, talmente bardato di statue d’oro da diventare un oggetto inadatto alla navigazione. Fu versata acqua benedetta nell’acqua, fu gettato un anello nelle onde. La cerimonia fu resa sacra da Papa Alessandro III nel 1173 con queste parole: «Doge di Venezia, questo è l’anello nuziale del tuo matrimonio con il mare. D’ora in poi vogliamo che tu e i tuoi successori la sposiate ogni anno».

Benedetta Panisson, artista visiva e ricercatrice alla Durham University sarà una delle relatrici al convegno internazionale Materiality at the Intersection of Ecology and Religious Studies

Che cosa ha significato quel rito? In quale sfera politico-religiosa si iscrive? Come si trasforma un ecosistema in un ecosistema di potere? 
Su quell’evento prova a riflettere Benedetta Panisson, artista visiva e ricercatrice alla Durham University, che intreccia da sempre pratiche artistiche e riflessioni teoriche con lenti femministe e queer su ecologia, desiderio e potere. Sarà una delle relatrici al convegno internazionale Materiality at the Intersection of Ecology and Religious Studies che si terrà alla Fondazione Giorgio Cini a Venezia, dal 21 al 23 maggio, per iniziativa del Centro Studi di Civiltà e Spiritualità Comparate, diretto da Francesco Piraino.

Il rito dello sposalizio del Doge col mare contiene in sé molti elementi. Il primo è la consacrazione di una visione di governo integrale dell’ecosistema che la Serenissima aveva, almeno si ritiene avesse, con una lungimiranza che si è perduta. Si potrebbe parlare di una cosmovisione politica?

Innanzitutto, bisogna intendersi su cosa significhi ‘consacrare’, e se vi sia effettivamente una lungimiranza perduta. Come studiosa delle culture e delle visualità erotico-sessuali negli spazi insulari, direi che è necessario comprendere, dal punto di vista storico, chi ha consacrato cosa. Anche i portoghesi, l’impero britannico, gli spagnoli, hanno consacrato una ‘cosmovisione politica’, forzando alla cristianizzazione, portando alla vergogna comunità che venivano ritenute al di fuori di un certo canone, sfruttando i territori.

L’Occidente, sulle culture insulari e anche quelle erotico-sessuali, da Samoa alle Andamene, dalle Trobriand a Tonga, ha imposto una omologazione coloniale, e morale, tra le più estese e durature della storia umana. Erano missioni consacrate. È una memoria fondamentale ed è importante comprendere cosa implichi, da parte di uno Stato, avere una cosmovisione, e cosa ogni consacrazione copra o escluda. Uno sposalizio cristiano tra un maschio di potere e questa meraviglia che chiamiamo ‘mare’ ha delle conseguenze, e non credo siano solo ecologiche.

Ogni tanto gioco con mia figlia con google earth, e zoomiamo a caso in mezzo all’Oceano Pacifico, sembra esserci solo acqua, poi zoomiamo ancora, spunta un piccolo arcipelago, che dista almeno quattromila chilometri da ogni terraferma. E se zoomiamo ancora l’immagine satellitare, non c’è niente in quell’arcipelago tranne una croce cristiana e si intravede, sfuocata, una chiesa. Voglio poter spiegare a mia figlia perché in mezzo all’oceano, in quell’arcipelago, c’è una croce. Rispondendo alla domanda: sì, lo sposalizio con il mare ha una visione di governo integrale dell’ecosistema e una cosmovisione politica. Ma suona ora come un qualcosa di più cupo. Abbiamo invece strumenti e interconnessioni per ri-pensare e re-immaginare il rapporto con il mare e le sue isole, anche noi stessi veneziani.

Nell’atto dello sposalizio sembra trasfigurarsi la stessa idea di città. La semantica della città per come la conosciamo perde consistenza, non è più palazzi, ponti, confini: la città può farsi solo mare? In quell’atto, della città resta una dimensione tutta liquida?


Direi piuttosto essere il contrario: il Doge attraverso lo sposalizio consacra una sottomissione, in cui la femminilizzazione del mare è l’atto attraverso il quale questo può avvenire. Questo solidificava la città e il suo sfarzo. Potrei dire che l’acqua e l’assenza di ossigeno cementificano le palafitte che la sostengono.

Il Doge rendeva l’Adriatico una funzione (moglie) del proprio dominio: non un atto di salvezza per il mare, ma per la propria immagine. Desposamus te, mare, in signum veri perpetuique dominii, dice la formula, e non ci sono modi per leggere il dominio differentemente da uno sfruttamento. 
Penso che uno degli elementi che più mi sostiene nella pratica artistica e in quella accademica a Durham University, sia l’essere veneziana: Venezia ha qualcosa in comune sia con alcuni dei popoli oceanici minacciati dal turismo di massa, dal peso degli esotismi, dall’innalzamento del livello del mare, sia con isole con un passato di conquista e dominio. Questo la rende ibrida e interconnessa a vari immaginari insulari.

Nel 2013 ho fatto parte con Come to Venice di Contingent Movements Archive, piattaforma del Padiglione delle Maldive della 55ma Biennale d’Arte di Venezia, curato da Hanna Husberg e Laura McLean. Indagava l’ipotetica sparizione di isole per l’innalzamento del livello del mare e gli scenari migratori delle popolazioni che vi abitano. Correlava l’estuario veneziano a una questione maldiviana, e viceversa.

Questo crea alleanza e interdipendenza ecologica. Anche a Ca’ Foscari, ad esempio nel Talanoa Forum: Swimming against the tide, creato da una collaborazione tra Francesca Tarocco, direttrice del THE NEW INSTITUTE Centre for Environmental Humanities (NICHE), la storica dell’arte Cristina Baldacci e la curatrice Natalie King, e diretto dall’artista Yuki Kihara, Venezia si fa ibridazione di culture insieme a Samoa e Aotearoa, Nuova Zelanda. Ocean Space, inaugurato nel 2019, consolida questa interconnessione tra insularità. Questi aquapelagi1 estesi sono ciò che rendono fluida Venezia.

Torniamo al Doge: con quella celebrazione rituale, sembra stabilire un rapporto di potere sulla natura, eppure non compie un rito sacrificale o di comando, lo fa attraverso una forma matrimoniale, un’alleanza che dovrebbe essere intima, carnale, orizzontale. Come si possono leggere i rapporti di potere?

Il matrimonio, per come lo si intende all’interno del contesto storico dello sposalizio con il mare, un arco di tempo di 700 anni, non è un’alleanza orizzontale, bensì patriarcale e in quanto tale verticale. La femmina nel patriarcato è una funzione di esso, che garantisce potere al maschio, e sudditanza alla femmina. Questo ragionamento, all’interno di una gerarchia cristiana, e del potere dogale, si amplifica. E si amplifica ancora più se applicato a un’entità naturale, il mare. 
La natura non è femminile, ma se una forma di oppressione funziona sul corpo di una femmina può funzionare anche su di un’entità naturale come il mare, femminizzandolo.

Ad esempio, il botanico settecentesco Linneo attribuì ad alcune piante il sistema patriarcale eterosessuale cristiano della sua epoca, ma questa attribuzione si mostrava come fosse proprio la natura a fornirci queste regole. Il modo cristiano di intendere sesso e genere diveniva un modello osservabile in natura: chiamava camera nuziale una parte del fiore, e moglie e marito, il pistillo e lo stame. Però pistillo e stame non sono due persone cristiane. 


La dogaressa non sposa un mare maschio, ad esempio. Il Doge, attraverso l’azione del matrimonio simbolico doma, e domina, la femmina-mare. Non posso dire se il Doge ami il mare-femmina, bisognerebbe sapere che cosa significasse amore per un Doge veneziano. Questa analisi ci serve nel contemporaneo: alla luce dei femminismi, della lotta per la parità dei diritti, dei diritti delle comunità LGBTQIA+, dell’ecologia femminista, non si può lasciare indisturbato questo rituale. Con la parola ‘disturbo’ intendo che, nel 2024, compiere un rituale in cui metaforicamente l’autorità (per ora maschile) sposa il mare, inteso come femminile, è disturbante, e però anche disturbabile.

Lei fa una lettura queer dell’evento. Perché è un matrimonio che entra in un altro terreno sentimentale, tra un vivente umano e un vivente non umano e non animale. È possibile parlare di un’ecologia queer?

Farei un passo indietro: la lettura queer che faccio sul rituale del matrimonio del mare non è perché ritengo che questo sia un unione interspecie, ibrida, queer, e uso qui la parola ‘queer’ nel senso di non-conforme in relazione a conformità ritenute dominanti ed escludenti, bensì tirando in ballo una questione fondamentale, come invita a riflettere Greta Gaard, ospite del convegno e insieme a lei una moltitudine di altre voci, come Donna Haraway, Catriona Mortimer-Sandilands, Myra j. Hird, Eve Kosofsky Sedgwick, Rachel Carson: il matrimonio con il mare funziona solo all’interno di una complessa struttura culturale e morale in cui la costruzione del concetto di ‘natura’ e quello di ‘femmina’ agiscono similmente su di un qualcosa che si ritiene minoritario, sottomissibile, promiscuo, qualcosa che spaventa.

Dire che questo ruoti intorno al cardine del controllo sulla fertilità, è banale. 
Riformulando dunque la risposta, potremmo dire che lo sposalizio con il mare, nel quadro storico in cui lo si è inventato, all’interno della cristianità, e nei secoli a seguire, funziona solo in un tragicomico paradosso: è il fatto di pensare che il domino e lo sfruttamento del corpo femminile e della natura possano garantire a chi lo persegue un vantaggio enorme, economico, sociale, culturale. 


Se lo sposalizio con il mare non fosse uno sposalizio, nella sua forma eteronormata ed escludente, se avvenisse al di fuori della cristianità, o non esclusivamente in una spiritualità che rappresenta solo una parte della cittadinanza veneziana, e globale, se non promettesse dominio sui mari ma una forma ecologica di rispetto e affetto per questa creatura che chiamiamo mare, ecco che forse potremmo parlare di un’unione eco-queer con il mare.

Il mare non è una femmina che ha bisogno di essere sposata, bensì una delle forme biologiche più complesse ed enormi della Terra. Che questo riguardi anche, ma non solo, la spiritualità umana, mi sembra evidente. Lo sposalizio con il mare può dunque insegnarci più cose: a ripensare costantemente che cosa intendiamo per ‘natura’, che cosa intendiamo per ‘femmina, che cosa intendiamo per ‘dominio’.

Quel rito è anche un atto performativo, diremmo ora. Lei ha prima di tutto una formazione d’arte: cosa la colpisce dell’impronta visiva, coreografica, dell’evento? Ha anche una matrice camp? cosa ha di peculiare rispetto ad altre forme rituali?


In generale, mi infastidisce ogni atto performativo che si prenda troppo sul serio. Quel rito è anche un atto performativo e si prende sul serio: il lancio dell’anello d’oro, la formula consacrante, il Bucintoro bardato di statue, il corno ducale. È un rituale sfarzoso che mette in scena la cristianità, il potere, la gerarchia. Come accademica mi interessa perché rende esplicita la costruzione di questa relazione, la credenza di poterne domare le tempeste, le mareggiate, gli eccessi, la diversità imprevista, attraverso una serialità di parole e gesti.

Come artista m’interesserebbe di più un atto performativo che si pone in ascolto e osservazione, forse addirittura in uno stato di contemplazione, delle variazioni e del potere del mare, più che nel tentare di domarle. Sono veneziana, di quelle veneziane perpetuamente innamorate di queste isole e di questa laguna, amo i suoi eccessi estetici e di costumi, da un punto di vista storico, ma non ritengo vi siano elementi camp nel tradizionale sposalizio con il mare. Lo direi con le parole di Susan Sontag: «Camp is a solvent of morality. It neutralizes moral indignation, sponsors playfulness»2. Il camp può cancellare la moralità, neutralizza l’indignazione morale, promuove ciò che è scherzoso. Non si tratta di questo, in questo caso, ma per certo possiamo prenderne spunto per il futuro prossimo.


  1. Hayward, Philip (2014). “Aquapelagos and Aquapelagic Assemblages: Towards an integrated study of island societies and marine environments” (PDF). Shima. 6 (1): 1–11. ↩︎

  2. Sontag Susan, Notes on Camp, Penguin Books Ltd, 2018 ↩︎

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Maggio 2024
Benvenuti

Usciti terribilmente confusi e ammaccati dalla pandemia ci ritroviamo come dispersi in un mondo che non sembra aderire alle prospettive che ci eravamo immaginati. Se da un lato un sentire libertario come di comunità sembra essersi diffuso come necessario per il nostro benessere, dall’altro le regole sociali sembrano virare verso una compartimentazione pretenziosamente e pericolosamente igienica. Ritrovare il filo del discorso, recuperare rapporti e ritrovare spazio per delle relazioni nuove e trasversali diviene così quell’atto necessario alla politica per ritornare a vivere in un campo sociale diffuso e capace di restituzione di senso.

Ed è attorno a un confronto aperto e inclusivo, ma anche infiammato e sfrontato che intende muoversi Relazioni:, uno spazio digitale dentro cui sciogliere il senso di un lavoro editoriale, quello di Luca Sossella editore con un lavoro di mappatura del contesto, che sperimenti e affronti con le nuove dinamiche in campo

Relazioni: quindi come un ponte tra la produzione editoriale e quel laboratorio d’idee da sempre necessario per dare forma a contenuti che possano poi diffondersi trovando di volta in volta il corpo più adatto che siano libri, articoli, reportage, podcast o documentari. Un luogo ibrido e dalla forma leggera che possa essere duttile e rapido per affrontare le correnti e le rapide di un tempo complesso e a tratti isterico. Una possibilità di affrontare anche la paura (e certamente anche l’orrore) ritrovando insieme nuovi compagne e compagni di viaggio capaci di restituire al presente la lucidità necessaria per comprendere il futuro che ci attende e che vogliamo. Relazioni: è la vela con cui salpiamo, in cerca di nuovi approdi tutti da inventare e da rivelare ai nostri occhi.

Gli strumenti segnalano solo quello per cui sono stati predisposti.

Spock, Star Trek

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Maggio 2024
Massimiliano Nicoli risponde ad alcune domande di Relazioni: sulla mutazione del lavoro contemporaneo

Autore del saggio, Le risorse umane (Roma, Ediesse, 2015) Massimiliano Nicoli è uno psicanalista, studioso del pensiero di Michel Foucault e attualmente redattore di “aut aut” e chercheur associé presso il Laboratorio di ricerca Sophiapol dell’Université Paris Nanterre. Nicoli propone una lettura interessante delle teorie e delle pratiche legate al management delle risorse umane nelle organizzazioni avendo come filo conduttore e punto di riferimento centrale della sua esplorazione (genealogica e diacronica) il complesso bagaglio concettuale dell’elaborazione foucaultiana. In questa ricca intervista, Nicoli affronta il tema della fine del lavoro e delle strategie conseguenti.

Al tempo della fine del lavoro quali strategie di resistenza possono aprire ad una nuova stagione dei diritti per i lavoratori?

Prima di tutto, bisognerebbe intendersi su che cosa significhi “fine del lavoro” quasi trent’anni dopo la pubblicazione del libro di Jeremy Rifkin con questo titolo1 . Ciò di cui si decretava la fine – nell’enorme letteratura sul postfordismo – erano l’impiego stabile taylorfordista e la società salariale di cui esso era il fulcro, e di cui Robert Castel aveva fatto la storia in Les métamorphoses de la question sociale2 . Era tutto un patto sociale fra capitale e lavoro, sorvegliato dallo Stato nella sua funzione regolatrice, che andava a farsi benedire.

In passato, ho cercato di integrare tale patto nella cornice concettuale di un dispositivo biopolitico di regolazione della forza-lavoro e, più in generale, della popolazione, il “dispositivo di stabilità”, vale a dire una certa organizzazione dei rapporti di forza secondo una forma specifica di divisione sociale e sessuale del lavoro in cui il significante “stabilità” la faceva da padrone tanto sul piano politico che sociale3 .

Le trasformazioni economiche e manageriali che hanno accompagnato l’affermazione della razionalità politica neoliberale hanno determinato una ricomposizione radicale di quel dispositivo e una sostituzione di “stabilità” con “flessibilità” nel registro simbolico del significante: nascita dell’“uomo flessibile” di cui parlava Richard Sennett4 , o del soggetto-capitale-umano che lavora senza sosta su se stesso per rendersi appetibile in un mercato del lavoro giuridicamente regolato in modo che l’impiego stabile diventi un’eccezione e non più la regola.

Dal dispositivo di stabilità al dispositivo di flessibilità

In questo passaggio dal “dispositivo di stabilità” al “dispositivo di flessibilità”, quindi, non è il lavoro che finisce, ma solo l’impiego, o un certo tipo di impiego. Non a caso, nella Société automatique del 20155 , Bernard Stiegler parlava di “fin de l’emploi” e non di “fin du travail” di fronte alle trasformazioni determinate dal procedere dell’automazione. E se l’impiego finisce, il lavoro, al contrario, si trasforma e resta una categoria ipertrofica che domina le nostre vite.

In questi anni, io e Luca Paltrinieri abbiamo tentato di descrivere una specie di “estensione del dominio del lavoro”, nel senso che il lavoro professionale, produttivo – o il lavoro come vocazione (Beruf, per citare il vecchio Weber6 ) –  diventa sempre di più “lavoro su di sé” ovvero “lavoro di produzione di sé”7

Con questo volevamo dire che la presa del lavoro sulla vita si estende nella misura in cui il modello normativo della soggettività neoliberale si impone agli individui tramite la forza di un certo discorso ripetuto come una liturgia nei sistemi educativi, nelle imprese, nella politica. Tale discorso dice: la relazione di lavoro non è più uno scambio tempo contro denaro, un’operazione di alienazione della forza-lavoro compensata da un salario – roba vecchia; l’attività lavorativa è in verità la via d’accesso alla stima (economica) di sé stessi, alla valorizzazione di sé in quanto capitale umano, all’investimento sulle proprie competenze, alla costituzione di un’autentica “immagine di sé” in cui riconoscersi e tramite la quale farsi riconoscere. Di più, ogni attività che partecipa a questa impresa di costituzione e realizzazione di sé può finire nella categoria di lavoro. In altre parole, la remunerazione del lavoro è meno economica che psicologica. Questa ci sembrava e ci sembra tuttora l’elemento inconscio che caratterizza oggi ciò che le scienze manageriali chiamano significativamente “contratto psicologico”.

Al limite, il punto parossistico di questa situazione è che la produzione di merci e servizi diviene un effetto secondario – per quanto necessario – di un lavorio indefesso che l’individuo effettua su se stesso per essere all’altezza delle istanze del soggetto neoliberale. Come dire, non c’è produzione di valore economico per mezzo di lavoro senza un’autovalorizzazione del soggetto, di ogni soggetto, per mezzo di lavoro su di sé. Potremmo definire questo regime di accumulazione come un’“economia politica della valorizzazione di sé”8 , di cui la passione contemporanea per la valutazione e l’ossessione psicosociale per l’autostima mi sembrano sintomi9 .

Possiamo chiamare, con Pierre Dardot e Christian Laval10 , “soggetto del valore” il soggetto che questo regime economico-politico implica. Posto che Max Weber non si sbagliasse nell’individuare le affinità elettive tra l’etica capitalistica del lavoro e le forme di ascetismo protestante, direi che non siamo mai stati tanto protestanti quanto in questa fase del capitalismo.

Infine, aggiungo un elemento che traggo da un eccellente testo di Andrea Muni pubblicato nel 2018 dalla rivista aut aut11 . Ciò che ho chiamato modello normativo della soggettività neoliberale assomiglia non poco alla forma attuale di quello che Freud, nel Disagio nella civiltà12 , definiva Kultur-Über-Ich, il Super-io della civiltà, collettivo e storico, le cui prescrizioni si ritrovano per analogia nelle istanze superegoiche individuali (sulle ragioni che spiegano l’analogia ci sarebbe da discutere, ma non finiremmo più).

Chiamiamolo, per semplificare, Super-io neoliberale. Seguendo il discorso di Muni, direi che l’individuo interpellato come “soggetto del valore” si struttura intorno a un Super-io valutatore che ribatte senza sosta l’Io attuale sull’immagine idealizzata di sé costruita attraverso il lavoro e tutti i dispositivi sociali contemporanei facenti funzione di specchio, sottomettendosi a un’istanza superegoica socialmente e politicamente determinata che per definizione non sarà mai soddisfatta.

E malgrado gli effetti di sofferenza sociale (melanconia, depressione, problemi di autostima) già descritti da Alain Ehrenberg nel 199813 , l’individuo soggettivato come soggetto del valore persiste perversamente in questa condizione godendo masochisticamente del suo assoggettamento al Super-io valutatore, tanto più che deve negarsi come corpo pulsionale in quanto quest’ultimo è antieconomico per principio. In questo senso, mi sembra che si possa definire l’arte di governo neoliberale come l’arte di organizzare quello che Freud chiamava “masochismo morale”14 sotto forma di narcisismo.

Insomma, l’Io neoliberale – soggetto del valore – è sempre freudianamente servo di tre padroni: il mondo esteriore che gli ordina di mettersi in valore, le pulsioni dell’Es di cui deve negare la funzione antieconomica sublimandole nell’economico, il Super-io che non smette di inchiodarlo alla sua inadeguatezza rispetto all’immagine di sé che egli stesso produce, dandogli in cambio la sola possibilità di godere masochisticamente di tale inadeguatezza. L’evaporazione del padre (o l’eclissi della funzione del Nome del Padre) di cui molti psicanalisti parlano a torto o a ragione non diminuisce – tutt’altro, mi sembra – il moralismo economico, per così dire, del Super-io, per quanto questo dovrebbe avere, secondo Freud, un’origine altrettanto edipica che culturale.

Ciò non toglie che il soggetto del valore che lavora ossessivamente su sé stesso sia un soggetto del godimento esibito e senza limite, solo che tale godimento è comandato dal sadismo del Super-io neoliberale che fa anche del sesso una questione di economia nel senso dell’autovalorizzazione. Insomma, siamo di fronte a una profonda individualizzazione e psicologizzazione del lavoro che diventa ormai sinonimo di una soggettivazione individuale ben specifica. È questo l’evento che decreta nello stesso tempo la “fine del lavoro”, se ancora vogliamo usare questa espressione impropria, e soprattutto il suo trionfo.

Mi scuso per questa premessa lunghissima ma era necessaria per rispondere a questa e ad altre domande, o forse – temo – per schivarle in una certa misura. Se questa è la situazione, si capisce che qualsiasi “strategia di resistenza” non può che misurarsi con tale individualizzazione. Io resto un rottame marxista, sono stato un sindacalista e lo sarò sempre, sono oggi in una situazione di conflitto con il mio ex datore di lavoro principale e penso che gli strumenti tradizionali della lotta collettiva siano il solo modo per ribaltare un rapporto di forza. Quindi penso che sarebbe un’allucinazione pensare di poter sfuggire a un’individualizzazione tramite un’altra individualizzazione, a un lavoro su di sé attraverso un altro lavoro su di sé. Nello stesso tempo, non si possono fare le lotte se il prezzo da pagare è diventato oggi l’annientamento soggettivo e lo sgretolamento della propria struttura psichica.

Con Luca Paltrinieri ci siamo interessati alle nuove forme di cooperazione del lavoro che si manifestano dentro l’individualizzazione neoliberale e il cosiddetto “capitalismo delle piattaforme”

Per questo, sempre con Luca Paltrinieri, ci siamo interessati, insieme a molti altri, alle nuove forme di cooperazione del lavoro15 che si manifestano dentro l’individualizzazione neoliberale e il cosiddetto “capitalismo delle piattaforme”. Che si tratti delle cooperative di lavoratori autonomi e indipendenti – per scelta o per imposizione – o del “cooperativismo di piattaforma”16 , queste pratiche ci sono sembrate delle esperienze collettive di sovversione dall’interno dell’auto-imprenditorialità e della logica finanziaria dell’investimento su sé stessi.

La connessione fra lavoro indipendente e cooperazione che sottrae il primo alle relazioni individuali di concorrenza senza sacrificarne l’autonomia può rendere ancora possibile la trasformazione della soggettività politica a partire dal lavoro. Del resto, come le ricerche storiche di Jacques Rancière ci hanno insegnato17 , il movimento operaio, nel XIX secolo, ha cominciato da qui, dalla cooperazione fra contrattisti indipendenti, i precari di allora, che si associavano liberamente per cambiare il rapporto con il lavoro, per diventare altro da sé, per riprendere il controllo del tempo, per decidere di non sopportare più l’insopportabile, e cioè “l’umiliante assurdità di dover elemosinare, giorno dopo giorno, questo lavoro in cui la vita si perde”, per usare le parole di Rancière18 .

“Questo lavoro in cui la vita si perde” si scrive oggi come lavoro su di sé senza il quale si perde la vita. Solo la cooperazione può cancellare questa iscrizione, mostrando che se si lavora, si lavora per ridurre al minimo il tempo di lavoro necessario alla riproduzione di una società, per trasformare la divisione sociale e sessuale del lavoro, per rendere il reddito indipendente dalla misura e dalla valutazione del lavoro, per fare del lavoro, dell’essere all’opera, “il primo bisogno della vita”, come diceva Marx19 , e non un focolaio di depressioni spacciate per vocazioni o, nella migliore delle ipotesi, un sintomo nevrotico.

Purtroppo, però, non sono molto ottimista: si tratta ancora di esperienze di cooperazione estremamente minoritarie, al punto che, forse, il numero di persone come me che si occupano di questi fenomeni supera quello degli attori sociali che vi sono realmente implicati. Ma la questione resta: bisogna costruire delle istituzioni collettive capaci di rendere desueto, intollerabile, refutabile, non desiderabile il soggetto del valore neoliberale. Delle istituzioni che rendano praticabile e sostenibile questo rifiuto, in grado di fornire tanto reddito quanto riconoscimento simbolico. In grado di far ripartire la cultura storica della solidarietà e della lotta nei luoghi di lavoro, di evacuare il pensiero terribile per cui se perdi il lavoro con cui sei identificato, perdi in blocco tutto quel pacchetto psicologico che si chiama Io, il soggetto della coscienza.

Al limite, se esiste un lavoro su di sé da non buttare via, è quello che fanno da sempre i militanti, sopportando, talora con gioia, il dolore che le lotte impongono. Sempre l’amico Muni direbbe che i militanti sono capaci di transitare dal masochismo morale a quello erogeno, primario, iscritto nel corpo pulsionale. Non lo so. Quello che so è che sono troppo soli.

A fronte della crisi pandemica si sono aperte nuove prospettive possibili per i lavoratori? Anche davanti all’aumento degli scioperi che hanno caratterizzato negli Stati Uniti il 2023? Quale secondo lei un punto di svolta possibile nel prossimo futuro per la battaglia dei diritti? La sinistra è ancora in grado in Europa di rispondere alle esigenze della classe lavoratrice?

Per molti la pandemia di Covid-19 è stata, o è sembrata essere, un momento estremamente rivelatore. Anthony Klotz – citato da Francesca Coin nel suo ultimo libro, Le grandi dimissioni20 – ha parlato, in questo senso, di “epifanie pandemiche”. La crisi sanitaria avrebbe mostrato in tutta evidenza quali sono le attività socialmente indispensabili (guarda caso, le meno economicamente valorizzate) e quali le attività che servono a solo a far funzionare i regimi capitalistici di accumulazione del valore (guarda caso, le più economicamente valorizzate) – i bullshit jobs, per usare un’espressione di David Graeber che ha avuto molto successo21 .

Non solo. La pandemia, obbligando a fare la radice quadrata delle attività burocratiche non strettamente necessarie, ha mostrato anche quanto lavoro burocratico inutile è normalmente imposto dalle procedure neoliberali di valutazione, benchmarking, misura delle performances, messa in competizione delle unità produttive a tutti i livelli, anche e soprattutto nei settori socialmente essenziali come la sanità e l’istruzione. Studiose come Béatrice Hibou e Isabelle Bruno lavoravano già da anni su questo tema22.

Insomma, une delle epifanie pandemiche sarebbe stata la manifestazione infine incontrovertibile del lato oscuro del lavoro neoliberale, della crisi di ogni “narrazione” che insista sulle sorti indiscutibilmente progressive ed emancipatrici del lavoro e della carriera, permettendo a molte persone di prendere una distanza critica rispetto al proprio impiego e alla propria implicazione in esso.

Dal lato dei poteri governamentali, non sembra che queste epifanie abbiamo lasciato delle tracce: non si riscontra nessuna inversione di tendenza rispetto allo sfacelo dei sistemi di istruzione e sanitari, per lo meno in Francia. E i regimi di accumulazione che sfiniscono la forza-lavoro e massacrano il pianeta continuano a funzionare come niente fosse. Dal lato dei lavoratori e delle lavoratrici, invece, gli scioperi del 2023 e il fenomeno che è stato internazionalmente definito come Great Resignation, Grande démission, Grandi Dimissioni possono essere messi in relazione a quanto accaduto durante la crisi pandemica.

È quello che fa giustamente Francesca Coin nel suo importante libro che ho già citato, considerando nella fattispecie l’aumento delle dimissioni volontarie su scala pressoché planetaria come il sintomo di una “disaffezione al lavoro” che viene da lontano e che si manifesta nella e dopo la pandemia. Il rapporto con il lavoro sta cambiando? La domanda risuona anche qui in Francia, dove i lavori di ricerca su questo tema si moltiplicano. E non mi stupisce il fatto che le risposte cambino secondo i posizionamenti politici dei soggetti che conducono le ricerche, nonostante il fatto che i dati quantitativi mobilitati siano spesso i medesimi.

Per esempio, l’Institut Montaigne, think-tank liberale finanziato dal grande capitale francese (LVMH et Total, per esempio) nega categoricamente l’esistenza della grande démission23, mentre la Fondation Jean Jaurès, vicina storicamente al PS ma poi anche al partito di Macron, ha una posizione meno netta24. Ma in ogni caso dai dati emerge una relativa disaffezione al proprio impiego, una preferenza per più tempo libero rispetto a più denaro, il ruolo catalizzatore della crisi sanitaria in questo cambiamento, un bisogno di maggiore autonomia e senso nel lavoro.

Il rapporto della Fondation Jean Jaurès lascia trasparire il fatto che se il lavoro resta importante per la grande maggioranza dei francesi, è l’impiego che diventa sempre meno seducente, a causa dell’accelerazione dei ritmi e della precarizzazione dei rapporti di lavoro (non una grande scoperta, in effetti), da cui una crisi nel rapporto di fedeltà fra il lavoratore e l’azienda. L’inchiesta su cui si basa il testo della Fondazione Jaurès attesterebbe però che la grande maggioranza dei francesi resta sovra-mobilitata nel lavoro, tanto quanto prima della pandemia, e che il famoso fenomeno del “quiet quitting” – il disinvestimento silenzioso del lavoro – non riguarderebbe che una minoranza.

Francesca Coin dedica un capitolo del suo libro all’“anomalia italiana”, cioè il paese dove è più evidente il fatto che a lasciare il proprio impiego non sono gruppi di privilegiati che possono permetterselo, ma, al contrario, working poors che devono lavorare, che lavorano nei comparti a maggiore sofferenza, e che molto spesso non hanno nessun piano B. E soprattutto le donne, che oltre alla condanna del lavoro produttivo subiscono quella del lavoro riproduttivo.

Francesca Coin dedica un capitolo del suo libro all’“anomalia italiana”, cioè il paese dove è più evidente il fatto che a lasciare il proprio impiego non sono gruppi di privilegiati

Ciò si deve al fatto che in Italia gli effetti devastanti delle trasformazioni postfordiste del lavoro si sono fatti sentire più che altrove, fino al punto che, marxianamente, il capitale ha persino compresso i salari al di sotto del valore della forza-lavoro, cioè al di sotto del valore dei mezzi di sussistenza, contando sul fatto che le persone avrebbero continuato a lavorare e consumare grazie al credito, al welfare famigliare e all’attaccamento morale al lavoro (il già evocato “contratto psicologico” delle scienze manageriali non è in fondo che un caso particolare della lunga storia dei discorsi e delle pratiche medianti le quali si cerca di legare indissolubilmente il soggetto e il lavoro). È chiaro che a un certo punto la corda si spezza: ci si dimette perché si è esausti, sfiniti, e, oltre a non avere un reddito decente, ci si gioca pure la salute mentale.

È interessante notare, come fa Coin in virtù del suo approccio qualitativo oltre che quantitativo, che alla base della scelta drammatica di lasciare il lavoro, anche in assenza di alternative, c’è uno schietto calcolo costi-benefici, cioè un calcolo economico, diversamente dagli anni settanta quando si rifiutava il lavoro per abolirlo e cambiare il mondo. Il (poco) denaro non compensa né il tempo né la sofferenza, quindi “ciao, me ne vado”. È come se il soggetto economicamente razionale che l’economia ortodossa ci suppone essere usasse finalmente quella logica economica contro il suo padrone, per rendergli la moneta falsa del suo stesso discorso: “guarda che non lavoro per calcolo economico e utilitaristico, ma perché sono obbligato, o perché in qualche modo mi hai convinto di esserlo e che se non lavoro non esisto. Ma se faccio davvero uno dei tuoi calcoli, vedi che me ne vado sul serio”.

Detto questo, leggendo i dati delle inchieste mi sembra che ciò che cambia dopo la pandemia è più il rapporto con l’impiego che con il lavoro, per tenere ancora ferma questa distinzione. In altre parole, la disaffezione che si riscontra oggettivamente in diversi contesti è il sintomo di una crisi di stanchezza del soggetto della prestazione molto ben analizzato da Anna Simone e Federico Chicchi nel 201725: l’ultra-lavoro (su di sé) produce spesso, come rovescio della medaglia, il collasso psicofisico dell’individuo che non ha altra scelta se non cambiare impiego per ricominciare a lavorare su di sé.

Del resto, in Europa, le politiche del lavoro si riducono ormai da anni a delle misure di sostegno alla riconversione professionale finalizzate ad incitare le persone a spostarsi da un comparto in contrazione a uno in espansione dove poter continuare ad accumulare capitale umano. Il tutto accompagnato da un discorso in salsa start-up che invita gli individui ad accettare e finanche valorizzare il fallimento per ricominciare sempre e di nuovo da un’altra parte, assumendo il rischio del cambiamento e dell’innovazione. Ennesimo tentativo governamentale di mantenere il rapporto del soggetto con il proprio esaurimento all’interno di una dimensione impolitica e strettamente individuale, esistenziale, se non spirituale26.

Nel frattempo, come dicevo prima, il soggetto del valore resta inchiodato masochisticamente al lavoro di valorizzazione economica di sé continuando a dimorare in ciò che ancora Graeber in Bullshit Jobs ha chiamato il “paradosso del lavoro contemporaneo”, per cui si odia il proprio lavoro ma non si esiste senza di esso, o meglio, si odia il proprio impiego ma non si esiste senza lavoro. E si finisce per odiare se stessi.
Se esiste un punto di svolta o qualcosa che la “sinistra” può fare in questa situazione sarebbe – ma in fondo l’ho già detto – riprendere l’antico progetto marxiano di liberazione della vita dal lavoro, che consisterebbe nel combattere la finzione reale del soggetto individuale del valore a colpi di “uomo socializzato”, diceva Marx, cioè i “produttori associati” che riducono al minimo il tempo di lavoro necessario alla riproduzione materiale della società (il “regno della necessità”) – riportandolo sotto il loro controllo comune invece che esserne dominati – per estendere, sulla base di questo ma al di là di questo, il “regno della libertà” dove “comincia lo sviluppo delle capacità umane”27.

Chiosava Marx nel terzo libro del Capitale: “Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa” [Ibid]. Sarebbe già un buon punto di partenza. E poi, disconnettere il legame che solo il modo di produzione capitalistico ha instaurato – non dimentichiamolo – fra reddito e lavoro, vale a dire realizzare questa utopia alquanto concreta che si chiama reddito universale incondizionato. E dare voce e potere alle esperienze di cooperazione e autogestione (i “produttori associati”, se vogliamo) che ho già evocato, perché possano non solo sopravvivere ma generalizzarsi.

Francesca Coin chiude il suo libro sulle “grandi dimissioni” citando la lotta del Collettivo di Fabbrica GKN di Campi Bisenzio, e ha perfettamente ragione. È una lotta che insegna molto chiaramente che è solo nell’esperienza dell’autogestione che si trasforma il rapporto con il lavoro e che si possono inoltre mettere radicalmente in questione le scelte produttive alla luce della catastrofe ecologica che vivremo e che stiamo già vivendo.

Siamo di fronte a un’accelerazione del capitalismo o a una mutazione? L’Intelligenza artificiale può essere uno strumento di liberazione o di ancor più duro sfruttamento?

Difficile separare accelerazione e mutazione: il capitalismo, accelerando, muta. È un’evidenza che si ritrova sempre quando si cerca di fare la storia di uno degli elementi o delle strutture di questo modo di produzione. Basti pensare al dibattito su taylorfordismo e postfordismo. Il postfordismo è un iper-taylorfordismo o una trasformazione radicale dell’organizzazione del lavoro che l’ha preceduto? Entrambi.

Il taylorismo non è mai morto e sopravvive anche e soprattutto oggi nel management algoritmico delle piattaforme28. E anche nella storia del discorso manageriale che accompagna le mutazioni organizzative non c’è una vera e propria cesura tra fordismo e postfordismo: tutto il catechismo manageriale che insiste sull’umano, sulla collaborazione, sul clima organizzativo, sull’autonomia, sull’empowerment dei lavoratori eccetera si forma già negli anni sessanta con il modello delle “Risorse Umane” di Raymond Miles29 e ha i suoi antesignani in quello delle “Relazioni Umane” di Elton Mayo30 .

Tuttavia, se fino alla fine del fordismo questo discorso restava un progetto o una sorta di lubrificante ideologico, con il post-fordismo diventa un attrezzo fondamentale per distruggere la classe operaia come soggetto antagonista e proteggere un sistema produttivo che nel frattempo, con il toyotismo, è diventato estremamente fragile e vulnerabile – e questa è stata un’enorme trasformazione qualitativa.

Un altro esempio è proprio il soggetto neoliberale del valore, sul quale insisto. Anche questo non è nuovo e non costituisce, in sé, un punto di rottura nella storia del capitalismo e del liberalismo economico e politico. Bisogna immaginarne la genealogia almeno a partire dall’utilitarismo anglosassone e, ancor prima, dal momento in cui la cultura occidentale ha cominciato a far rientrare l’amor proprio (tradizionalmente visto come un male morale) nel gioco degli interessi individuali che produce inconsapevolmente la Ricchezza delle Nazioni – Smith docet. Il soggetto d’interesse, l’uomo economico – “fatto sociale totale”, “regime normativo” delle società occidentali31 – è un soggetto il cui amor proprio (che più tardi si trasformerà in “autostima”) contribuisce involontariamente alla crescita economica. Ritroveremo questa logica all’interno della teoria dell’equilibrio generale degli economistici neoclassici e poi, più tardi, nelle teorie di gente come Hayek, presso i neoliberali americani teorici del capitale umano, e infine nelle tecniche economiche contemporanee di calcolo del valore statistico della vita umana.

Nell’era neoliberale, quanto più un soggetto è capace di specializzare le proprie competenze investendo su se stesso per aumentare il valore del proprio capitale umano – valore che dipende dalle pratiche sociali di valutazione –, tanto più la produttività del lavoro aumenterà pure in un contesto di risorse sempre più limitate. E più un soggetto è disposto a pagare per ridurre il proprio rischio di mortalità – perché ha un’alta stima economica della propria vita –, più il valore statistico della vita umana in una data società aumenterà, mettendo lo stato in condizione di prendere misure costose per salvare vite umane, come nel caso della crisi pandemica32.

Insomma, il soggetto del valore ha una lunga storia, ma è solo con la trasformazione neoliberale del capitalismo e delle nostre società che diviene il modello normativo della soggettività – Kultur-Über-Ich di freudiana memoria –, accelerando e trasformando l’uomo economico tradizionale. Scriveva Marcel Mauss nel suo Saggio sul dono pubblicato nel 1925: “l’homo oeconomicus non è dietro di noi, è davanti a noi; come l’uomo della morale e del dovere; come l’uomo della scienza e della ragione”33. E non si sbagliava.

Infine, l’Intelligenza artificiale. Matteo Pasquinelli ha da poco pubblicato un libro, The Eye of the Master34, in cui risitua l’Intelligenza artificiale in una prospettiva socio-storica di respiro molto ampio mostrando come essa non sia tanto un’imitazione dell’intelligenza biologica quanto delle pratiche umane sociali e storiche, come la divisione sociale del lavoro. Marxianamente, la macchina è meno tecnologicamente determinata che socialmente e politicamente organizzata, e opera da sempre succhiando lavoro vivo. Come ha mostrato Antonio Casilli in En attendant les robots35, l’Intelligenza artificiale è più artificiale che intelligente, nel senso che la sua esistenza richiede una quantità enorme e essenziale di lavoro umano.

E non si tratta del lavoro di ingegneri geniali o di startuppers eroici, ma di quello di un esercito di lavoratori anonimi sottopagati e iper-precari sparsi in tutto il mondo, e specialmente in paesi poveri e geopoliticamente deboli, il cui incessante “lavoro del clic” allena, adatta e verifica il funzionamento degli algoritmi. Perché ci sia automazione da qualche parte nel mondo, non può che esserci intensificazione dello sfruttamento del lavoro vivo altrove.

Anche qui, niente di nuovo sotto il cielo capitalista. Tuttavia, tutto ciò permette una trasformazione enorme del modello dell’impresa, che diviene così una piattaforma in cui il capitale costante si riduce, al limite, alla proprietà intellettuale dell’algoritmo, e che esternalizza la quasi totalità del capitale variabile abbattendo i costi di transazione – è l’impresa-piattaforma. Tale trasformazione della forma dell’impresa è nello stesso tempo una mutazione del management.

Da un lato, come già accennato, gli algoritmi integrano le tradizionali funzioni manageriali, dal monitoraggio e dalla misura delle prestazioni ai sistemi premianti e sanzionatori, assicurando la gestione delle prestazioni così come la standardizzazione, il coordinamento e la pianificazione del processo di lavoro.

Dall’altro, l’esternalizzazione del lavoro rilancia il problema del commitment, dell’impegno dei lavoratori indipendenti, precari e “uberizzati”, cioè l’antico problema della partecipazione attiva del soggetto al proprio sfruttamento, ora che il tradizionale rapporto di lavoro subordinato non esiste più.

La soluzione a questo problema è offerta dai sistemi algoritmici di valutazione delle performances che coinvolgono lavoratori e clienti delle piattaforme: si lavora per essere ben valutati, per avere un feedback a cinque stelle. Il lavoro diventa un gioco – vecchia storia, quella della gamification dei processi di lavoro – in cui il soggetto ha la possibilità di quantificare il proprio valore.

La novità è che il divenire piattaforma delle imprese comporta la costruzione di un ecosistema algoritmico di valutazione in cui gli individui hanno la possibilità di lavorare sulla propria autostima e tentare di rispondere alla domanda esistenziale che ossessiona il soggetto del valore: “ma io esattamente quanto valgo?”. Ora, questo stesso insieme di trasformazioni tecnologiche permette il contrattacco del lavoro cooperativo al capitalismo di piattaforma: si tratta del “cooperativismo di piattaforma” di cui parlavo prima.

La macchina algoritmica può essere clonata per ricostruire le piattaforme secondo una logica cooperativa

Non solo le pratiche di valutazione possono essere sabotate usandole opportunisticamente contro i sistemi di valutazione stessi per mostrarne l’assurdità. Non solo le imprese-piattaforme possono essere attaccate giuridicamente per ottenere la riqualificazione dei rapporti di lavoro indipendente in rapporti di lavoro subordinato, danneggiandole economicamente.

Soprattutto, la macchina algoritmica può essere clonata per ricostruire le piattaforme secondo una logica cooperativa, non proprietaria e democratica36. Insomma, per farla breve, l’accelerazione e la mutazione dell’impresa capitalistica creano le condizioni per la costruzione di qualcosa come l’“impresa comune”37, capace di funzionare come matrice di una contro-soggettivazione rispetto al soggetto del valore: una di quelle istituzioni collettive di cui parlavo all’inizio e di cui avremmo bisogno. Ecco un altro punto che dovrebbe far parte di un’agenda politica di sinistra, oggi.

  1. J. Rifkin, The End of Work: the Decline of the Global Labor Force and the Dawn of the Post-Market Era (1995), trad. di P. Canton, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Baldini & Castoldi, Milano 1995 ↩︎
  2. R. Castel, Les métamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariat (1995), trad. a cura di A. Petrillo, C. Tarantino, Le metamorfosi della questione sociale. Una cronaca del salariato, Mimesis, Milano-Udine 2019 ↩︎
  3. M. Nicoli, Le risorse umane, Ediesse, Roma 2015 ↩︎
  4. R. Sennett, The Corrosion of Character: The Personal Consequences of Work in the New Capitalism (1998), trad. di M. Tavosanis, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 1999 ↩︎
  5. B. Stiegler, La Société automatique. L’avenir du travail (2015), trad. di S. Baranzoni, I. Pelgreffi e P. Vignola, La società automatica, Meltemi, Milano 2019 ↩︎
  6. M. Weber, Die Protenstantische Ethik und der Geist des Kapitalismus (1904-1905), trad. di A.M. Marietti, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR, Milano 1991 ↩︎
  7. Per esempio, M. Nicoli, L. Paltrinieri, Il lavoro come produzione di sé. Per una genealogia del ‘contratto psicologico’, “Psiche. Rivista di cultura psicanalitica”, vol. 4, 2, 2017, pp. 571-588, oppure Id., “Qu’est-ce qu’une critique transformatrice? Contrat psychologique et normativité d’entreprise”, in Ch. Laval, L. Paltrinieri, F. Taylan (a cura di), Marx & Foucault, La Découverte, Paris 2015 ↩︎
  8. Abbiamo provato a utilizzare questa categoria in un recente testo: M. Nicoli, L. Paltrinieri, “Managing the Will: Managerial Normativity from the Wage Society to the Platform Age”, in S. Mezzadra, N. Cuppini, M. Frapporti, M. Pirone (a cura di), Capitalism in the Platform Age, Springer Studies in Alternative Economics, Springer, Cham 2024 ↩︎
  9. Michel Feher già metteva in relazione, in un importante testo del 2009, il discorso psicologico dell’autostima con la promozione neoliberale del capitale umano: M. Feher, S’apprécier, ou les aspirations du capital humain, “Raisons politiques”, 2007/04, 28, pp. 11-31 ↩︎
  10. P. Dardot, Ch. Laval, Néolibéralisme et subjectivation capitaliste, “Cités” 2010/1, 41, pp. 35-50 ↩︎
  11. Si tratta di A. Muni, I masochismi che rimuoviamo, “aut aut”, 379, 2018, pp. 90-118 ↩︎
  12. S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur (1929), trad. di V.B. Sala, Il disagio nella civiltà, Feltrinelli, Milano 2021 ↩︎
  13. A. Ehrenberg, La fatigue d’être soi. Dépression et société (1998), trad. di S. Arecco, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Fabbri, Milano 2014 ↩︎
  14. S. Freud, Das ökonomische Problem des Masochismus (1924), trad. di R. Colorni, Il problema economico del masochismo, in Opere, Boringhieri, Torino 1978, vol. X ↩︎
  15. Per esempio in M. Nicoli, L. Paltrinieri, M. Prévot-Carpentier, “Lavoro e piattaforme digitali. Tra sfruttamento e opportunità”, in E. Donaggio, J. Rose, M. Cairo (a cura di), Lavoro e libertà?, Mimesis, Milano-Udine 2023; M. Nicoli, L. Paltrinieri, Métamorphoses du discours managérial : de la ‘culture’ à l’esprit d’entreprise, “Travailler. Revue internationale de Psychopathologie et de Psychodynamique du Travail”, 43, 2020/1, pp. 79-101; Id., Platform Cooperativism: Some Notes on the Becoming ‘Common’ of the Firm, “South Atlantic Quarterly”, 118:4, October 2019; Id., “Platform cooperativism et dépassement de l’entreprise capitaliste. Une stratégie pour le commun ?”, in Ch. Laval, P. Sauvêtre, F. Taylan (a cura di), L’alternative du commun, Hermann, Paris 2019 ↩︎
  16. Il concetto di “Platform Cooperativism” è stato coniato da Trebor Scholz in Uber-Worked and Underpaid. How Workers Are Disrupting the Digital Economy, Polity, Cambridge 2017 ↩︎
  17. Si veda soprattutto J. Rancière, La nuit des prolétaires. Archive du rêve ouvrier, Fayard, Paris 1981 ↩︎
  18. Ivi, p. 7 ↩︎
  19. K. Marx, Zur Kritik des sozialdemokratischen Programms von Gotha (1891), trad. di I. Pasqualoni, Critica al programma di Gotha, Savelli, Roma 1975 ↩︎
  20. F. Coin, Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita, Einaudi, Torino 2023 ↩︎
  21. D. Graeber, Bullshit Jobs (2018), trad. di A. Cerutti, Bullshit jobs, Garzanti, Milano 2018 ↩︎
  22. Si veda per esempio B. Hibou, La bureaucratisation du monde à l’ère néolibérale, La Découverte, Paris 2012 ; I. Bruno, Benchmarking. L’état sous pression statistique, Zones, Paris 2013 ↩︎
  23. Si veda B. Martinot, L. Thomas-Darbois, Les français au travail : dépasser les idées reçues, Institut Montaigne, Rapport 2023, https://www.institutmontaigne.org/publications/les-francais-au-travail-depasser-les-idees-recues ↩︎
  24. Si veda F. Baumlin, R. Bendavid, « Je t’aime, moi non plus » : les ambivalences du nouveau rapport au travail, Fondation Jean Jaurès, Ifop, 2023, https://www.jean-jaures.org/publication/je-taime-moi-non-plus-les-ambivalences-du-nouveau-rapport-au-travail/ ↩︎
  25. F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017 ↩︎
  26. Mi permetto di rimandare ancora a un testo scritto con Luca Paltrinieri: M. Nicoli, L. Paltrinieri, “It’s still day one. Dall’imprenditore di sé alla start-up esistenziale”, aut aut, 376, 2017, pp. 79-108 ↩︎
  27. K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Oekonomie. Dritter Band, Buch III (1894), trad. di M.L. Boggeri, Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro Terzo, Editori Riuniti, Roma 1994, p. 933. ↩︎
  28. Si veda, per esempio, G. Newlands, Algorithmic Surveillance in the Gig Economy: The Organisation of Work through Lefebvrian Conceived Space, “Organization Studies”, 42(5), 2021; N. Cuppini, M. Frapporti, S. Mezzadra, M. Piron, Il capitalismo nel tempo delle piattaforme. Infrastrutture digitali, nuovi spazi e soggettività algoritmiche, “Rivista Italiana di Filosofia Politica”, 2, 2022; A. Rosenblat, L. Stark, Algorithmic Labor and Information Asymmetries: a Case Study of Uber’s Drivers, “International Journal of Communication”, (10) 2016 ↩︎
  29. R. Miles, Human Relations or Human Resources?, “Harvard Business Review”, July-August 1965 ↩︎
  30. E. Mayo, The Human Problems of an Industrial Civilization, Macmillan, New York 1933 ↩︎
  31. Ch. Laval, L’homme économique. Essai sur les racines du néolibéralisme, Gallimard, Paris 2007 ↩︎
  32. Un ottimo articolo di divulgazione su questo tema: F. Coin, “Quanto vale una vita?”, Internazionale, 5 gennaio 2021, https://www.internazionale.it/opinione/francesca-coin/2021/01/05/quanto-vale-una-vita ↩︎
  33. M. Mauss, Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques (1925), trad. di F. Zannino, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 2002 ↩︎
  34. M. Pasquinelli, The Eye of the Master: A Social History of Artificial Intelligence, Verso, London 2023 ↩︎
  35. A. Casilli, En attendant les robots. Enquête sur le travail du clic (2019), trad. di R. A. Ventura, Schiavi del clic: perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?, Feltrinelli, Milano 2020 ↩︎
  36. Su questi temi mi permetto di rimandare ancora a M. Nicoli, L. Paltrinieri, M. Prévot-Carpentier, “Lavoro e piattaforme digitali. Tra sfruttamento e opportunità”, cit. ↩︎
  37. P. Dardot, Ch. Laval, Commun. Essai sur la révolution au XXIe siècle (2014), trad. di A. Ciervo, L. Coccoli, F. Zappino, Del Comune, o della rivoluzione nel XXI secolo, DeriveApprodi, Roma 2015 ↩︎

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