Il futuro non è scritto

Il futuro non è scritto

Febbraio 2025
Guido Vetere

Gli automi parlanti portano una sfida radicale alle nostre concezioni di linguaggio, cultura e umanità. E invitano a esplorare con rigore e sensibilità un mondo in cui le frontiere tra umano e artificiale si ridefiniscono, interrogando la nostra capacità di convivere con queste nuove presenze, Intelligenze aliene. Linguaggio e vita degli automi (Luca Sossella editore) di Guido Vetere verrà presentato martedì 25 febbraio alle ore 18:30 con l’autore insieme aMaurizio Lenzerini, Mario De Caro e Luca de Biase presso la libreria Spazio Sette di Roma.

Con la comparsa degli automi parlanti, come ad esempio i chatbot, ultima frontiera dell’intelligenza artificiale, l’umanità non si confronta solo con una nuova tecnologia, ma è chiamata a riflettere sul proprio rapporto con il linguaggio, fulcro della vita psichica e sociale. Specialmente nel XX secolo, la filosofia ha guardato al linguaggio come la materia costitutiva della coscienza e il fondamento delle relazioni umane. Cosa accade oggi quando anche gli automi si mettono a parlare?

L’opera inizia richiamando lo spettro inquietante evocato dall’Invasione degli ultracorpi di Don Siegel (1956): alieni che imitano perfettamente l’essere umano, privandolo tuttavia della sua personalità. Così, le macchine moderne replicano perfettamente il linguaggio ma allo stesso tempo ne restano separate, incapaci di comprenderne il nucleo simbolico e intenzionale. Si profila la presenza immanente di un’intelligenza aliena, che ci interroga non tanto sulla sua natura tecnologica, quanto sul modo in cui essa potrebbe trasformare la nostra vita linguistica e con essa la nostra vita sociale.

La riflessione prende avvio dalla “svolta linguistica” della filosofia novecentesca per riconnettere alcuni suoi temi alla tecnicalità dei modelli generativi dell’intelligenza artificiale attuale. Sia nella filosofia, sia nella tecnologia, l’ambizione razionalista della logica formale si confronta con l’empiria pragmatica dei modelli quantitativi e statistici. Nel linguaggio dell’intelligenza artificiale la parola non è un segno, ma una probabilità, una previsione, un moto dell’automa nel campo di forze indotto dalla testualità. L’algoritmo che sceglie la prossima parola nella frase che va generando è un compositore di melodie linguistiche assonanti ma prive di intenzioni significative.

L’analisi dell’autore non si limita alla scienza e alla tecnica; il libro prende posizione rispetto a un dibattito sociale e culturale di grande attualità. L’irruzione degli automi parlanti e la loro crescente integrazione nella vita quotidiana sollevano urgenti domande sull’etica, sulla libertà e sulla responsabilità. Come possiamo convivere con questi oggetti-soggetti che sembrano tanto umani pur nel loro automatismo, che ci inquietano ma si dimostrano utilissimi in molti compiti finora esclusivo appannaggio del lavoro cognitivo? La risposta non risiede nel silicio delle imperscrutabili reti neurali, ma nelle “forme di vita” che sapremo costruire mobilitando la nostra coscienza critica.

Da questa posizione viene il rifiuto di una visione essenzialista e soluzionista che mette il problema del rapporto con l’artificiale a carico degli algoritmi e della tecnologia, ritenendo ad esempio di poter certificare l’etica gli automi parlanti con le procedure di collaudo simili a quelle dell’ingegneria del software. Viene anche il rifiuto della falsa dicotomia apocalitticiintegrati che già Umberto Eco aveva criticato negli anni ’60. Le immagini distopiche di un’umanità soggiogata dagli automi e quelle utopiche di una intelligenza artificiale generale in grado di rispondere alla “domanda fondamentale della vita, dell’universo e di tutto quanto” sono entrambe da respingere. In realtà, l’ecosistema dell’intelligenza artificiale generativa è molto più articolato e complesso di quanto emerge da certe (non neutrali) cronache, essendo animato da migliaia di gruppi di ricerca, pubblici e privati, impegnati a produrre tecnologie e risorse anche nello spirito dei sistemi aperti e trasparenti. Orientare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale verso l’innovazione sociale, anziché verso il profitto, è una possibilità concreta. Realizzarla richiede tuttavia l’impegno attivo dell’intelligenza umana, basato su una chiara e ampia visione di ciò che sta accadendo e che potrà accadere.

In questa esplorazione critica, il libro non è solo un viaggio nella storia delle idee e delle tecnologie, ma una riflessione sul destino umano in un mondo condiviso con nuove forme di intelligenza. Che siano – come si dice – minaccia o opportunità, gli automi parlanti ci obbligano a un confronto profondo con noi stessi, con il nostro linguaggio, e con la nostra capacità di attribuire significato al mondo.

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Febbraio 2025
Il settore moda, e la necessità di coraggio industriale
Stefano Monti

Nel corso delle ultime settimane, sono state molteplici le riviste che hanno proposto riflessioni legate allo stato di salute del settore produttivo della moda.

Un settore che negli ultimi decenni ha visto moltiplicare nel mondo la propria rilevanza, trasformandosi da icona del bello ad icona del lusso. Grandi gruppi finanziari hanno iniziato ad avviare strategie di investimento importanti, sviluppando strategie di diversificazione, dapprima attraverso la creazione di filiere di produzione del valore distribuite su tutto il pianeta, poi sviluppando attività non caratteristiche, come le strategie di investimento immobiliare, e divenendo così sempre più un simbolo di ricchezza, con l’emersione di veri e propri colossi come LVMH, con fatturati annui multimiliardari, asset fisici (immobili) distribuiti in tutto il pianeta (a fine ’22, la società possedeva circa 5.700 negozi, senza tener conto degli stabilimenti produttivi).

L’ascesa di tali società si fonda, tuttavia, su modelli di business che non sempre agiscono secondo una logica di sviluppo territoriale, e tale condizione può essere soltanto mitigata dagli impegni assunti e condotti in termini di Corporate Social Responsibility (la responsabilità sociale d’impresa, filone con il quale si intende misurare la validità delle aziende non solo secondo i canonici criteri economico-finanziari, ma anche attraverso gli impatti che tali aziende o società sviluppano nel mondo).

Da decenni, infatti, il mondo della moda, con particolare riferimento ai segmenti più ricercati, si basa su una catena di produzione del valore che coinvolge, oltre alle imprese che detengono e distribuiscono i prodotti (i brand), una serie di società di piccole e piccolissime dimensioni, che si occupano della lavorazione di specifiche componenti del prodotto finale, e che a loro volta sono intermediate da altri soggetti il cui lavoro è, in sostanza, coordinare i rapporti tra la società del lusso (che è il soggetto che immetterà nel mercato il prodotto), e la galassia di piccoli e piccolissimi fornitori che concretamente realizzano il prodotto.

In questo meccanismo, tuttavia, si assiste ad una grande differenza di produzione di valore. Senza entrare in dettagli tecnici, è piuttosto nota tale distribuzione. All’apice di tale organizzazione c’è il brand che propone sul mercato un prodotto a prezzi molto elevati, e che le persone acquistano non solo perché tali prezzi esprimono elementi oggettivi (come la qualità del prodotto), ma anche elementi immateriali, che dalla ricercatezza alla esclusività, fino al loro essere “beni di status”, costituiscono un valore aggiunto importante.

Al lato opposto di questa organizzazione ci sono le conoscenze, le competenze, quel “know-how” molto spesso artigianale che è una delle componenti più centrali dell’intero “castello”: tutte le componenti immateriali che influiscono sulla percezione globale del brand e dei suoi prodotti sono infatti paragonabili a degli strumenti “derivati”, che tuttavia si fondando su un “sottostante”, e quel sottostante è, in buona sintesi, l’oggetto che è immesso nel mercato. 

Si tratta di una dimensione piuttosto “razionale”, che tuttavia rischia di condurre a potenziali cortocircuiti quando il valore dei derivati inizia a perdere una reale connessione con i sottostanti su cui sono costruiti.

Tornando all’economia reale, nel nostro Paese ci si sta iniziando a render conto che il settore, per come è costruito oggi, presenta alcune criticità che rischiano di avere impatti significativi.

Si tratta di criticità strutturali, che si basano su prassi ormai consolidate, e che richiederanno pertanto importanti cambiamenti per essere modificate. 

Si pensi ad esempio alla differenza di potere contrattuale esistente tra i vari operatori del settore: da un lato c’è un brand che ha grandissima capacità di spesa, e che non solo determina il valore sul mercato del prodotto, ma anche il prezzo a cui tale prodotto deve essere acquistato, e dall’altro esiste una galassia di piccole e piccolissime realtà territoriali, che spesso fondano la loro intera esistenza sul rapporto di fornitura con un singolo cliente. Da un lato un colosso, rappresentato sul territorio da una figura intermediaria; dall’altro un imprenditore locale che senza quella commessa difficilmente riuscirà a sopravvivere. 

Analizzata all’interno di uno schema economico classico, tale rapporto di forza può sembrare ragionevole, ma perde del tutto la propria logicità se ci si concentra sul sottostante: perché è l’imprenditore locale a generare valore, non l’intermediario, e, sempre ragionando sul sottostante, e quindi sul prodotto materiale che viene immesso nel mercato, nemmeno il brand del lusso.

Vista da questa prospettiva, sarebbe invece logico il contrario di quanto accade: chi genera valore dovrebbe avere un vantaggio competitivo, mentre chi genera operazioni che si basano su quel valore, dovrebbe trovare in una condizione di “dipendenza” infrastrutturale.

Quello che determina quindi questa anomalia del potere contrattuale (che in realtà è visibile in molti settori, non solo quella della moda), è semplicemente “il denaro”.

Questa condizione è una criticità sistemica, che ben si riesce ad arginare fin quando il mercato cresce, ma che alle prime contrazioni inizia a mostrare che l’intera struttura si basa su fondamenta che sono molto fragili. 

E così, come riporta il Fatto quotidiano, emergono casi come Sud Salento S.r.l., una realtà che con i suoi 335 dipendenti non si può propriamente definire minuscola, ma che a fronte di una decisione del proprio committente principale di abbassare i livelli produttivi per rispondere in modo dinamico al calo della domanda dei propri prodotti, non ha trovato altra alternativa che licenziare un terzo dei propri dipendenti. E, sempre come riporta la stampa generalista, questo non è l’unico caso.

A questo punto diviene però necessario fare un passo “indietro”, e mettere ogni cosa nel giusto ordine. La narrazione semplificata che è stata sinora adottata non vuole in alcun modo proporre una visione piramidale in cui il brand è il “re”, che identifica negli intermediari i propri “vassalli”, e di lì a catena valvassori, valvassini e infine gli artigiani come “servi della gleba”.

In ognuno di questi passaggi si crea valore, di cui ognuno beneficia anche sulla base del rischio d’impresa, e delle competenze acquisite non soltanto in una logica di produzione, ma anche in termini di tecnica commerciale, manageriale, finanziaria.

Assumere tuttavia la prospettiva dell’anello più debole della catena è in ogni caso importante per poter comprendere come migliorare il sistema nella sua interezza, senza assumere alcuna posizione ideologica ma ripercorrendo, punto a punto, il percorso che dalla materia prima diviene semilavorato, poi prodotto, poi icona di stile e di lusso.

È una prospettiva con cui il nostro Paese deve fare i conti e per differenti ordini di motivi.

Al gradino più alto c’è la riflessione strategica: le dinamiche che sono state costruite negli ultimi decenni hanno infatti di molto indebolito la struttura del “made in Italy”, che pur rappresentando un valore aggiunto altamente ricercato nel mercato globale, attraverso la strutturazione del mercato viene distorto al punto da tradursi in una posizione di debolezza contrattuale al pari di quanto accada con manodopera a basso costo in Paesi che non godono dello stesso riconoscimento dell’Italia. 

Immediatamente successiva è la riflessione legata alla dimensione industriale: una catena di produzione di questo tipo implica un’aleatorietà importante in termini di stabilimenti produttivi, occupazione, investimenti. Un’aleatorietà che non giova la costruzione di percorsi di natura finanziaria di bassa o media dimensione. Sarebbe infatti incauto, per un piccolo investitore, allocare parte dei propri capitali in un’industria di produzione tessile che rischia di chiudere i battenti se, per qualsiasi motivo, dovesse verificarsi una riduzione della domanda di beni di lusso in Giappone o in Cina. 

Tale condizione comporta ancora un’altra riflessione, che è quella economica collettiva: al di là degli impatti sulla vita economica delle persone (precarietà significa riduzione dei consumi e degli investimenti ed incremento, quando possibile, della sola componente di risparmio), e lasciando fuori dalla riflessione tutte le implicazioni sociali, relazionali e anche culturali (inteso come cultura di un territorio che si riflette sulla vita dei singoli), c’è anche la dimensione del sostegno a quei dipendenti che, d’improvviso, rischiano di perdere il proprio posto di lavoro, e che coerentemente con i principi su cui si basa il nostro sistema Paese, vengono sostenuti anche attraverso il ricorso a risorse straordinarie messe in campo dal settore pubblico.

A fronte di tali considerazioni, quindi, piuttosto che esser pronti, come collettività, a sostenere il comparto nel caso di crisi, forse sarebbe più corretto iniziare a riflettere su come sostenere il comparto per svilupparne la solidità, la crescita, lo sviluppo.

Al centro del tavolo, probabilmente, non dovrebbero esserci le trattative per i licenziamenti, ma lo sviluppo di nuove società, nuovi brand, in grado di distribuire in modo più equo la ricchezza prodotta, e che siano in grado di definire anche un sistema del made in Italy più forte, in cui alle dimensioni della mera produzione si associno anche quelle del disegno, della progettazione, e infine della valorizzazione di tali prodotti.

Quest’ultima riflessione apre poi le porte ad una connessione che non sempre pare essere presa in considerazione quando nel nostro Paese si parla di “industria culturale e creativa”. L’Italia, con i suoi Musei, la sua Storia, la sua Arte, il suo Design, e tutto ciò che siamo soliti associare al nostro Paese quando ne vogliamo tessere le lodi, oltre ad avere ereditato tali patrimoni, ha anche maturato, in alcuni settori, una grande capacità di valorizzarli.

Tale competenza (che dal Colosseo al Cristo Velato, dagli Uffizi fino a Brera) altro non è che la capacità di creare valore aggiunto che rende inestimabile un patrimonio che siamo soliti dare per scontato rappresenti un incontestabile tesoro per l’umanità.

Malgrado tale affermazione sia sostanzialmente corretta, è anche giusto ricordare che non è sempre stato così: quasi tutti i nostri monumenti, nella storia, sono stati percepiti in modo molto differente. Lo stesso Colosseo, che oggi è simbolo indiscusso del nostro Paese, ha conosciuto momenti di alterna fortuna. 

Riconoscere la capacità di creare valore immateriale da elementi materiali è un tassello importante per il nostro Paese, non soltanto per un riconoscimento storico, ma come competenza distintiva che, come collettività, dobbiamo sempre più imparare a sviluppare.

Il sistema della moda, come espressione delle nostre industrie culturali e creative, non può certo essere stravolto, ma può essere arricchito, consolidato, sviluppato. Occorre fantasia, modelli di business innovativi, capacità di dialogare con investitori, volontà anche politica di sostenere un processo di riconfigurazione industriale, e soprattutto coraggio.

È però prioritario avviare una riflessione in questo senso. Perché un euro speso per sostenere lo sviluppo del Paese, basato su competenze distintive e su progettualità concrete, male molto ma molto di più di un euro speso per evitare che le crisi colpiscano i dipendenti.

Non che questi ultimi non siano dovuti, anzi. Ma piuttosto che star lì a medicare le ferite, sarebbe più utile costruire delle armature più pesanti.

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Febbraio 2025
Opinioni di un cane. Una serie a quattro mani
Guido Vitiello, Ilaria Gaspari

Per strada ogni tanto qualcuno mi ferma e chiede: ma che razza è? Colpisco, modestamente. Nelle risposte sento dire meticcio, bastardino; non sono parole di mio gradimento. Io direi piuttosto che sono un cane antologico, poiché ho preso il meglio da diverse razze. Le mie origini rimangono avvolte nella leggenda, e non ci sono prove certe della mia provenienza: ma le prove certe sono per gli incompetenti. La leggenda mi vuole figlio, da parte di madre, di una sfolgorante golden retriever con l’allure di una diva; da parte di padre, di un focoso piccolo corgi che non ebbe paura di arrampicarsi pur di assicurare alla sua progenie il futuro di avvenenza che mi sto infatti godendo. Dal ramo materno ho preso l’inclinazione per la vita comoda, e il gusto un po’ vezzoso per l’eleganza e la bellezza. Da quello paterno, un tratto di eccentricità tipicamente britannico, unito a una certa ruvidezza selvatica.

Per questo, capirete che quando mi trovo di fronte un cane in cappottino, in maglioncino o in paltò, provo sentimenti misti: una schietta ammirazione per la squisita fattura di capi che sarebbero senz’altro piaciuti alla mamma, ma anche un gran fastidio per l’indulgere dei miei simili alle mollezze della vita addomesticata. E questo, naturalmente, è il segno di papà.

Ora, mi è capitato di recente di dover rivedere le mie opinioni sulla questione dell’abbigliamento canino. È successo perché ho letto un libro. Vi chiederete, ma i cani leggono libri? Ebbene sì, se hanno desiderio di ampliare le loro vedute, i cani leggono libri. Naturalmente, libri che parlino di cani, in belle edizioni annusabili.

Il libro di cui parlo è Dries, i giorni del pensiero cagnolino. Ora, non saprei quali altre forme di pensiero esistano oltre a quello cagnolino, quindi mi è venuto anche il sospetto che si tratti di un gioco di parole. Dries è, come me, un cane antologico. Nel libro, il signore che si prende cura di lui dimostra di volergli un gran bene, il che gli fa onore. Racconta delle molte cose che Dries gli ha insegnato, e ho apprezzato anche questo: spesso gli umani sono proprio duri di comprendonio, e addestrarli è disperante. Comunque, salta fuori che questo signore era contrario come me all’abbigliamento per cani, finché non ha capito che Dries, che è mingherlino e ha il cuore molto vicino al terreno perché è alto un soldo di cacio, d’inverno sente freddo e trema tutto. Così ha deciso, dopo molti tentativi di allacciargli cappottini che rimanevano pendenti e scalcagnati, di infilargli un maglione blu a collo alto, molto elegante. Io freddo non ne sento mai, perché papà veniva dalla brughiera e mamma mi ha regalato una pelliccia fin troppo calda, alle latitudini a cui vivo: pensate che è la stessa che usano i nostri parenti sulla costa del Maine, dove vive il ramo statunitense della famiglia. Ma da quando ho letto di Dries e del suo maglioncino blu, mi sono detto che alla fine non c’è niente di disonorevole, per un cane, ad approfittare di questi ritrovati del progresso. D’altronde il cane è la misura di tutte le cose, di quelle che abbaiano in quanto abbaiano e di quelle che non abbaiano in quanto mordono.

Emilietti

Emilietti

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Febbraio 2025
Claudio Calvaresi

Come usare i processi di partecipazione nelle politiche? La partecipazione serve a produrre conoscenza utilizzabile, come risultato dello scambio tra diversi tipi di sapere; a ridefinire i problemi, modificare le poste in gioco nei processi decisionali e, in definitiva, alterare gli schemi di interazione degli attori; a favorire un incremento della razionalità degli attori e generare apprendimento sociale.

È questa, in sintesi, l’interpretazione della partecipazione proposta da Paolo Fareri, ricercatore, analista e progettista di policy, in un saggio del 1998 dal titolo “Rallentare”, un testo riferimento per chi si occupa di politiche urbane1. La sua tesi è che la partecipazione è uno strumento per la costruzione di politiche efficaci, cioè adeguate al problema pubblico che intendono trattare. La partecipazione – secondo Fareri – non va intesa come mezzo per costruire il consenso tra gli attori e raggiungere una decisione condivisa. Ciò corrisponderebbe a ridurre le sue potenzialità a obiettivi di efficienza decisionale. È piuttosto uno strumento per far emergere punti di vista non considerati, cornici di senso non previste, mettendo al lavoro l’«intelligenza della democrazia». La partecipazione è una strategia di apertura dei processi decisionali per sostenere la costruzione di soluzioni capaci di comprendere la complessità e l’articolazione delle posizioni degli attori. Non prova a comporre interessi e preferenze diversi, ma serve a far emergere, nell’interazione, nuove definizioni del problema. Il passaggio è da problem solving a problem setting; da obiettivi di raggiungimento dell’accordo tra gli attori a obiettivi di generazione di innovazione. 

In questo senso, la partecipazione è un “evento locale”, una rottura nel corso standard dei processi decisionali, un dispositivo per la costruzione di soluzioni che privilegiano la sperimentazione più che la convergenza. È condizione per il cambiamento, perché corrisponde a una sorpresa; è fonte di anomalia e dunque promessa di innovazione. 

Gli anni in cui usciva il saggio erano caratterizzati da una ripresa di interesse verso la partecipazione nei piani e nei progetti urbanistici. Era la fase che Fareri definì della «partecipazione progettata», quell’insieme di metodiche e pratiche professionali per il coinvolgimento degli stakeholder. La partecipazione, progettata da nuove figure tecniche che si presentavano come “facilitatori”, era un’offerta di apertura dei processi decisionali da parte del sistema politico alla società. Con il consueto acume, Pierluigi Crosta vi lesse un effetto (solo a prima vista paradossale) di de-politicizzazione. Le pratiche sociali di produzione del “pubblico” garantite dai professionisti della partecipazione erano state rese controllabili e prevedibili, diminuendo la loro capacità di produrre apprendimento, che è sempre eventuale. In questo senso, avevano smarrito il loro valore politico. 

Siamo oggi in una nuova fase. Sono infatti numerosissime le iniziative, promosse da cittadini, gruppi informali, associazioni, che affrontano problemi (o opportunità di intervento) di natura collettiva. Sono politiche pubbliche “di fatto” e i loro protagonisti sono attori di policy. In questo scenario, la partecipazione progettata mostra la corda, perché a spingere alla mobilitazione è soprattutto realizzare cose, più che contribuire al miglioramento della decisione pubblica.

Dunque, quale dovrebbe essere oggi la posizione utile da assumere? In che modo rendere efficaci queste politiche pubbliche implicite? È un passaggio stretto, sul crinale tra accompagnamento e abilitazione, tra sostegno e rimozione dei disincentivi e delle barriere che bloccano l’esercizio del protagonismo. È bene saper progettare, anche «per evitare di essere progettati», ma neppure progettare oltre il necessario. Occorre invece dare agio all’imprevisto e non ridurre l’interazione a tecnica di design. La soluzione non è un canvas ben fatto: bisogna conquistare spazio, fornendo qualche attrezzo per coltivarlo e magari espanderlo. È necessario accompagnare gestendo la prossimità, disponendosi alla giusta distanza, sollecitando «riflessione nel corso dell’azione», reframing e auto-sovversione. Non più facilitatori, ma knowledge broker o amici critici. 

Essere a fianco, favorendo circuiti virtuosi tra education e advocacy, nelle città, nelle periferie difficili, nelle aree di margine. Fornire riconoscimento, lavorare nel e con il conflitto, garantire cura del presente e protezione sul futuro, consapevoli che il modello emergente è il decreto Caivano. 

Di questi argomenti, discuteremo martedì 11 febbraio, h.18, presso Avanzi, in via Ampere 61/A, a Milano in un confronto tra chi scrive e Gabriele Pasqui, docente di Politiche Urbane al Politecnico di Milano, che al saggio di Paolo Fareri ha dedicato di recente un commento profondo e suggestivo. 


  1. Il saggio è poi uscito all’interno di una raccolta, pubblicata postuma, con lo stesso titolo: P. Fareri (2009), Rallentare, Franco Angeli, Milano. ↩︎

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Febbraio 2025
La memoria rimossa della “spagnola”
Gabriele Frasca

La cosiddetta “spagnola” ebbe una caratteristica che la distingue ancora oggi da molte altre epidemie e pandemie: colpì in maniera drammatica la fascia di età tra i 20 e i 40 anni, con un picco statistico di mortalità, sia per gli uomini che per le donne, intorno ai 27 anni. Mercoledì 12 febbraio sarà disponibile in libreria L’influenza della guerra (Luca Sossella editore) un volume del laboratorio Soldado de Nápoles a cura di Gabriele Frasca. Qui una sezione di approfondimento con audio e immagini. Di seguito un testo di Gabriele Frasca.

Da quando ne ho memoria, e dunque per intenderci dagl’inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, non c’è stata Vigilia di Natale della mia infanzia che non prevedesse lo stesso copione. In realtà a seguirlo puntualmente ci pensava mio padre, il cui umore, appena tornato da lavoro, restava tutto sommato buono, fin quando continuava ad armeggiare con l’albero che secondo i piani avrebbe dovuto completare da minimo una settimana. Era metodico nell’allestimento dell’abete, pur continuando a preferire il più tradizionale presepe, e un vero virtuoso della sincronizzazione delle luci e degli addobbi luminosi, ma tendeva comunque di natura a procrastinare ogni impegno. Finiva così al solito col ridursi all’ultimo momento, per il divertimento mio e di mia sorella, che sulla carta avremmo dovuto aiutarlo ma che eravamo neanche a dirlo solo d’intralcio. Comunque, pur con qualche maledizione fra i denti, si arrivava finalmente a ergere il pinnacolo, entravano in azione le luci intermittenti, e – sissignore! – era proprio Natale. Quando poi stavamo per cominciare il cenone, coi pochi parenti che si univano a noi in quelle occasioni, il clima era decisamente allegro. Ma durava poco. Nemmeno si metteva a tavola, e mio padre s’incupiva, senza che ci fosse alcun bisogno di sollecitarlo per rivelarne la ragione. «In questo stesso giorno, e quasi a questa stessa ora», diceva ogni volta come sprofondando di nuovo in un dolore irrisarcibile, «tanti anni fa, è morta mia mamma, lasciandomi orfano a soli 15 mesi». E poi, con un tono di voce tutto particolare – una sorta di sussurro inorridito che negli anni ho sentito spesso risuonare in persone più vecchie di lui quando evocavano lo stesso aggettivo sostantivato –, aggiungeva: «La “spagnola”».

Mio padre era nato nell’ottobre del 1917, tre giorni prima di Caporetto, e sua madre, mia nonna, ancora molto giovane, sarebbe morta il 24 dicembre dell’anno dopo. Non ebbi mai modo di chiederglielo, né credo che mio padre fosse o meno a conoscenza di un’eventuale nuova gravidanza di sua madre, circostanza che l’avrebbe resa più esposta alle conseguenze estreme dell’infezione, se la “spagnola” risultava letale come poche cose al mondo per le donne incinte, come se «la natura», per dirla con le parole di Alberto Lutrario, il Direttore Generale della Sanità Pubblica di quegli anni remoti, avesse «scelto questa via per attenuare lo squilibrio dei sessi determinato dalla guerra».  Come che sia, l’atmosfera natalizia spariva di un sùbito, mentre mio padre si perdeva nelle sue memorie e un’ombra di tristezza ci avvolgeva tutti. Sarà ovviamente per questo che anche per me – testimone di un testimone, e dunque l’ultimo in grado d’intestarsi un po’ di storia orale – il termine “spagnola” ha significato qualcosa, ha fatto parte della mia vita, come il ricordo di quella terribile epidemia che nell’ultimo anno della cosiddetta Grande Guerra, e anche nell’immediato dopoguerra, più dello stesso conflitto aveva portato il lutto praticamente in ogni famiglia.

La conta delle vittime, il cui numero apparve comunque da sùbito spropositato, non potrà mai raggiungere una cifra che possa essere ritenuta ufficiale; e non soltanto perché i dati proposti per l’Africa e l’Asia risultano inficiati dall’inadeguatezza dei sistemi di rilevazione e archiviazione del tempo, ma anche perché persino in società ordinate con servizi medici e statistici ben consolidati, come l’Europa e l’America settentrionale, tutto dipendeva dalle diagnosi mediche individuali, che potevano ascrivere i decessi a cause diverse. I morti di polmonite del periodo, innanzitutto, ma anche quelli di tubercolosi, risultano ovviamente indiziati di nascondere da qualche parte il volto violetto del virus. Senza dimenticare che l’influenza all’epoca non rientrava fra le malattie sottoposte all’obbligo di denuncia, e quindi il più delle volte spariva dalle schede necrologiche. Sta di fatto che però proprio in Italia i numeri cominciarono a circolare assai per tempo, forse persino prima che in altre nazioni, grazie all’economista e statistico mantovano, ma di formazione universitaria napoletana, Giorgio Mortara, che pubblicò già nel 1925 per la crociana Laterza il saggio La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra. Le cifre lì ci sono tutte, persino più alte di quelle che successivamente sarebbero state fornite su scala internazionale; anche se in qualche modo si districano a fatica, non tanto dal numero dei caduti nel conflitto, quanto piuttosto in àmbito civile da una mortalità complessiva che l’ovvio propagarsi della cosiddetta “triplice endemia” (tubercolosi, sifilide e malaria), e soprattutto gli stenti dovuti a una politica alimentare da parte del Regno d’Italia a dir poco avventata, aveva incrementato non poco. Comunque per Mortara, che a lume di statistica si basava sulla stima dell’eccedenza di decessi tra i civili negli anni in questione, le vittime di “spagnola” nella nostra penisola fra l’ottobre del ’18 e la primavera del ’19 sarebbero state addirittura 530.000, che diventavano facilmente 600.000 aggiungendovi i morti nei comuni invasi dagli austriaci dopo Caporetto (da cui non erano giunti conteggi affidabili) e naturalmente i prigionieri di guerra. Erano cifre spaventose – e lo sono anche quelle più contenute proposte attualmente, che oscillano fra le 350.000 e le 410.000 unità –; ma erano se non altro qui da noi alla luce del sole, sia pure nella penombra di un volume per molti versi innovativo. E se la guerra, nelle parole di Benedetto XV, era già stata definita il 1° agosto del 1917 un’«inutile strage», quale espressione, con quelle cifre, avrebbe dovuto rendere conto della ”spagnola” a conflitto ultimato? Massacro? Genocidio? Olocausto? E soprattutto, se nelle parole del papa non si può che leggere un rimprovero a tutte le classi dirigenti delle nazioni coinvolte, chi avrebbe dovuto mai essere ritenuto responsabile di quella vera e propria sconsiderata ecatombe che faceva impallidire la stessa «inutile strage»? Il fato? L’ignoranza? Dio? 

I numeri, si diceva, altrove ci hanno messo del tempo per divenire pubblici, rimanendo per lo più a disposizione della consorteria – in ascesa durante tutto il Novecento – degli epidemiologi. In America il primo, e per molto tempo l’unico, a provare a fornirne, fu il batteriologo Edwin  Oakes Jordan, che nel suo volume del 1927 Epidemic Influenza, apparso per l’American Medical Association, avrebbe proposto un numero complessivo di decessi su scala mondiale di 21 milioni e seicentomila morti – anzi, per l’esattezza, per ripetere i suoi calcoli chissà in base a quali informazioni tanto puntuali: 21.642.283 – , una cifra alla luce dei fatti decisamente al ribasso, che sarebbe stata però ritenuta attendibile per circa sessantacinque anni. Il che voleva dire che pur non essendoci in America, come altrove, famiglia che non aveva i propri lutti, nessuno chissà perché era in grado di fare due più due. Va anche detto che persino nel 1991 gli epidemiologi americani Patterson e Pyle si limitarono in verità solo a ritoccare la cifra totale, portandola a 30 milioni, e continuando a sottostimare il numero delle possibili vittime nelle varie parti del mondo.

È stato dunque solo a ottant’anni esatti dall’evento che la vera portata della pandemia si è manifestata per quello che era, in virtù dei nuovi conteggi a opera di Niall Johnson e Jürgen Müller, che portarono il numero delle vittime a 50 milioni, sebbene il geografo australiano e lo storico tedesco si sentissero immediatamente in dovere di avvertire che anche quel dato poteva risultare sottostimato, addirittura del cento per cento. E finanche di più, a tenere dietro alla caute proposte dei loro interventi successivi. Il che faceva intravedere un numero di morti inimmaginabile. Solo in America erano decedute almeno 675.000 persone, col rischio che tante altre fossero sfuggite alle registrazioni. Secondo una tale stima al ribasso, il numero delle vittime della “spagnola” negli Stai Uniti sarebbe comunque più alto dell’insieme dei soldati americani caduti nelle due guerre mondiali, in Corea e in Vietnam. E se per davvero ci si limita a raddoppiare la cifra minima proposta da Johnson e Müller, un simile raffronto lo si può facilmente portare a livello globale. Com’era stato possibile allora che una tale ecatombe fosse per tanti anni finita nelle pieghe della storia, e sotto il tappeto della storiografia?

Ora: sarà pure vero che «la simbiosi fra storia e memoria è delicata in tutte le società», come ha recentemente puntualizzato Jay Winter; ma resta comunque sospetto che l’emozione della “spagnola” sia rimasta viva nelle storie familiari, per lo meno per tre generazioni, mentre gli archivi, che sono sempre lì a disposizione, sono stati invece a bella posta disertati, e sin da sùbito. Mortara era un economista che credeva nel metodo statistico, e lo ha applicato nel corso del tempo a tanti argomenti anche scabrosi, come l’uso dell’alcol o le unioni al di là del matrimonio, senza temere eventuali ricadute politiche o reprimende moralistiche; Jordan invece un epidemiologo, che in quanto tale non aveva paura di affermare che, a fronte dell’origine ignota dell’infezione, era stato sicuramente l’affollamento dei campi militari a propagarla e a renderla tanto mortale. E se è per questo, un esame ravvicinato dell’intera questione potrà riservare non poche sorprese. Non ultima la constatazione che nell’ambiente medico tutto si può dire tranne che l’argomento sia stato calcellato. Anzi: come ebbe a dichiarare nelle sue memorie “atipiche” Frank Macfarlane Burnet – il microbiologo australiano che fu insignito del Nobel nel 1960 per i suoi rivoluzionari studi sull’immunizzazione, e che nell’agosto del 1919 era stato colpito da una forma lieve dell’influenza –, per lui e per molti altri ricercatori l’obiettivo di isolare la causa della “spagnola” fu lo stimolo principale per lo meno per un quindicennio. Senza dimenticare quanto la pandemia del 1918-1919 spicchi nelle storie mediche dedicate all’influenza, a partire da quella del 1942 che si deve proprio a Burnet e ad Ellen Clark. Tutto ciò contribuisce a creare il grande  paradosso della “spagnola”, quello di essere cioè un evento scientificamente ben documentato, ossessivamente presente nelle memorie familiari, come mostra il mio aneddoto, e comunque per molto tempo dimenticato dalla società, dalla storiografia ufficiale e apparentemente persino dalle espressioni artistiche, a meno di non tornare a frequentarne il rimosso, cui quasi per suo stesso statuto l’arte dà forma.

Perché allora questa congiura del silenzio? La nascita del Laboratorio, cui alla fine abbiamo dato il nome di “Soldado de Nápoles”, e che in circa tre anni di ricerche e cadenzate riunioni ha prodotto i saggi contenuti ne L’influenza della guerra, è stato il tentativo di dare una risposta a questa domanda.

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Febbraio 2025
Recuperare la tradizione e il valore delle scuole civiche
Stefano Monti

Non è semplice orientarsi nel vasto, eterogeneo e talvolta discontinuo universo dell’istruzione in Italia, che si divincola da progetti avveniristici in stile PNRR fino a carenze strutturali che spesso rendono impossibile la presenza di una “biblioteca scolastica” all’interno degli istituti.  Le grandi riforme proclamate negli ultimi anni non si sono sinora mostrate in grado di far fronte alle aspettative, e di fronte ad una platea di studenti recanti esigenze informative sempre nuove, il nostro sistema di istruzione si presenta ancora eccessivamente rigido, popolato da professionisti che presentano un’età media di più di 50 anni (dato 2010 – 2019 – fonte Education at a Glance – OECD).

Se modificare tale sistema nel breve periodo risulta nei fatti impossibile, allora è chiaro che diviene centrale la possibilità di “integrare” il sistema di istruzione formale con percorsi, aggiuntivi, che sappiano ben dialogare con le istituzioni culturali del territorio e anche con le stesse istituzioni scolastiche.

Un sistema d’offerta “culturale e di tempo libero” che nel tempo ha cessato di esistere, ma che per molti anni ha rappresentato una dimensione importante della formazione degli individui, e che potrebbe tornare ad avere una propria centralità nella vita degli individui, contribuendo altresì al progressivo riposizionamento del concetto di collettività.

I grandi cambiamenti che si sono susseguiti nel corso degli ultimi venti anni hanno generato, senza dubbio, una sempre maggiore parcellizzazione sociale, sviluppando, in tutte le fasce d’età, un consumo del tempo libero individuale, che, necessariamente, ha generato una tendenziale riduzione dedicata al tempo libero collettivo.

Parallelamente, si è altresì assistito alla formazione di un’offerta formativa specifica, da sempre presente nel nostro territorio: se si pensa all’età scolastica, e soprattutto l’età che copre quelle che un tempo si chiamavano scuole elementari, l’offerta privata in questo senso è piuttosto ricca in quasi tutto il territorio: lezioni di musica, sport, fino ai sempre più richiesti corsi di lingua.

Ampliando la riflessione, altrettanto diffuse sono le organizzazioni che si rivolgono principalmente alla silver-age, con l’offerta di escursioni, gite, percorsi culturali, corsi di teatro, gruppi di lettura, o attività legate più propriamente al benessere, come percorsi di ginnastica, yoga, e altre offerte analoghe.

Malgrado questa estensione abbia in qualche modo fatto sì che la domanda e l’offerta di servizi dedicati al tempo libero riuscissero ad incontrarsi, la dimensione che ad oggi risulta essere pienamente soddisfatta è quella prettamente “individuale”, che si sviluppa, nei fatti, attraverso una specifica segmentazione degli interessi.

È una dinamica che è da un lato figlia della tendenziale specializzazione dei saperi, le cui espressioni raggiungono il culmine più alto nelle tecniche di profilazione degli algoritmi social, che spesso inseriscono gli utenti in veri e propri “funnel”, termine con il quale si designa, nel marketing, una serie di contenuti pertinenti agli utenti in base al proprio comportamento, condizione che è ottimale se si intende vendere un dato prodotto o servizio, ma piuttosto inaridente quando tale tecnica viene utilizzata su contenuti informativi, opinioni, idee.

Nell’attuale offerta contenutistica, sempre più pervasiva e sempre più individualizzata, lo sviluppo del tempo libero si dipana attraverso una sempre più attenta focalizzazione delle attività, che spesso si riverberano non solo nell’insieme delle conoscenze personali, ma anche nelle dimensioni più prettamente sociali.

Ciò conduce, inevitabilmente, anche ad una polarizzazione della socialità, che tuttavia genera una collettività segmentata, con pochissimi spazi e opportunità di confronto.

Tale esigenza, che pur inserendosi all’interno del contesto del tempo libero e che quindi ben si colloca all’interno di quello scenario di domanda e di offerta di servizi ad esso dedicati, differisce tuttavia da quella dimensione pubblica e collettiva cui il tempo libero in qualche modo assolveva.

Tale dimensione, che dunque si riferisce alla collettività nella sua interezza, è tale da rendere non del tutto inadeguato l’utilizzo di tecniche ascrivibili alle politiche cross-culturali (o transculturali nella traduzione più corretta), che pur nate nel contesto anglosassone per avvicinare persone afferenti a culture molto differenti tra loro, in una dimensione ridotta e adeguata, potrebbero favorire la formazione di un confronto e auspicabilmente ad un dialogo tra persone che, pur presentando differenze culturali inferiori rispetto a quelle riscontrabili in un gruppo multietnico, non hanno modalità di relazione.

In questo senso, val forse la pena ripensare ad una tradizione antica del nostro Paese, e vale a dire al rinnovato ruolo che, in questo contesto, possono acquisire le scuole civiche. 

Nel tempo, le scuole civiche hanno modificato spesso il proprio ruolo nel generale universo formativo del nostro Paese: da scuole corporative a complemento del sistema pubblico, fino a divenire scuole di specializzazione e infine scuole dedicate ad “arti e mestieri”.  Come indicato in precedenza, parte del proprio ruolo è oggi assolto da enti privati riconosciuti, sia a livello regionale che a livello nazionale, che erogano corsi di formazione spesso professionalizzanti, o da altri enti, pubblici, privati o del terzo settore, che svolgono attività più prettamente dedicate al tempo libero. Ciò pone dunque le scuole civiche in una condizione di tendenziale precarietà di senso, imponendo ancora una volta un ripensamento per questo tipo di istituzione.

Un ripensamento che potrebbe prendere le mosse proprio dalle esigenze collettive di dialogo e confronto all’interno della comunità, e dalla necessità di sviluppare una dimensione integrata dell’offerta di servizi dedicati alla formazione extra-istituzionale e al tempo libero.

In questo senso, un primo passo potrebbe essere rappresentato dall’identificazione di luoghi di comunità, vale a dire spazi, distribuiti in modo uniforme nel tessuto urbano, dedicati all’aggregazione dell’attuale offerta privata, e alla definizione di punti di riferimento per la socialità cittadina.

A seguito della grande bolla dei centri polifunzionali, restaurati con fondi UE e poi spesso tornati in condizioni di sub-utilizzo, potrebbe dunque ipotizzarsi una strategia di valorizzazione degli immobili che, pur prevedendo una dislocazione sub-cittadina venga coordinata da una visione centrale, consentendo così il perseguimento di politiche di gestione dimensionali efficaci in termini di offerta ed efficienti in termini di gestione.

In tali luoghi, la pubblica amministrazione potrebbe rendere disponibili slot orari dedicati alle organizzazioni che già erogano formazione in ambito privato, prevedendo delle forme di locazione non proibitive, e basate sulla condivisione di intenti (e di costi).  A partire da tali luoghi, l’Amministrazione potrebbe poi iniziare a creare sinergie con altre istituzioni culturali, come le biblioteche, i musei, gli archivi, le aree archeologiche, e ancora con soggetti privati pur attivi nel segmento culturale, come le gallerie, le librerie, i negozi di giochi e videogiochi.

Tale condizione permetterebbe un accentramento dell’offerta, e permetterebbe altresì la possibilità di creare “nuovi corsi”, spesso non sostenibili in ambito privato, ma di cui si sente vivamente l’esigenza. 

Si pensi, ad esempio, a lezioni sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale, tenute da professionisti del settore, o allo sviluppo di corsi di istruzione finanziaria (nome in uso per questo genere di corsi, ma probabilmente da modificare), o di economia domestica (naming altrettanto modificabile). Corsi introduttivi di programmazione applicata (dove non si impara la “programmazione” ma si impara ad usarla). Corsi di storia locale, e via discorrendo.

Tutti questi corsi, così specializzati, è difficile possano raggiungere un target specifico a livello di quartiere.

Prevedere una gestione centralizzata, a fronte della quale poter prevedere anche “tariffe in abbonamento”, potrebbe consentire di raggiungere un target sufficientemente ampio di persone, così come consentirebbe una programmazione delle lezioni che circuiti nelle varie scuole civiche della città (in caso di città di medio-grandi dimensioni), così da facilitare la partecipazione di tutti i cittadini.

Soprattutto, la possibilità di ospitare, all’interno dello stesso luogo, corsi ed iniziative rivolte a target così ampi di persone, permetterebbe la gestione di servizi aggiuntivi (caffetteria, ecc.) che potrebbero incrementare la sostenibilità dell’iniziativa, e la creazione di spazi condivisi, durante i quali persone molto differenti tra loro per estrazione, età ed interessi, inizierebbero banalmente a “salutarsi”, a “riconoscersi”. 

L’Italia investe in istruzione e in formazione quantitativi di denaro molto ingenti. Ne investe altrettanti in gestione degli immobili in disuso. Ne investe in politiche sociali attive per far fronte ai rischi dell’isolamento sociale.

La costituzione di una rete di centri di questo tipo potrebbe favorire lo sviluppo di tantissimi elementi: dalla connessione tra persone (che nei centri medio piccoli spesso agevola anche i processi di Matching tra domanda e offerta di lavoro), alla definizione di percorsi in grado di sviluppare competenze che, nell’attuale sistema scolastico, è sicuramente possibile erogare, ma con costi davvero molto elevati.

Condizioni che probabilmente, potrebbero rendere effettivamente utile ripensare al ruolo delle scuole civiche, e sviluppare, su base rigorosamente locale, degli interventi di sperimentazione concreta.

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Gennaio 2025
Fra quattro anni parleremo ancora degli USA come di una democrazia?
Dario Petrelli

Beh, insomma, lo sapete: durante il suo intervento all’Inauguration Day della Presidenza Trump, tenutosi il 20 gennaio alla Capital One Arena di Washington, Elon Musk ha fatto il saluto romano davanti a una platea in festa. Due volte. Ora, come sempre accade quando una figura di alto profilo fa o dice qualcosa che in teoria non si dovrebbe fare o dire, c’è stato chi ha smentito. Tipo Andrea Stroppa ovviamente, “il referente italiano di Musk”, che ha argomentato come la gestualità del magnate sudamericano sia condizionata dall’autismo da cui è affetto. In questo pezzo, però, il sottoscritto darà per certa la volontarietà del gesto da parte di Musk, un po’ perché altrimenti non potrei scriverlo, e un po’ perché – ammettiamolo – alla storia che non l’abbia fatto a posta non ci crede nessuno. Nemmeno Stroppa, direi, a giudicare dal post (poi cancellato) in cui esaltava il gesto di Musk inneggiando al ritorno dell’Impero Romano.

Posto allora che il First Buddy l’abbia fatto volutamente, ciò che mi preme davvero capire è: ma perché l’ha fatto? Potrebbe sembrare una domanda stupida, e magari lo è, ma io ve lo giuro: più ci rifletto e meno ne vengo a capo. Analizzando la cosa da un punto di vista comunicativo possiamo supporre che Musk abbia semplicemente fatto ciò che sa fare meglio, e cioè il troll. Con un fine, ovviamente, che poi è sempre lo stesso quando si ha a che fare con la strategia comunicativa della destra contemporanea (americana e non): incendiare il dibattito pubblico e incanalare scientemente l’attenzione su qualcosa, dirottandola da qualcos’altro. In questo caso, Musk avrebbe attirato l’attenzione di stampa e opinione pubblica su di sè per distoglierla dalle iniziative pratiche che la nuova Presidenza ha già preso: ad esempio, per citare solo le più gravi a mio parere, l’uscita degli USA dal trattato sul clima e la grazia concessa agli assaltatori di Capitol Hill.

Questa è la prima risposta che che m’è venuta in mente, ancor prima di dirmi: «Ehi, forse Musk è semplicemente, davvero, un nazifascista». Tuttavia, se anche il saluto romano fosse stato fatto per una ragione principalmente comunicativa e strategica, mi sono accorto che la domanda iniziale resterebbe inevasa. O comunque non del tutto evasa, insomma. Cioè, ok, diciamo pure che l’abbia fatto per trollare; ma perché proprio il saluto romano? Voglio dire, con tutte le cose che poteva fare per attirare l’attenzione, proprio questa doveva scegliere? Di seguito allora riporto alcune ipotesi premettendo che non sono necessariamente tutte serie, ma di certo nessuna è particolarmente rassicurante.

Ipotesi 1: «Ehi amico te l’ho già detto: Musk è semplicemente, davvero, un nazifascista».

L’ipotesi più intuitiva di tutte: l’ha fatto perché ci crede davvero. Questa tesi, del resto, sarebbe supportata da più elementi: Musk che approva post antisemiti, Musk che sposa tesi del suprematismo bianco, Musk che endorsa pubblicamente AFD e ogni partito di ultradestra europeo… Insomma, diciamo pure che negli ultimi anni il buon Elon le ha provate tutte per farci capire quanto apprezzi certi estremismi, e cioè tanto, salvo poi guardarsi bene dal dichiararsi apertamente fascista o nazista. Come tutti i politici di ultradestra che ambiscono a mantenere un vasto consenso elettorale, infatti, ha sempre mantenuto una semi-ambiguità sul tema e ha continuato a farlo anche dopo l’intervento alla Capitol One Arena, con un post enigmatico su X in cui ha parlato di “sporchi trucchi” dei suoi avversari.

Questa ipotesi potrebbe essere corretta come non esserlo, al momento non possiamo dirlo con certezza. Del resto, il talento di un bravo troll si vede proprio in quello: nella capacità di rendersi indecifrabile. A ben vedere, poi, che lui sia davvero fascista o meno non è davvero rilevante: la gravità del gesto e la pericolosità delle sue conseguenze rimangono le stesse in entrambi i casi.

Ipotesi 2: vuole farne il prossimo meme coin

Il secondo mandato Trump come un susseguirsi ininterrotto di meme coin da lanciare sul mercato delle criptovalute. Se quelli di Trump e Melania sono stati i primi, il prossimo – a rigor di logica – dovrebbe rappresentare proprio Elon Musk. D’altro canto, questa presidenza è destinata o no a essere la più turbocapitalista che abbiamo mai visto? Io credo di sì e quindi immagino che vorranno spremere soldi da qualsiasi cosa, compresi i momenti più memabili. Visto in quest’ottica, l’Inauguration Day allora ha costituito l’occasione perfetta per ispirare più di un meme coin della grande squadra di alleati e sostenitori di The Donald. Elon come al solito è stato il mattatore dell’evento, esibendosi a più riprese in pose ed esultanze bizzarre, a dir poco over the top, ma anche gli altri giganti della Silicon Valley meriterebbero il giusto riconoscimento. Del resto, hanno mostrato una prontezza encomiabile nell’aderire senza riserve alla visione politica del nuovo Presidente. In particolare, l’immagine di Zuckerberg che sbircia la scollatura di Lauren Sanchez con suo marito Bezos accanto, beh, sembra quasi fatta a posta. Personalmente vedrei benissimo anche un meme coin che raffiguri Meloni e Milei che scherzano insieme: credo possa essere una buona occasione per celebrare quella che, accidenti, sembra proprio una bella amicizia.

Nonostate tutti questi sforzi per bucare lo schermo, però, penso che niente potrà mai superare in memabilità il bacio mancato, un momento storico e francamente indimenticabile.

Per quanto riguarda il meme coin del saluto romano: un bel mezzo busto di Musk mentre esibisce il braccio alzato. La caption che accompagnerà l’immagine sarà, ovviamente, “My heart goes out to you”. Già mi vedo Elon che sghignazza al momento del lancio ufficiale.

(Ho pensato di inserire questa ipotesi un po’ per scherzo ma in realtà, a rileggerla, mi pare più che plausibile).

Ipotesi 3: l’ha fatto per qualche ragione in ottica lungoterminista

Avete presente il “lungoterminismo”, no? Per farla breve: la tesi filosofica per cui l’unica cosa che conta per l’umanità è la sua sopravvivenza sul lungo periodo, anche a costo di accettare il sacrificio di milioni di vite durante il percorso. Una corrente a cui hanno aderito con convinzione diverse personalità di spicco del contesto tech americano fra cui, naturalmente, il nostro Elon.

Musk allora potrebbe aver previsto, grazie ai suoi potenti mezzi e alla sua capacità di calcolo avanzata, che fare un doppio saluto romano in quel momento avrebbe aumentato le possibilità di sopravvivenza dell’umanità fra diecimila anni. È inutile provare a comprendere in che modo, perché noi non siamo Elon Musk. Non siamo il genio totale che i suoi tanti ammiratori esaltano continuamente, colui che ci porterà su Marte, ci metterà i chip nel cervello, salverà la civiltà ecc. ecc.

Insomma, questa tesi presuppone che Elon tenga molto a noi e che tutto ciò che sta facendo lo stia facendo solo per noi e per il nostro benessere… sul lungo periodo. Anzi: lunghissimo, più lungo è meglio è. Pertanto, non dovremmo far altro che fidarci della sua intelligenza e lasciarlo lavorare.

Ipotesi 4: l’ha fatto per entrare nei libri di storia

Quante persone conoscete che abbiano fatto il saluto romano in occasione di un discorso pubblico, rivolgendosi a una folla di migliaia di sostenitori? Poche, esatto, e sono tutte finite sui libri di storia. Ecco, forse Musk, che – ribadiamolo – è un genio totale, potrebbe aver calcolato proprio questo: che fare quel gesto in quel momento era il metodo più sicuro e infallibile per portarlo dritto dritto nei libri di storia. Del resto non è improbabile che questa sia sempre stata una delle sue maggiori ambizioni, non vi pare?

E allora pensateci: esiste un imprenditore nella storia che abbia raggiunto una fama e una riconoscibilità paragonabili a quelle che ha raggiunto Hitler, o Mussolini? Io non credo, e magari Elon deve essere giunto alla stessa conclusione. Ha pensato che portarci su Marte, metterci i chip nel cervello, ecc. ecc. non sarebbe bastato. Cavolo, nemmeno accumulare un patrimonio di quattrocentotrenta miliardi di dollari e diventare l’uomo più ricco di sempre sarebbe stato sufficiente per guadagnarsi un posto insieme a quei due…! E allora, ecco la trovata finale: emularli direttamente e tanti saluti.

Se questa tesi fosse corretta, io mi azzarderei anche a dire che dovrebbe esser riuscito nel suo intento. Voglio dire: mi sembra piuttosto plausibile che nei libri di storia del futuro troveremo, fra le pagine dedicate a questo folle periodo storico, la foto di Musk col braccio teso.

Ipotesi 5: un segnale di potenza

Ora, qui sopra ho fatto dell’ironia sulla definizione di “genio” che viene sempre e puntualmente appiccicata a Musk dai suoi ammiratori, talvolta senza entrare davvero nel merito di come abbia raggiunto i risultati che ha raggiunto, di quanto le disponibilità finanziarie e tanti altri fattori sociali e culturali abbiano influito. La verità è che anch’io credo che si tratti di una persona molto intelligente. Non so dire se sia davvero un genio pazzesco o meno – non ho nemmeno le competenze per esprimermi in merito -, ma sicuramente stiamo parlando di qualcuno in grado di calcolare le conseguenze delle sue azioni e di sfruttare la propria immagine per ottenere ciò che vuole. 

Allora, per capire come mai abbia fatto il saluto romano, cerco di riflettere su quali vantaggi reali questo gli abbia garantito. Dal punto di vista politico, è sembrata un’arma a doppio taglio: da un lato, il gesto ha sicuramente contribuito a rafforzare il legame con la parte più violenta ed estremista dell’elettorato di Trump, una mossa in continuità con la decisione di liberare gli assaltatori di Capitol Hill. Dall’altro, però, esporsi così sin dal giorno zero del mandato è anche pericoloso, poiché si corre il rischio di alienarsi troppe forze e settori che potrebbero invece tornare utili. Eppure, a Musk – e men che meno a Trump – non sembra fregare granché del rischio di contraccolpi.

Ecco, allora mi son detto che forse l’obiettivo principale di quel gesto è proprio questo. Non solo attirare l’attenzione dei media, non solo fare l’occhiolino a estremisti e suprematisti bianchi, ma anche e soprattutto mandare un messaggio agli Stati Uniti e al mondo. Dire a tutti, se ancora non fosse chiaro, che lui – e per estensione il nuovo Governo, gli oligarchi e tutti coloro che lo sostengono – non ha paura di nulla. Non c’è niente che non possa permettersi adesso che Trump è salito al potere, su nessun piano: economico, etico, politico… Loro, insieme, possono tutto. E segnalandolo in modo così fragoroso già dal primo giorno, dice anche un’altra cosa: mettetevi l’anima in pace perché siamo solo all’inizio. 

Messa così, voi riuscite a immaginarvi come saranno le cose a fine mandato? Se già abbiamo smesso di parlare degli USA come della più grande democrazia del mondo, qualcuno di voi si sente sicuro al cento per cento che fra quattro anni ne parleremo anche solo come di una democrazia?

Che dire, forse conviene davvero diventare tutti lungoterministi e sperare che le cose andranno meglio sul lungo, anzi lunghissimo periodo. Perché sul breve, al momento, non sembra butti benissimo.

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Gennaio 2025
Una nuova razza di power broker domina la nuova scena del potere dove politica e capitale si intrecciano in modo più stretto che mai
Filippo Barbera

L’insediamento di Donald Trump, subito iconizzato dall’immagine dei tecno-capitalisti più ricchi del mondo schierati in prima fila, ci mette di fronte alla “presa diretta del potere politico da parte di quello economico, senza nemmeno più intermediazione o nemmeno la fatica di sottostare ai riti e ai linguaggi democratici”, scrive in un interessante post su X lo storico Giacomo Gabbuti

Non solo la dottrina democratica è ormai poco più che un reperto consegnato ai cultori della storia del pensiero politico, o alla paleo-archeologia delle istituzioni occidentali; anche la sua forma liturgica, le sue (spesso vuote) ritualità e ampollose rappresentazioni pubbliche, si sono sbriciolate. Non si fa più neppure finta, potremmo dire. O, con una frase resa famosa da un altro X (Files): la verità è la fuori, basta volerla guardare.

È, certo, un cambio di fase. Perché se il rapporto tra principi/dottrina democratica e funzionamento concreto dei sistemi liberal-democratici non è mai stato perfetto e si è via via eroso nel tempo, una così marchiana negazione dei suoi rituali consolidati e delle sue rappresentazioni pubbliche nei momenti più solenni – come appunto l’insediamento presidenziale – è una svolta non solo simbolica, ma sostanziale. Questo, forse anche più dei 42 ordini esecutivi subito firmati nel giro di 12 ore, rappresenta la vera cifra della posta in gioco, il segno del cambiamento in atto sul futuro delle democrazie.

Dal punto di vista sostanziale, infatti, il legame diretto tra capitale e istituzioni politiche non è certo una novità. Donald Trump non è l’unico leader mondiale ad avere come “socio” un miliardario del settore tecnologico che agisce come il regolatore de facto del settore e delle attività economiche, senza dover rendere conto dei suoi interessi personali. Il premier britannico Kier Starmer ha appena consegnato le chiavi dell’economia britannica a Jeff Bezos scrive, sempre su X, Cory Doctorow

La Competitions and Markets Authority del Regno Unito, l’ente incaricato di indagare e punire i monopolisti tecnologici (come Amazon), è stata infatti affidata a Doug Gurr, l’uomo che dirigeva Amazon UK! Il lupo a guardia del gregge.

Assistiamo all’accelerazione parossistica di un fenomeno in qualche misura sempre esistito, che già nel 2011 Janine Wedel definiva come “élite ombra”. Una nuova razza di power broker domina la nuova scena del potere dove politica e capitale si intrecciano in modo più stretto che mai. Una razza il cui successo è dovuto alla capacità di aprire nuove strade in materia di conflitto di interessi, dove la confusione tra interessi collettivi e interessi privati si dipana non in violazione della legge, ma all’interno dei suoi confini. “Non c’è conflitto di interessi, perché siamo noi a definire gli interessi”, ci dice l’immagine dei tecnocapitalisti in fila all’insediamento di Donald Trump.

Anche la post-democrazia, però, ha bisogno dei suoi riti. Il discorso del Presidente Trump di fronte ai tecno-capitalisti seduti nei p

osti migliori ha incluso espliciti riferimenti al “destino manifesto” dell’America, affermando che sotto la sua presidenza gli Stati Uniti si considereranno una nazione che “espande il proprio territorio”. Ha parlato con affetto del passato colonialista che ha fondato il Paese a spese delle popolazioni che già vi abitavano e ha promesso di prendere il controllo del Canale di Panama. Il capitale non conosce frontiere e così l’azione politica che, da sempre, ne accompagna l’espansione.

X: @FilBarbera

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Gennaio 2025
La compostiera come anti-sistema ecologico. Cosa può un compost. Fare con le ecologie femministe e queer di Antonia Anna Ferrante
Teresa Masini

«La stessa stanza non era più la stessa. Il tappeto era rimasto del colore tremendo che avevamo ribattezzato «verde conato», e sulla sua superficie restavano tracce dei nostri ricordi sotto forma di chiazze velate…».1 Prabda Yoon, eclettico artista tailandese, comincia così uno dei racconti contenuti in Feste in lacrime (2018).

Ho pensato immediatamente a questo racconto quando mi sono ritrovata tra le mani il piccolo – ma denso, pungente – saggio Cosa può un compost. Fare con le ecologie femministe e queer (2022) di Antonia Anna Ferrante. Forse, per quella presa della memoria sulla materia residuale, il suo tentativo di allungarsi attraverso corpi indesiderati. Oppure, per la trasformazione e capacità rigenerativa di un concetto – di un oggetto of concern – attraverso nuove forme che emergono, di volta in volta, dall’insieme magmatico e incostante che lo compone. «La stessa stanza non era più la stessa»;2 anche il compost non coincide mai con se stesso, ma nella misura della sua potenza d’agire, di uno scomporsi e ricomporsi in strutture dotate di nuovo senso che Jasbir Puar chiamerebbe “applicabilità politica dell’assemblaggio”.3

Pensare con una materia astratta come può apparire quella della compostiera significa interrogarsi, per la prima volta, «a partire dall’organizzazione della materia, nella sua più intima dinamica intramolecolare, e da lì inferire il rapporto che sussiste nelle architetture sociali» (p. 35). Attraverso frammenti di riflessioni di Haraway, Parisi, Tsing e altre studiose femministe, in Cosa può un compost Ferrante rielabora la teoria dell’assemblaggio nell’immagine potente della compostiera, quel contenitore o la “sacca”, per dirla con Ursula Le Guin,4 che accoglie una moltitudine di materie organiche e microrganismi, insieme alle sostanze nutritive prodotte dalla loro interazione.

Appropriandosi della figura del compost, Ferrante disegna le traiettorie desideranti per teorizzare un’anti-struttura orizzontale. Il compost è infatti innanzitutto lo scarto in azione, un processo rigenerativo che corrisponde «ai limiti della sua capacità di essere affetto» (p. 27). Diversamente dalle piantagioni monoculturali, ambienti omogenei che non riflettono le differenze e gli squilibri di potere esistenti tra gli esseri umani,5 il sistema del compost accoglie infatti l’interferenza, la componente non umana che entra e disfa tutto, disturbando e trasformando un sistema apparentemente stabile.

Nella, da e attraverso la compostiera si delineano conformazioni transitorie e instabili, mentre le identità si disgregano insieme ai corpi che le rappresentano, immersi nel processo della decomposizione: umano e non umano, organico e inorganico, materiale e immateriale si mescolano, perdono definizione, mentre i loro confini diventano porosi e permabili. L’orizzonte performativo del compost si arricchisce infatti nella domanda che Ferrante avanza in un passaggio del testo: «Come cambierebbero le risposte pubbliche se si assumesse seriamente la vitalità dei corpi-anche-non-umani»? (p. 35) La compostiera come modello ecologico «per rivendicare anche giustizia sociale» (p. 81) non sussiste, è bene ricordare, senza la presa di responsabilità di una giustizia multispecie,6 e Cosa può un compost affronta questa questione, affidandosi agli ecofemminismi di Val Plumwood e Astrida Neimanis, tra le altre.

In campi diversi ma complementari, le studiose avanzano l’idea di co-evoluzione come processo di costruzione di relazione con l’estraneo (p. 49) a partire dalla materialità tattile di queste relazioni sociali. Dai concatenamenti di relazioni più-che-umane all’interno della compostiera emergono sempre corpi situati, dotati di una propria potenza politica non tanto nella valorizzazione di più capacità di agire, quanto, piuttosto, nella riscrittura «che media le infinite possibilità della materia con […] l’esperienza situata della soggettività»,7 non solo umane, che la compongono.

Pur nel contesto irrisolto della messa in scena di corpi animali, un esempio nel testo è Composting the City | Composting the Net (2013) di Shu Lea Cheang. Partendo dal presupposto che il processo della compostiera può venire applicato tanto a rifiuti materiali e immateriali, l’artista disegna una evento in cui l’accumulo di frammenti immateriali prelevati dagli archivi della rete si si mescola, diventando materiale digeribile, fermentabile, assimilabile da un gruppo di vermi (p. 89).

Lo scavare degli animali cambia la chimica del terriccio contaminato, che entra «in dialogo col furioso balbettio dei fu digitali, in un fluttuare di frequenze in grado di riparlare di intelligenza comune oltre i limiti del linguaggio, voci di archeologi del futuro che rileggono i lavori precedenti all’apocalisse del Capitalocene» (p. 91).

In quanto teoria transdisciplinare, il compost non è legato a un campo di studi o a una pratica sistematizzata, quanto piuttosto a una postura, a un modo obliquo di guardare la relazione nel suo farsi e disfarsi, nel suo fare e disfare mondi. Nella compostiera, la retorica di una togetherness immanente, volta alla purezza dell’assimilazione, lascia spazio alla costitutiva mostruosità della coabitazione,8 al cui interno i “divenire-contro”9 prevalgono su altri tipi di trasformazione in-comune. Le forme che si materializzano dal compost costituiscono relazioni di pensiero antiegemonico «di resistenza alla purezza degli enti e dei sistemi che li accolgono, valorizzando riscritture caotiche di rappresentazioni» non solo umane.10

Nel compost sono opache sia la visione che la percezione di ciò che si sta realmente toccando; i confini perdono di concretezza e le temporalità si allargano. Cosa può un compost di Antonia Anna Ferrante si pone allora un importante manuale poetico per muoversi all’interno di questo scenario interconnesso e stratificato, dove i tentacoli che si protendono dalla terra non sono protesi ma ramificazioni umide e appiccicose invischiate nella complessità  delle relazioni che circondano, riempiono e danno forma ai corpi, di volta in volta in modo differente.

Bibliografia

Boisseron, B. (2018), Afro-Dog: Blackness and the Animal Question, Columbia University Press, New York.

Cipollone, G. (2024), Haunted. Una drammaturgia sonora in “Connessioni Remote”, 7: 98-113.

Masini, T. (2025), “Disturbing Multispecies Performance. Uno sguardo animalfuturista alla coabitazione”. Roots§Routes 15(47).

Masini, T. (2024), Performance Bug. Una ricerca sugli ‘errori animali’ nella scena performativa contemporanea tra coabitazioni multispecie e zoohauntologia in “Liberazioni: Rivista di critica antispecista”, 59: 11-21.

Puar, J.K. (2012), ‘I would rather be a cyborg than a goddess’: Becoming-Intersectional in Assemblage Theory in “philoSOPHIA: A Journal of Continental Feminism”, 2(1): 49-66.

Tsing, A.L., Mathews, A.S., Bubandt, N. (2019), Patchy Anthropocene: Landscape Structure, Multispecies History, and the Retooling of Anthropology in “Current Anthropology”, 60: 186-197.

Weisberg, Z., Salzani, C. (2023), Non c’è giustizia climatica senza giustizia per gli animali in “Liberazioni. Rivista di critica antispecista”, 54: 37-49.

Yoon, P. (2018), Feste in lacrime, trad. it. di Luca Fusari, Add Editore, Torino.

  1. P. Yoon, Feste in lacrime, trad. it. di Luca Fusari, Add Editore, Torino 2018. ↩︎
  2. Ibidem. ↩︎
  3. Cfr. J.K. Puar, “I would rather be a cyborg than a goddess”: Becoming-Intersectional in Assemblage Theory, in «philoSOPHIA: A Journal of Continental Feminism», Vol. 2, n. 1, 2012, pp. 49-66. ↩︎
  4. Il volume di Ferrante contiene, al suo interno, anche il saggio “La teoria narrativa della sacca” di Ursula K. Le Guin. Infra, pp. 111-124. ↩︎
  5. Cfr. A.L. Tsing, A.S. Mathews, N. Bubandt, Patchy Anthropocene: Landscape Structure, Multispecies History, and the Retooling of Anthropology, in «Current Anthropology», Vol. 60, agosto 2019, pp. 186-197: 194. ↩︎
  6. Cfr. Z. Weisberg e C. Salzani, Non c’è giustizia climatica senza giustizia per gli animali, in «Liberazioni: Rivista di critica antispecista», n. 54, autunno 2023, pp. 37-49. ↩︎
  7. G. Cipollone, Haunted. Una drammaturgia sonora, in «Connessioni Remote», n. 7, settembre 2024, pp. 98-113: 107. ↩︎
  8. Cfr. T. Masini, Performance Bug. Una ricerca sugli ‘errori animali’ nella scena performativa contemporanea tra coabitazioni multispecie e zoohauntologia, in «Liberazioni: Rivista di critica antispecista», n. 59, inverno 2024, pp. 11-21: 13. ↩︎
  9. Cfr. B. Boisseron, Afro-Dog: Blackness and the Animal Question, Columbia University Press, New York 2018. ↩︎
  10. T. Masini, Disturbing Multispecies Performance. Uno sguardo animalfuturista alla coabitazione, in Roots§Routes, Vol. 15, n. 47, www.roots-routes.org/disturbing-multispecies-performance-uno-
    sguardo-animalfuturista-alla-coabitazione-di-teresa-masini. ↩︎

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Gennaio 2025
Dries. I giorni del pensiero cagnolino
Vittorio Zambardino

Dries. I giorni del pensiero cagnolino è un libro che ho amato prima ancora che venisse scritto. Dell’autore, Vittorio Zambardino – che conoscevo di fama, come ideatore e responsabile editoriale del sito Repubblica.it online dal 14 gennaio del 1997, e autore del fortunato Internet. Avviso ai Naviganti scritto con Alberto Berretti e pubblicato nel 1995 da Donzelli – avevo letto questo suo post sul suo profilo Facebook: «Quasi alla fine di un attraversamento di Roma per motivi banali, mi fermo al semaforo di Santa Croce in Gerusalemme. Nell’aiuola c’è un tubo che innaffia o perde e dal quale esce un getto sottile ma energico d’acqua. Un pastore tedesco ci si avventa sopra, non per bere ma per chiudere la falla, lui mangia l’acqua per fermarla. Si allontana, vede che il getto continua, si avventa di nuovo. Lo fa tre, quattro volte, e io mi commuovo per l’innocenza di questo gioco: è il “pensiero cagnolino.»

Quando Tim Berners-Lee se ne andò da Ginevra, perché quel genio di Rubbia riteneva che non rientrasse nella mission del CERN promuovere quell’idea di uno dei più importanti informatici del 900, parliamo del WWW, e prese al volo la proposta del MIT di Boston, dove nel 1994 fondò il World Wide Web Consortium, Vittorio Zambardino frequentava il Lab del Massachusetts Institute of Technology per conto del gruppo editoriale per cui lavorava.

Probabilmente fu il contrasto del post con l’idea che mi ero fatto di lui o forse perché il mese precedente avevo letto una lettera del 1983 di Anna Maria Ortese a Guido Ceronetti (ora inclusa in Le Piccole Persone) dove scrisse: «Il dolore degli animali è ormai il primo dei miei pensieri, e giudico perfino il ‘genio’ da quel rapporto: se c’è o non c’è, con l’indignazione.» Avevo anche letto in quel periodo due testi del filosofo Piero Martinetti, La psiche degli animali e Pietà verso gli animali e sentivo nei capitoli di Dries lo stesso suono, lo stesso dolore, la medesima consolazione. Morale della favola: avvertivo in questa lettera a un cane l’urgenza di trovare un luogo e una forma lieve, dopo le tre voluminose antologie di oltre tremila pagine dedicati a La poesia degli animali (domestici, selvatici e uccelli).

Il rispetto che vedevo trasparire verso la piccola persona Dries, non più alta di venti centimetri, e senza moine animaliste, mi ha consegnato un entusiasmo confermato da chiunque mi ascoltasse quando leggevo dei brani.  Il 29 gennaio del 2025 Dries. I giorni del pensiero cagnolino sarà disponibile. Lo considero un dono. (LS)


Uno può scrivere una storia tersa, oggettiva, con tutti i crismi del racconto, come Flush di Virginia Woolf o scrivere del cane con tutti i diversi approcci che hanno prodotto il piccolo boom editoriale di questi ultimi due anni. Io l’ho fatto nella forma di questo diario, badando sempre di tenerti vicino, Dries, per non perdermi nelle digressioni. Già, ma “che cosa” è questo amore fra specie diverse? E soprattutto come si fa a raccontarlo fuori dai canoni umani, cioè rinunciando alla pretesa di misurare il comportamento canino sul metro del pensiero e dei valori umani? È poi questa un’operazione possibile? Per esempio, che cosa significa che “quel cane è molto intelligente” o che “è stupido”, “aggressivo”, “pigro”? Sono tutte immagini che attingono ancora al deposito della fantasia umana e dipingono con la tavolozza dei colori umani chi umano non è. Per questo motivo qui ho parlato di “pensiero cagnolino”, pur sapendo che il salto di specie non è possibile. Non posso pensare con la tua testa. L’ho già detto, lo ripeto: non ho nessuna ambizione di carattere scientifico, questo mio testo non contribuirà a conoscere meglio i cani, perché questa conoscenza non mi interessa. Mi interesserebbe cambiare la posizione umana rispetto al cane, soprattutto quella di coloro che un cane nella loro vita lo accettano e ne fanno una componente della loro esistenza. 

Per gli altri, quelli che se ne tengono lontani basterebbe che si facessero contagiare dalla simpatia per loro: se ti attraversa la strada mentre tu corri, non è il cane di un trasgressore che non tiene conto dei regolamenti comunali. È un cane che insegue un odore, come un uccello la corrente d’aria, come un colpo di vento ubbidisce alle leggi della fisica. Basterebbe accettare in un angolo della propria mente l’idea che la Terra non è tutta nostra: che questo prato è anche delle formiche che ci fanno le loro tane, dei passeri che mangiano le zanzare, delle cornacchie che predano i passeri, dei gabbiani che mangiano la nostra spazzatura. 

Appunto, la nostra spazzatura. Condividiamo un ambiente, non è il nostro feudo, padroni della vita e della morte dei nostri animali. Mesi fa leggevo l’intervista di un amministratore di una regione i cui boschi sono “infestati”, così scriveva il giornalista, dagli orsi. L’assessore lamentava le regole protezionistiche (poi l’orsa in questione l’hanno ammazzata comunque) che hanno permesso agli orsi di invadere i nostri abitati, insediamenti che sono a volte nel cuore del bosco. Chi è l’invasore e chi l’invaso qui, se costruisci le tue case vacanze dove c’erano larici e abeti? Si potrebbe continuare con le grida del maiale ucciso, col suo sangue, il suo dolore, con la chiacchiera reificata che parla di cucina come di un segno di civiltà dei popoli e del nostro popolo e sta solo parlando di animali uccisi, squartati, appesi. Togliamo l’audio e il video a tutti questi argomenti che rischiano di trasformare il diario di un uomo anziano col suo cane in un verboso comizio. Chiedo perdono se ho ceduto qui e altrove alla tentazione ideologica.

Vi chiedo solo: perché quando parlate di un cane non vi si incrina la voce per la commozione? Perché la sua sofferenza è così altra da voi? Non che manchi chi riesce a tenere la voce ferma anche rispetto agli umani. Non facciamo esempi, rischiamo, in questi tempi, di impelagarci in discorsi complicati e io non ho più tempo da perdere con le militanze. Di fatto l’edificio della mente umana ha più piani. Dove sta la politica, dove sta la “razionalità”, dove sta la maturità non arriva la compassione per gli animali e spesso manca quella per gli umani. Questo vecchio i piani li ha visitati tutti e adesso che il suo giro per il palazzo volge alla fine, non ha più voglia di frequentare i piani alti. Parla di cani e di animali piccoli. Della loro fragilità, del loro essere come farfalle col vento. Si spostano dove noi passiamo, ci fanno strada, vivono nella dittatura umana.

Vedete che mestatore e imbroglione è questo autore? Sta anche lui sfuggendo alla sua propria domanda: che cos’è l’amore per il cane? Per il suo cane? Sì, certo lo spazio concettuale è lo spostamento, peraltro solo intenzionale perché impraticabile sul piano fattuale, del non usare categorie “dal punto di vista umano”. Peccato che anche questa operazione sia frutto di intelletto umano, perché come il cane è prigioniero del suo corpo, come il dolore non esce mai dal tetto rappresentato dalla sua schiena, e a noi pare perciò allegro o indifferente, così anche noi non possiamo evadere dalla nostra mente, dalla nostra cultura, dai nostri linguaggi. 

La scrittura stessa è operazione solo nostra. La distanza è incolmabile, il ponte fra noi e loro non resta che wishful thinking, come l’arcobaleno sul quale dovremmo incontrarci una volta morti, come l’angelo con la coda, come il paradiso dove ci aspettano tutti i nostri cani. Io e te passeggiamo sul bordo dell’esistenza, di là i ricordi di ciò che è stato ed è stato fatto. Di qua il nulla, nel quale, con grande attenzione, proviamo a non cadere. 

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