Il futuro non è scritto

Il futuro non è scritto

Gennaio 2025
Enrico Bettinello

Cos’hanno in comune Carmelo Bene e Alberto Grifi, Giuliano Scabia e Leo De Beradinis, Aldo Braibanti e Luigi Nono? Per quanto possano suonare come nomi ormai affidati alla storia, per quanto recente, e allo studio documentale più tradizionale, questi protagonisti della sperimentazione performativa tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento sembrano parlarci con una sconcertante urgenza e attualità.

Lo fanno – un po’ medianicamente – attraverso un libro, Inappropriabili. Relazioni, opere e lotte nelle arti performative in Italia (1959/1979), eccellente esito di un progetto di ricerca e firmato da Annalisa Sacchi.

Come ben sa chi ha l’onere e l’onore di provare a trasmettere a nuove generazioni la ricchezza dirompente di alcune delle più luminose esperienze creative di quegli anni (e anche di una buona decina di quelli dopo, direi), è sempre un po’ frustrante provare a fare atterrare con la meritata vivacità in un mondo iperconnesso e iperdocumentato una storia sorretta principalmente da fonti secondarie e già mediate dallo sguardo critico di allora o degli anni successivi.

Sacchi qui agisce in modo originale e efficacissimo, grazie a un lavoro di archivio in cui l’affresco viene completato dai corpi e le voci stesse delle protagoniste e protagonisti che si intrecciano costruendo una rete di vicende appassionanti, tra coraggio e impegno, visionarietà e poesia.

Basti pensare che il libro si apre con i giovanissimi Carmelo Bene e Alberto Ruggiero che tendono fuori del Teatro La Fenice di Venezia  una sorta di imboscata a Albert Camus, nell’intento di convincerlo a cedere i diritti di Caligola.

Da qui, come in un romanzo a più voci, entrano e escono le insopprimibili tensioni poetiche di Nono, di Scabia, di Patrizia Vicinelli, di Leo e Perla e il loro percorso di volontario isolamento, in una geografia del performativo che abbraccia pratiche anche molto differenti in nome di una militanza che riflette sul presente, a volte anche con irruenza, e che sembra aprirsi anche a temi che, a distanza di 50 anni, vengono a volte presentati come recente attualità.

E se, con la felice scelta lessicale del titolo, Sacchi definisce queste esperienze “inappropriabili”, è come se fosse un invito sottile a appropriarsene quanto più possibile, non tanto nella reviviscenza un po’ spettrale di quelle pratiche, quanto nella possibilità di immaginare altre alleanze e relazioni per i corpi e il tempo e gli spazi che sono invitati a abitare.  

In questa prospettiva merita una segnalazione, What Can Theatre Do, volume curato da Silvia Bottiroli e Miguel A. Melgares e che esplora in modo originale la stessa idea di libro come dispositivo performativo che, raccogliendo saggi, testi drammaturgici, scambi social e molti altri materiali eterogenei, prova a creare uno spazio ibrido tra realtà e finzione di stimolante fluidità.

Al di là del fascino del format, infatti (con lo stesso indice che suggerisce suddivisioni variabili tra gli interventi), nel rigore total black del concept immaginato dall’editore bruno, troviamo diversi interventi interessanti, a partire proprio da quello sugli archivi scritto dalla stessa Annalisa Sacchi con Ilaria Caleo. Due libri preziosi e da mettere in dialogo.

Continua a leggere...

Gennaio 2025
Un confronto tra Paolo Gervasi, Fabio Lisca e Sergio Pissavini
Fabio Lisca, Paolo Gervasi, Sergio Pissavini

Paolo Gervasi ha coordinato un confronto aperto sul mondo del lavoro, la sua organizzazione e i cambiamenti in corso insieme a Fabio Lisca e Sergio Pissavini

Paolo Gervasi: Questa conversazione nasce per provare a identificare come sta cambiando il mondo del lavoro e quali sono le grandi tendenze che lo stanno rimodellando. L’idea nasce dalle riflessioni che stanno emergendo grazie al lavoro di scavo e di analisi che Fabio Lisca e Sergio Pissavini hanno portato alla luce con Leader no leader. La visione delle organizzazioni human-centric / La visione del manager primo volume della collana Convergenze che dirigono per Luca Sossella editore.

Probabilmente è inevitabile partire dalla tecnologia, l’emergenza di nuovi fenomeni tecnologici che stanno mutando la forma del modo di lavorare, ma sopratutto stanno radicalmente mutando il modo in cui concepiamo il lavoro. 

Ci sono nuovi lavori che non esistevano che vengono abilitati dalla tecnologia e ci sono anche nuovi modi di accedere al lavoro e alle professionalità che vengono anch’essi abilitati dalla tecnologia. Attorno a questo scenario svilupperemo alcuni ragionamenti, ipotesi, visioni e prefisioni con Sergio Pissavini, executive leader in diverse multinazionali e con Fabio Lisca, fondatore di Agile School.

QUANDO SI ASSUME UNA PERSONA

Sergio  Pissavini: Uno degli aspetti più importanti in questo momento lo si osserva quando si cercano persone da assumere all’interno della propria organizzazione. I consulenti si sforzano proponendosi in modo nuovo ed è sicuramente è qualcosa che va compreso. Nello stesso tempo però ci sono alcuni aspetti che mi lasciano perplesso, perché nel campo della consulenza c’è una spinta notevole nel presentarsi su diverse piattaforme o su diversi social continuando però a ripetere lo stesso messaggio. Vedo raramente articoli che vanno in profondità, spesso è piuttosto una presentazione di quanto si è bravi, di quanto si può rappresentare un fenomeno, di quanto si può essere bravi a descrivere una particolare situazione. Quindi io vedo una costruzione d’immagine ma non vedo una costruzione che entri nello specifico delle proprie competenze. E mi resta un dubbio: come faccio a questo punto ad assumere una persona e a valutarla? La valuto solo attraverso come si presenta sui social e quindi vengo a perdere il contatto diretto della classica intervista in cui ha una certa importanza l’istinto? 

Perché alla fine quando si assume una persona questa entra da far parte di un team non resta solo come un elemento che lavora dall’altra parte dello schermo. L’interazione col team per me è estremamente importante e così la capacità di interagire con le altre persone. Istintivamente quello che tu vedi nell’altra persona resta fondamentale. Sarà forse una preoccupazione di chi ha un certo numero di anni di esperienza sulle spalle, ma è anche un dubbio che permane in me fortissimo.

Fabio Lisca: Parto da questo ultimo spunto che ha dato Sergio, perché quando ho iniziato a fare inbound marketing volevo prendere qualcuno che mi aiutasse. Uscendo dall’università molti ti presentano un curriculum che non dice niente e inoltre quello che hanno studiato non serve praticamente a nulla. Quindi che cosa ho fatto? Ho costruito un percorso di inbound recruiting, cioè ho permesso a quella persona di fare le cose che poi avrebbe dovuto… in pratica imparare. E così facendo ho fatto una selezione naturale. perché chi è rimasto fino alla fine ha scelto me, non sono io che ho scelto loro. Ho un po’ ribaltato la modalità. Se tu dai la possibilità alle persone di capire se quello che verranno a fare è quello che gli interessa probabilmente saranno più felici poi di farlo.

AI E PENSIERO VELOCE

Fabio Lisca: L’aspetto preponderante delle nuove tecnologie è che implicano un fattore determinante, e cioè quello dell’apprendimento continuo. L’automazione, così come l’intelligenza artificiale, viaggiano insieme. L’intelligenza artificiale sa riconoscere cose che di solito riconoscevano gli umani, ma molto più rapidamente e con un minor numero d’errore. L’automazione invece permette di fare dei lavori che tutto sommato erano noiosi e permette di farlo in modo automatico. C’è sempre però dietro qualcuno che la deve aggiustare, un po’ come il machine learning, cioè: le macchine non imparano mica da sole. Google credo che cambi 600 volte in un anno i pesi ai suoi algoritmi, per cui c’è ancora tanto lavoro fatto dagli umani, ma è un lavoro di tipo diverso.

In Mercedes stanno utilizzando dei robot che accompagnano gli uomini. Ci mettono 90 ore a imparare i movimenti senza colpire l’uomo. Sono lo stesso numero di ore con cui si programmavano i vecchi robot, che però erano escatolati proprio perché avevano il difetto di non vedere, di non essere sensibili a ciò che accadeva intorno. Ultimo esempio: ci sono quattro satelliti italiani che girano intorno al mondo e scaricano 1500 immagini tutti i giorni. Decidere come leggerle è praticamente impossibile. Le macchine invece possono ad esempio il valutare il costo reale del petrolio andando a vedere l’ombra proiettata dalle petroliere rispetto alla stazza della nave. Le macchine sanno leggere tanto materiale che noi non sappiamo, ma siccome sono governate da noi, noi dobbiamo acquisire la conoscenza anche della macchina oltre che della materia. 

Sergio Pissavini: Tante volte l’uomo usando l’istinto può produrre anche delle analisi sbagliate, ma ho forse l’illusione di credere che l’istinto, un pensiero veloce che collega in maniera non palese tutta una serie di accadimenti e esperienze, qualche volta ti possa dare qualcosa di brillante che non può darti l’intelligenza artificiale. Quindi l’impatto dell’uomo nel valutare quello che sta uscendo dalla macchina è importantissimo. Se il risultato ha una logica basata anche sulle intuizioni dell’uomo e sulla sua esperienza probabilmente cresce anche l’intelligenza artificiale.

ELABORARE DATI PER DELEGARE DECISIONI

Paolo Gervasi: Rispetto a questo che dite mi viene in mente che proprio la capacità di elaborazione di quantità enormi di dati è un po’ il tema dell’ultimo libro di Harari, Nexus. L’autore paventa l’avvento di un totalitarismo algoritmico, probabilmente con un eccesso di allarmismo, cioè l’ipotesi di delegare molte decisioni e quindi responsabilità nelle organizzazioni

Sergio Pissavini: Non arrivo a pensare che in un futuro saremo guidati dalle macchine perché questi sono secondo me ragionamenti per assurdo, però occorre la capacità umana di valutazione, e nello stesso senso chiedersi se quello che sta arrivando è corretto e non prenderlo di default perché è sviluppato da un gruppo di team super esperti o da un algoritmo estremamente complesso e sofisticato.

Fabio Lisca: Secondo me il vero cambiamento parte molto tempo fa, diciamo per esempio in Toyota dalla fine della guerra. Loro erano un’industria tessile e l’idea era quella di creare delle automazioni. Toyota significa proprio automazione con il tocco umano. Perchè? Quale era l’intenzione? Fare in modo che gli errori fossero rilevati dalle macchine e che poi l’intervento umano implicasse soltanto la capacità di pensare in senso creativo per risolvere l’errore. Tutta l’impostazione di Amazon è stata basata su algoritmi che si chiamano collaborative filtering. La capacità predittiva diventa sempre così più sofisticata, ma la differenza è che l’umano deve imparare cose nuove, sennò non governa le macchine. E viene governato dalle macchine, ovvero il terrore di Harari.

VIVERE IL LAVORO

Paolo Gervasi: Infatti la chiave dell’apprendimento secondo me sarà questa, una grande sfida anche di tutti i sistemi educativi, fuori e dentro le organizzazioni, partendo dal sistema educativo di base. 

Ma l’altra grande forza che sta trasformando il lavoro, aprendo nuovi orizzonti, nuovi modi di relazionarsi è proprio quello che le persone chiedono al lavoro, cioè il modo in cui lo vivono, il modo in cui lo interpretano, il posto che danno al lavoro nelle loro vite. Quindi da un lato lasciare il lavoro e cercare di fare qualcosa di più significativo con le proprie vite. Dall’altro quello che si chiama quiet quitting cioè un lasciare senza lasciare, stare lì, vivacchiare, fare il proprio piccolo compito senza impegnarsi più di tanto perché magari appunto il centro della propria vita si è spostato da un’altra parte. Vi chiederei dal vostro osservatorio come vedete questo cambiamento.

Sergio Pissavini: Ultimamente ho osservato questo cambiamento in atto, nel senso che per assumere persone occorre ormai offrire pacchetti anche molto diversificati e molte aziende sono in difficoltà perché non sono strutturate per poterlo fare. Fanno fatica anche a descrivere il lavoro di cui hanno bisogno. È un periodo di transizione, ma sono convinto che poi i due sistemi torneranno a parlarsi, però in questo momento è necessario uno sforzo enorme da parte delle aziende.

Fabio Lisca: Credo che al momento ci siano due punti di vista, due grossi paradigmi organizzativi. Uno che è quello di predizione e controllo, che è ancora insegnato nelle università, negli MBA, e credo che l’80% delle organizzazioni adotti quel tipo di mentalità. E c’è poi c’è quello che si chiama “di autonomia condivisa”, che è ancora poco diffuso, ma che sposta il concetto da avere persone selezionate che facciano delle cose che l’azienda sta facendo e di cui ha bisogno, a persone che diventino un po’ degli intraprenditori all’interno dell’azienda. Questo paradigm permette anche a chi ha voglia e ha uno spirito imprenditoriale di creare la propria azienda all’interno dell’azienda. C’è un bellissimo esempio che è Valve, è un’organizzazione che fa videogiochi ed è stata fondata da due fuoriusciti da Microsoft che hanno deciso che l’organizzazione non avrebbe avuto neanche un manager. Valve è un’organizzazione piatta dove creano in pratica dei marketplace interni all’organizzazione. Questi spostamenti – per le nuove generazioni, ma anche per quelli della nostra età – offrono più possibilità di trovare uno scopo, un senso e anche una progettualità personale.

FINE DEL POSTO FISSO?

Paolo Gervasi: Mi piacerebbe porvi una domanda che riguarda proprio i modelli organizzativi, il posto fisso come elemento strutturante del lavoro si sta esaurendo o stiamo assistendo solo a un mascheramento della precarietà? Secondo voi c’è una sostanza in questi cambiamenti ed è davvero qualcosa che le persone potrebbero preferire all’idea del posto fisso e della sicurezza a vita, oppure è più una retorica che magari cel una perdita di sicurezza?

Fabio Lisca: Il sistema economico sta giocando contro alle persone stesse, ai lavoratori, e che non sta funzionando, è estremamente disfunzionale. Si richiedono maggiori tasse ai lavoratori e allo stesso tempo si danno meno servizi. Almeno in Italia non funziona la sanità, non funziona la scuola e abbiamo una serie di problemi molto seri. Sappiamo poi che c’è una fortissima diseguaglianza, c’è il famoso 1% dei ricchi che possiede l’80% della ricchezza mondiale e questi non pagano le tasse. Allora è tutto un sistema in sé che probabilmente va rivisto, un sistema con forti interessi che evidentemente hanno anche un impatto sui sistemi politici. Io ammiro molto il lavoro di Edward Deming che dice una cosa fondamentale, dice: attenzione, le buone o cattive performance di un’organizzazione sono dovute al 94% all’organizzazione, solo al 6% al fattore umano. Questo implica il fatto che il fattore umano può agire e cambiare soltanto se riesce a cambiare il sistema. Quindi esistono entrambi gli elementi. Precarietà e mascheramento della precarietà dall’altro e forse difficoltà di creare un modo, una modalità di possibilità diverse perché il sistema non lo permette. 

Sergio Pissavini: Sì, diciamo che il mito del posto fisso ormai sta tramontando. Io ho cambiato sette posti di lavoro nella mia carriera. Io ho lasciato l’Italia per andare all’estero, il mio primo contratto l’ho avuto in Svizzera dove il concetto di precarietà non esisteva, nel senso che io potevo essere licenziato con 30 giorni di preavviso in qualsiasi momento per mancate performance, però ho accettato questa sfida.

In Italia dobbiamo affrontare questo discorso da un punto di vista strutturale. Perché io posso assumere facilmente se so che ho poi qualche flessibilità nel caso avessi una problematica grossa in azienda, altrimenti diventa un vincolo che blocca secondo me un pochino tutto il sistema. In Francia ho avuto esperienze dove siamo riusciti a riorganizzare situazioni nel momento di crisi per poi riassumere i lavoratori giocandolo con aziende del territorio.  Trovare il giusto equilibrio come diceva Fabio non è facile perché chiaramente ci sono strutture che sono ormai bloccate da molto tempo per cui si fa fatica a muoverle e andare nella giusta direzione dove una flessibilità sarà inevitabile, anche perché i cambiamenti legati alla tecnologia porteranno il desiderio di cambiare spesso il lavoro, ma per una crescita personale, non soltanto perché si è obbligati.

Fabio Lisca: È un argomento che implica anche il sistema socio politico, quindi è difficile da affrontare. Sempre a livello organizzativo c’è l’esempio di due organizzazioni, Favi in Francia che fabbrica auto e l’altra è la Semco. Quando hanno avuto un momento di crisi anziché prendere delle decisioni centralizzate su cosa fare hanno fatto un’assemblea con tutti i lavoratori della fabbrica e si sono auto-organizzati fino a quando si sono ripresi. Quindi l’idea di coinvolgere invece di decidere dal centro può essere un fattore vincente.

Sergio Pissavini: In Francia ho avuto per esempio una discussione relativamente a una riduzione, che poi si è rivelata temporane. La mia controparte era un sindacalista con una grossa esperienza, insieme abbiamo valutato le condizioni del mercato e abbiamo ottenuto una buona gestione. Ma non partendo dall’assunto “io devo ridurre, tu non puoi ridurre”, ma Qual è la problematica? Quali sono le alternative che possiamo prendere in considerazione?

Fabio Lisca: E poi vorrei dire che per i giovani – in particolare – rimanere troppo tempo all’interno della stessa organizzazione non è più un plus, ma è ormai chiaramente un minus

Paolo Gervasi: Stavo proprio pensando a questo, come generazione siamo stati catapultati nel mondo del lavoro nel pieno della crisi post 2008 e quindi con un’idea che era tutto finito, non ci sarebbe più stata nessuna possibilità di stabilità e anzi bisognava prendere quello che capitava. Vi chiederei così di riflettere sull’elemento delle generazioni. Perché poi spesso accade, magari anche nelle organizzazioni più grandi, che generazioni diverse si trovino a lavorare fianco a fianco, vivendo il lavoro in modo completamente diverso. Come vedete voi questo incontro fra generazioni che sono modi diversi di intendere il lavoro? 

Sergio Pissavini: Dipende molto dalle personalità. Io che mi definisco un manager di origine anglosassone, avendo fatto la mia carriera all’estero, con una società anglosassone, sono sempre stato convinto, in parte perché all’inizio l’ho sperimentato sulla mia pelle, che il giovane ha sicuramente dei grossi vantaggi: può portare idee nuove, può portare magari competenze nuove. E soprattutto ha il coraggio di fare, perché ha l’incoscienza, di fare quelle domande che nessuno ha il coraggio di fare. Il problema è che le organizzazioni spesso non sono così pronte ad assumere i giovani e a valorizzarli. La figura del senior è quella di spiegare la sua esperienza, dare qualche esempio e spronare. Una cosa che odiavo è quando mi dicevano “non si può promuovere quella persona perché è troppo giovane”. Cosa significa? È sulle abilità tecniche e personali che si prende la decisione, non sulla base dell’anzianità. Però questo è un problema che ritengo complicato in Italia più che all’estero soprattutto nelle cosiddette PMI, perché nelle PMI c’è spesso una chiara verticalizzazione da senior a junior, dove il senior dipende in maniera molto importante dalla sua posizione, dalle sue competenze, dalla sua storia, e vede come un cedere qualcosa che è suo.

Fabio Lisca: Le generazioni vengono tracciate a partire dal baby boomer, è la prima che viene tracciata come generazione dai sociologi, perché prima non si usava. Le generazioni erano ogni 25 anni, perché in genere i figli si facevano intorno a quell’età li.

Però credo che sia un finto problema nel lavoro. È un problema che pongono molto, come sottolineava Sergio, le organizzazioni gerarchiche. Allora, il problema non è tanto quello delle gerarchie o della differenza, ma il fatto che possiamo lavorare all’interno di un team, perché all’interno di un team si esercita quella forma di peer control che aiuta tutti e che cambia molto la dimensione del lavoro. Come però questo team viene organizzato o meglio si auto organizza fa la differenza.

SMART WORKING

Paolo Gervasi: Mi piacerebbe toccare un altro tema che è forse un po’ più specifico rispetto a quelli che abbiamo fin qui discusso, cioè quello del “da dove si lavora”. Quando siamo passati attraverso la pandemia la tecnologia è entrata a supporto e ha reso possibile cose che prima ci sembravano impossibili.

Sergio Pissavini: Ci sono situazioni in cui uno può lavorare a casa magari un giorno, due settimane, credo molto al principio della flessibilità in questo che è legato all’intelligenza di chi gestisce e all’intelligenza di chi lavora in smart nel fare quello che deve fare, nel deliberare quello che deve deliberare nei tempi corretti e della qualità corretta. Questo è indipendente dal fatto secondo me che lavori in ufficio o lavori smart. Ci sono però due aspetti che vanno presi in considerazione: il fatto che comunque essere presenti in azienda è importante per le relazioni interpersonali che penso non si possano creare soltanto in comunicazione via zoom o via qualsiasi altro tipo di strumento. C’è poi il comprendere le situazioni osservando le persone, osservando come ci si muove, osservando come si dialoga all’interno di un’organizzazione e questo secondo me è altrettanto importante nella condivisione degli spazi di lavoro.

L’altro aspetto che mi trovo a valutare con attenzione, perché l’ho potuto vedere, sono gli effetti collaterali dello smart working che possono essere da una parte motivanti per alcune persone, ma possono anche creare situazioni di disagio in altre, perché una persona poi può tendere a rinchiudersi, vedere la sua realtà soltanto attraverso quello che vede nella teleconferenza e creare delle situazioni di disagio a livello psicologico importanti.

Fabio Lisca: Lo smart working esisteva già da prima per alcune organizzazioni, soprattutto quelle tecnologiche che sviluppano magari software e utilizzavano persone da ogni parte del mondo. Tanto che se vuoi il loro problema era proprio di fare questi recruiting online. Ma è qualche cosa che probabilmente va molto bilanciato. Sicuramente è stato catastrofico per quelli che andavano a scuola. E credo anche che in certi MBA dicessero “ tu vai a fare un MBA non tanto perché impari delle cose che poi ti servono ma perché perché crei un network e tu il network in smart hai un po’ fatica a stabilirlo. Sono due aspetti che vanno considerati e probabilmente dosati.

Sergio Pissavini: La tendenza è andare, ora esagero, verso le problematiche che il Giappone ha affrontato con gli hikikomori, ovvero persone che poi non si muovono assolutamente da casa e con una serie di disagi che poi si manifestano in vari modi.

Paolo Gervasi: Credo che la questione sia interessante soprattutto nei suoi termini sfumati e anche nelle contraddizioni, nelle tensioni che crea. Ho letto un paragone che mi sembra abbastanza interessante, che è quello dell’ufficio come palestra, cioè di usare l’ufficio come adesso usiamo la palestra, cioè un posto dove vado perché vado a fare qualcosa che è utile lì, cioè che mi serve, in cui passo perché vado a fare quel tipo di esercizio che mi serve di fare lì.

Sergio Pissavini: Ho sempre cercato di organizzare i cosiddetti management team meeting, dove si era fuori due o tre giorni, se non quattro all’anno, dove in maniera autarchica, proibito l’uso del cellulare e non si parlava solo di business, si faceva attività insieme anche per conoscere le persone, per sapere come rivolgersi a una persona, come approcciare le persone, sapere come reagiscono magari in certe situazioni, che ti serve per un dialogo migliore, per una comunicazione migliore. Anche qua devo dire che c’è una grossa differenza tra il mondo anglosassone e l’italiano. L’italiano tende a vedere il management team building come una perdita di tempo, ma secondo me semplicemente perché ha paura di esporsi facendo attività non catalogate e ben inscritte nella sua attività di business.

Fabio Lisca: C’è anche da aggiungere che le organizzazioni knowledge intense, quindi con un basso consumo di conoscenza, hanno da sempre organizzato quelle che chiamano comunità di pratica o in alcune organizzazioni le gilde periodiche per scambiare le conoscenze.

DOVE STIAMO ANDANDO?

Paolo Gervasi: Leggevo ultimamente che è sempre più sovrastante la percentuale di lavoro che è skill-oriented e che non tiene conto dell’organigramma. La competenza prima della gerarchia?

Sergio Passavini: L’evoluzione non la puoi fermare: devi cercare di bilanciare le cose. Non bisogna opporsi, non bisogna neanche darsi degli schemi rigidi, bisogna essere flessibili abbastanza per poter bilanciare e valutare con tranquillità le situazioni in cui è necessario andare magari in maniera più soft. Il cambiamento va affrontando tenendo presente i rischi e valutando cosa fare per contenerli.

Fabio Lisca: In questo momento non si vede tutta questa grande evoluzione nelle organizzaioni. È molto millantata, ma poco praticata. Quindi quali saranno i nuovi modelli? Vedo i millennials che fanno alcuni lavori creativi insieme, e riconoscono molto più le competenze che non le gerarchie. Riconoscono il fatto di aver bisogno di altri e si organizzano come network. 

Continua a leggere...

Dicembre 2024
A bocca chiusa Effetti di ventriloquio e scena contemporanea di Piersandra Di Matteo
Elena Boscariol

Intestino d’argento è un testo acceso dall’ascolto ventriloquo suggerito da A bocca chiusa. Effetti di ventriloquio e scena contemporanea di Piersandra Di Matteo, teorica, dramaturg e curatrice nel campo delle arti performative. In A bocca chiusa, Di Matteo guarda alla sensibilità della scena performativa nei confronti dell’arte di emettere parola senza aprire bocca: il ventriloquio. Una pratica, quella del ventriloquio, che negli anni recenti rifiuta pupazzi e marionette, evidenziando invece le forme di controllo e perdita di controllo nella presa di parola: la voce non solo come atto di presenza. La lettura del libro ha stimolato una sintonizzazione con la bocca, l’abisso orale che permette di muovere la sottile membrana tra testo e suono. Nel corso della stesura di Intestino d’argento si sono radunate parole a seconda del loro suono vocale, come bocca/trabocco/buccale, tanto che a volte il testo pare prendere una direzione onomatopeica. Una scrittura sonora che si posiziona nella frizione del linguaggio, in quel momento di collisione e attrito in cui un concetto si esprime con il suo suono, prevaricando il senso letterale e muovendo un ritmo nella lettura.

§ 1. A bocca chiusa si muove come sostanza porosa all’interno del teatro della bocca. La bocca è luogo di abiezione corporea, strumento di esplorazione di una raccolta bagnata di gesti vocali come palcoscenico. Tra voci dissociate, organi illegittimi e rivendicazione di parola nello spazio buio della bocca, una voce si fa vibrata in altre gole, nelle pieghe, nei pori della pelle, negli orifizi corporei: i buchi bui vengono fatti parlare.

Il libro esplora le emissioni degli orifizi nella messa in scena dell’atto ventriloquo analizzato attraverso performance ed eventi scenici, assumendo una postura sensibile alle dimensioni dell’ascolto: sintonizzazioni e de-sintonizzazioni, sincronie, dislocamenti e ri-posizionamenti. Ci scaraventa all’interno della bocca, ci invita a familiarizzare e a farci perturbare da un suono collocato in una mano o spinto in un corpo altro, nel limbo tra il parlare e l’essere parlat3, fino a contemplare un testo che prolifera nella gola, infestandola, e facendoci ritrovare in un pavimento umido e spettrale. Come viscere, su quel pavimento di bave si evocano in rituale analisi di pratiche performative ed esperienze sceniche che, a partire dagli anni Dieci del nuovo Millennio, si sono mosse nell’azione delle cavità bagnate dell’atto ventriloquo.

Quel buco senza legittimazione viene convocato e fatto suonare, risucchiando l3 spettator3 nella bocca nera di Not I (1972) di Samuel Beckett, e diventando un intermezzo ludico di un’atmosfera infestante in The Infinite Pleasure of the Great Unknown (2008)del regista e designer londinese Simon Vincenzi. Qui bocca e ano vibrano come unico tubo oscuro pulsionale, quello che Paul Preciado con Terrore Anale definirebbe un tubo dermico che risponde alle leggi di gravità prima della sua castrazione. Pare tutto avere più sensi, più ingressi, più buchi pronti allo spurgo socialmente temuto. Sembra che l’ascolto si stia posizionando pericolosamente nelle parti del corpo non legittime, umide, virulente.

Simone Vincenzi, The Infinite Pleasure of the Great Unknown (2008), ph. Luca Ghedini

È quello che accade con la coreografa svizzera Yasmine Hugonnet: l’ascolto scivola negli organi locutori illegittimi. Un corpo nella scena si fa cassa di risonanza di suoni sotto-traccia, ricorrendo a pratiche di depistaggio della voce in un altrove del corpo che sta fermo o quasi fermo. Micro-movimenti delle mani fanno sì che queste parlino, rendendo il ventriloquio non tanto un inganno quanto una pratica coreografica capace di rompere le gerarchie del danzabile.

È un indirizzo dell’ascolto verso un dislocamento tra vedere e sentire quello che Romeo Castellucci trasla in un corpo a corpo tra il parlare e l’essere parlat3 in più lavori. Rilevante è il tribunale fantasma in cui Giovanna D’Arco, protagonista nella messa in scena dell’oratorio Jeanne d’Arc au bûcher (2017) composto da Arthur Honegger, enuncia la propria stessa condanna ventriloquizzata dal giudice del suo Processo, ribattezzato Porcus, nella versione allegorica voluta da Paul Claudel, autore del libretto a cui spetta un’irriverente parodia della vocalità operistica. Corpo e potere come ripiglino tra spiriti irrequieti, inseriti l’uno nell’altro e invasi vicendevolmente. 

Penso ai fantasmi invischiati nei pupazzi che infestano la gola del performer Jonathan Capdevielle, fili di bava che reclamano la presenza della bocca, che ospita secrezioni come testimoni di un’interferenza tra interno ed esterno, tra piano di realtà e spettri interiori. È lo sconfinamento suggerito dalla regista, artista visiva e marionettista Gisèle Vienne nello spettacolo Jerk (ora anche un film). Jerk si muove su una finzione scenica che prevede uno spettacolo di burattini dell’ergastolano Brooks, interpretato da Jonathan Capdevielle in un atto vocale denso di stratificazioni che racconta la storia di Candy-man, noto serial killer che uccise ventotto ragazzi a Houston tra il 1970 e 1973. In questo intreccio disturbante, Brooks viene infestato dai burattini in un doloroso ribaltamento di presenze. Proliferazioni di voci in una sola gola soffocata di liquidi, come un wormhole che vacilla, uscendo dal suo contenimento, come una grotta piena di acque paludose.

In i am that am i, performance ideata dalla formazione toscana Kinkaleri, tutto comincia già nel pavimento bagnato della cavità orale, come se il testo e i suoi personaggi fossero già implosi nella bocca prima della performance e si fossero ricomposti per l’occasione. Ed è lì che teatro e testo esplorano il reciproco attrito. i am that am i è una performance di ventriloquio che inscena Le serve di Jean Genet, ispirato al pluriomicidio delle sorelle Papin del 1933. Chiara e Solange, le protagoniste, si muovono nelle pieghe della gola di Anna De Mario interagendo in partitura sonora colma di rutti, ronzii, colpi di tosse guidati dall’eterodirezione. Le voci si contaminano, si sporcano e diventano irriconoscibili quando l’interprete sbuccia e mangia una banana, un atto di masticazione per niente innocente che allude all’atto cannibale di ingestione dei personaggi. Kinkaleri a proposito del lavoro propone di pensare il lavoro come “una via di fuga, un tentativo di essere nel teatro più rappresentativo del Novecento e sovvertirlo dall’interno, aprirlo come Artaud aprirebbe una banana, come un corpo abitato da un virus incubato da tempo rivela il suo ospite esoterico tra un conato e l’altro di suoni, parole e glossolalie”. Mentre le voci infestano la scena in tutta la loro matericità, il pavimento bagnato che accoglie la performer evapora la sua acqua stagna, primo richiamo scenico alla cavità orale. Questo ambiento scivoloso, fermo e vibrante, che Di Matteo analizza attraverso casi studio della scena contemporanea, è il piano su cui ho iniziato a sfaccettare la mia ricerca. 

Gisèle Vienne, JERK Photo-Alain-Monot

§ 2. A bocca chiusa apre a nuovi pavimenti bagnati in cui stare sedut3, a nuove gestualità, angolature sbieche, orecchie sghembe e tentativi di legittimazione di un ascolto altro. È una superficie sempre vibrata e capace di lanciare i sensi in nuove traiettorie, in luoghi d’ombra da illuminare. Un’operazione che è per me una spinta a collocarmi nel buio, in una messa in relazione vischiosa della cavità buccale e i suoi umori di travaso: tra il corpo e la bocca degli strumenti a fiato. Il pavimento salivare che voglio convocare è quello dell’orchestra: suolo bagnato e virulento di un suono ripulito in cui voci indistinte si affollano. C’è una collocazione in orchestra che vibra di abiezione per via dei liquidi corporei, ed è quella delle ultime file di ottoni, una vera e propria zona marginale tra tuba e flicorni. Sono gettati in un mare di collisioni salivari. Ho sempre vissuto nella convinzione che la giustificazione al posizionarli nell’ultima fila non fosse solo acustica, ma avesse a che fare con una storia viscida: nascondere i gesti sporchi.

Nella densità delle retrovie, suonare è una coreografia buccale in un percorso liquido e intrecciato, uno scontro con un corpo che si fa intestino argentato e umido: un corpo capace di gettare nell’imbarazzo e nel disgusto, perché produttore di rumori non legittimati socialmente. Il suono del corpo, che viene significato come sgradito in un’educazione al disgusto che ci vede tutt3 partecipi, viene qui liberato dagli orifizi. Lo psichiatra-musicista Peter F. Ostwald nel suo The Semiotics of Human Sound (1973) mette in evidenza un aspetto interessante al nostro discorso quando afferma:”Tra gli organi interni del corpo che fanno rumore, il tratto digestivo è probabilmente il più musicale, una sorta di banda in miniatura. La bocca, una specie di tromba, può sibilare, squillare e sbocconcellare. L’esofago, come un fagotto, produce gorgoglii, rutti ed eruttazioni che, se ben ritmati, possono suscitare una notevole ilarità. Lo stomaco, simile a un corno francese, gorgoglia, ringhia e geme. L’intestino, simile a un glockenspiel, tintinna durante la peristalsi. Il colon, simile a un trombone, si agita mentre si diletta a sbocconcellare una pappa semisolida. Di tanto in tanto i suoi rumori, soprattutto gli improvvisi bip e bip acuti, mettono in imbarazzo il direttore della banda. I brummps, simili a tubi, indicano il deposito di feci nel retto in previsione della scarica finale, accompagnata da una fanfara di rumori” (p. 28).

Il flicorno è colmo di buchi, incastri, zone umide e ossidabili, nascoste ma immediatamente visibili. Un insieme di curve che culmina nel buco in cui inserire il bocchino, costruito su misura a partire dalla propria bocca e la sua postura. Nel momento in cui l’umidità della cavità e mucosa orale interagisce col bocchino, il cumulo di condensa generato nella coppa scivola nelle tubature fino a sedimentarsi vicino alle leve o nelle zone a U. Dapprima ospite silenziosa, la saliva comincia a bollire e traboccare. Il suono non è più puro, contenuto, esce dal pentagramma e si fa corpo incontinente, rumore di bolla che devia il tono della nota. C’è una sensibilità a questa vibrazione salivare, un’educazione a un suono sporco, o pronto a spurgare. Un ascolto del proprio liquido, come in un corpo a corpo a membra scoperte. Il fantasma acquoso infesta il suono, e va cacciato come virus, in una sovrapposizione di voci che sembra quella di Chiara e Solange. Ed ecco la liberazione, il ferro di cavallo ricolmo di liquido denso viene estratto e velocemente svuotato a terra. Il suono è ripulito dai suoi strascichi corporei, le sue membra tornano a seccarsi in attesa di una nuova produzione trasparente. I pistoni vengono unti con l’olio, e ciò che sgocciola si unisce alle onde di saliva prodotte. Così pare una macchia di petrolio nell’acqua, che tanto correrà via senza responsabilità. Dentro le tubature l’aria passa come getto d’acqua putrida moderata. Postura, modulazione del soffio e movimento del diaframma fanno parte della pedagogia sonora con lo strumento. Un allenamento che muove organi, genera evacuazioni inaspettate e insegna una nuova gerarchia delle membra. 

Kinkaleri, I AM THAT AM I, 2010 ph Kinkaleri orizOK

Tra il corpo e l’intestino d’argento dello strumento si insinuano possibilità di suono, respirazione circolare e note fuori pentagramma fortemente infestate. È in quel registro fuori spartito tra corpo e flicorno che sta il ventriloquio, negli interstizi di un’aria rarefatta e condensata in cui l’ectoplasma accede furtivamente. C’è una pratica di limbo nella quale sorge un dybbuk, quello che Di Matteo ci ricorda essere, nella demonologia ebraica, uno spirito di un3 defunt3 che si appiccica come sostanza a un3 vivente parlando attraverso la sua bocca. Una ricerca tormentata di una bocca attraverso cui parlare, una voce che dal limbo si impianta in un altrove.

La voce entra, ventriloquizza lo strumento a fiato, lo fa parlare (senza parola); le corde vocali si attivano nel bocchino e provocano sbalzi di volumi. Uno svuotamento d’aria, un balzo di diaframma in cui produrre un lamento, una multifonia. Due vibrazioni sommate da due fonti che si tagliano, la vibrazione del soffio e quella della voce. Due sorelle che si infestano, in un atto di prevaricazione in cui la seconda disturba la prima, un contrasto di frequenza che la fa tremare.

Nel momento in cui la campana emette voce liquida si manifesta qualcosa che ricorda la bocca che sbava in Jerk, una proliferazione che finisce per andare fuori controllo e diventare stonatura. Nel suono storto si muove una voce che ne abbraccia le peggiori frequenze, creando un’inquietudine sonora simile a un canto funebre. Un crollo del confine tra dentro e fuori che finisce in un tripudio salivare a terra, funerale della bocca.

Il flicorno diventa la mano che direziona all’ascolto di una voce che sta nell’ottone in trepidante attesa di un trabocco. E se questa voce impigliata nelle condense interne degli strumenti venisse avvicinata a una fonte d’acqua? Se quel pavimento umido si alzasse di livello? 

Legittimare la presenza liquida usando l’acqua stagna come cassa di amplificazione dell’orrido suono corporeo, tornare nel buio della cavità orale e danzare con i suoi fantasmi: un corpo e il suo prolungamento intestinale argentato, una voce nei tubi umidi, una gola che apre al più-che-umano come in una grotta affollata. Nella bocca per la bocca.

Continua a leggere...

Nella sala Thierry Salmon dell’Arena del Sole di Bologna, la studiosa e curatrice di arti performative Piersandra Di Matteo, da anni interessata al rapporto tra scena contemporanea e ricerca vocale, incontra Adriana Cavarero, una delle più influenti interpreti del pensiero filosofico contemporaneo, capace di intrecciare teoria politica, pensiero femminista e filosofia della voce, fondatrice del Centro di Studi Politici “Hannah Arendt”.  

Con slancio e passione, Cavarero intreccia le sue riflessioni sul ruolo della voce come espressione incarnata della singolarità umana e della relazionalità, evidenziando come la vocalità, in particolare il canto corale, sveli nella “plurifonià” un potente strumento per un agire di concerto, come sintonizzazione delle singolarità sul fondamento dell’emozione. 

La conversazione ha avuto luogo a margine della lectio magistralis Potere e godimento della vocalità, tenuta all’Arena del Sole nell’ambito del ciclo Ecosistemi della complessità – PAROLA, curato da Enrico Pitozzi. 

Piersandra Di Matteo: La sua prospettiva filosofica sulla voce ha rivoluzionato gli studi sulla performance, riannodando il legame tra vocalità e incarnazione. E ha influenzato in modo radicale le pratiche artistiche. Criticando la tradizione logocentrica del pensiero occidentale, che ha privilegiato il logos attraverso un processo di devocalizzazione, la sua riflessione riposiziona la voce nel corpo, nella sua materialità pulsionale, nella logica dei sensi, riconoscendo valore all’unicità irriducibile e singolare di ogni soggetto. Vorrei partire da qui: dalla voce come marca del corporeo che rivela l’unicità in opera nella sfera relazionale…

Adriana Cavarero: La voce, in quanto suono e non parola, né semplice funzione della parola, trova nella sfera acustica il proprio spazio d’azione privilegiato. La tradizione filosofica, che le ha attribuito un ruolo strumentale, ha ignorato la voce proprio a causa della sua natura di emanazione corporea, effetto dei movimenti di laringe, polmoni, bocca… È necessario, invece, riconoscere a ogni voce la sua unicità incarnata, che può manifestarsi anche sul piano visivo ma si esprime principalmente attraverso il suono. L’immaginario occidentale, e con esso la tradizione del pensiero, fatica ad accettare l’irriducibilità della singolarità corporea, perché sfugge a categorizzazioni e logiche universalizzanti, resistendo alla disciplina e al controllo.

Un altro elemento cruciale nel processo di devocalizzazione del logos è certamente la dimensione relazionale della voce. Certo, si può cantare nel deserto, ma la voce, quando è ascoltata, convoca sempre un incontro che si inscrive in una fisicità condivisa. Chi fa teatro lo comprende profondamente: la performatività vocale coincide con una materialità fatta di vibrazioni, risonanze, riverberi tra i corpi. È, inoltre, essenziale evidenziare l’aspetto emozionale. L’emozione, insieme alle dimensioni affettive che si rivelano nel tono, nel colore e nelle inflessioni della voce, rappresenta un’ulteriore sfida per il pensiero filosofico, perché anch’essa è difficilmente contenibile entro parametri razionali e disciplinari.

PDM: Vorrei riflettere sulla capacità della phoné ditimbrare la lexis. Accade quando la vocalità, l’insieme delle attività e dei valori della voce indipendenti dal linguaggio, agiscono e modellano la scrittura con valori pulsionali. Ciò che mi interessa dell’uso della voce nelle pratiche performative di ieri e di oggi, è la capacità di contraddire il detto, di penetrare, bucare e far sgocciolare le parole, spingendo il linguaggio articolato verso un limite asintattico e agrammaticale che celebra la parola nel dire, nella materialità dell’emissione, nel suo corpo sonico…

AC: La voce risuona nella lingua, in tutte le lingue, in primis nella lingua di per sé. Prova ne è che riconosciamo le lingue straniere più dal suono che dalle parole. È un elemento perturbante che ci dice della dimensione particolare della lingua. Ogni lingua ha la sua musica, potremmo dire la sua canzone. Pensiamo all’italiano e ai suoi dialetti: ci sono tante lingue diverse in Italia, con le proprie canzoni, accenti e inflessioni. L’aspetto interessante è ciò che sfugge al controllo della macchina della significazione. Il fatto di non comprendere una parola è proprio ciò che potenzia al massimo grado la dimensione sonora e musicale della lingua. E come sappiamo, la voce che penetra il testo si manifesta nella poesia. Non c’è poesia senza voce. Se ogni lingua ha la sua canzone, ogni poesia è una canzone. Per essere poeti non basta scrivere e andare a capo, alludendo al verso. Senz’altro la poesia è una forma particolare di musicalità in cui agisce la vocalità. 

Global Climate Strike a Bologna (22 settembre 2023) Foto @Margherita Caprilli

Ma pensiamo all’Opera. Lì è esplicito il prevalere della vocalità sul contenuto delle parole. L’elemento sfidante sta nell’eccesso, nel godimento dell’eccesso che riguarda sia chi dà voce sia chi ascolta. C’è un legame etimologico tra “eccesso” e “accesso”: l’eccesso vocalico può essere inteso come l’accesso a una comunicazione non canonica, corporea, emotiva, trascinante. Non si tratta di raffinata filosofia, ma di riconoscere valore al realismo del nostro essere corpo. Qual è la sfida della grande vocalità operistica? È quella di eccedere il libretto: prenderlo, veicolarlo, ed eccederlo. Pensiamo alla famosa aria “Der Hölle Rache” della Regina della Notte del Flauto Magico di Mozart. Inizialmente si distinguono le parole, ma presto la vocalità, spinta ai suoi limiti estremi, si trasforma in puro vocalizzo. In Mozart riconosco una grandezza ma anche una crudeltà che si rivela nel risvolto del godimento della cantante ma anche del pubblico. Questo trionfo della vocalità sulla significazione si ritrova nelle opere di performer straordinari come Carmelo Bene, Demetrio Stratos o Cathy Berberian, dove la voce supera e talvolta contraddice il contenuto del discorso, come dicevi. La voce, con la sua carica affettiva, non solo attacca la significazione ma arriva persino a divorarne la forma.

PDM: Di recente mi sono occupata dell’interesse della scena contemporanea per la ventriloquia, impiegata come una peculiare tecnica vocale che, anche senza pupazzi, in chiasmo con la dimensione visiva, produce inganni acustici nel rilancio del suono altrove. È l’effetto della topologia paradossale di una voce pienamente corporea deviata da un parlante che nega l’affermazione “io parlo”. La voce non è qui il perno della prestazione scenica, parendosi a configurazioni che mettono in crisi la pertinenza univoca della pronuncia, restituendola come qualcosa che non è possibile intendere come propria. In questo quadro, è necessario porre l’accento anche sul corpo ventriloquizzato, la voce attribuita, incistata, l’azione coattiva del parlare “al posto di”…

AC: Ti rispondo con il Simposio di Platone. Questo dialogo è una drammatizzazione del pensiero, attraverso cui Platone presenta la sua teoria della filosofia. Lo fa costruendo un gioco a tre livelli di ventriloquia, che rappresenta l’aspetto più originale della sua dottrina: la teoria delle idee come percorso erotico verso la filosofia. Platone non esprime questa visione in prima persona. Affida il discorso a Socrate: il primo livello di ventriloquia. Attraverso la finzione della voce di Socrate, Platone comunica il suo pensiero. Ma Socrate, a sua volta, non dice ai compagni: “Ora vi spiego cosa sia la via erotica alla filosofia”; afferma di poter raccontare cosa sia l’amore e il filosofare a partire da quello che ha detto Diotima, sacerdotessa di Mantinea. È la voce di una donna a incarnare il terzo livello di ventriloquia. 

Platone era un genio teatrale. Il Simposio non è un’opera teatrale, ma se lo si mettesse in scena ci sarebbe un quarto livello. Questi quattro veicoli, che sono anche quattro passaggi, sono di fatto quattro livelli di spersonalizzazione. L’origine di questo gioco risiede nella figura della pizia, che, invasata da fumi mefitici attraverso l’orifizio vaginale e la bocca, dà espressione alla voce del Dio. È facile pensare che fosse il Dio a parlare, ma ciò che resta ineludibile è che questa voce transita inevitabilmente attraverso il corpo, un corpo femminile, ed è manifestazione tangibile di quella unicità.

PDM: In questo momento sto nutrendo un passaggio concettuale dalla voce all’ascolto. Negli anni recenti, le pratiche performative hanno rivelato un interesse crescente per l’ascolto, come istanza critica e creativa dotata di propria agency. È un ascolto che si rivela nell’interfaccia tra i livelli profondi della percezione intercorporea (inner sound) e quelli panoramici del mondo esterno (soundscape). Mi interessa esaminare le condizioni materiali, istituzionali e sociali che plasmano le condizioni dell’ascolto, spingendosi oltre il suono e la fisiologia dell’orecchio. Si tratta di pensare la sfera acustica come un campo relazionale, tattile e affettivo, oltre l’udibile; un’energia multimodale e incarnata che, sorpassato l’approccio cocleare, si rivela plasma di intra-azioni, medium intercorporeo che alimenta sintonizzazioni consonanti/dissonanti, terreno di identificazioni basate sulla risonanza, ritmi comunitari tra e attraverso i corpi. Cosa pensa di una concezione dell’ascolto in questi termini?

AC: Capisco molto bene quello che intendi per un ascolto oltre l’udibile, inteso come un’esperienza sensibile che opera attraverso la dimensione vibrazionale, il coinvolgimento del corpo, del torace, della pelle, e non solo dell’orecchio. In questa prospettiva, mi sono occupata della sonorità delle piazze. Potremmo chiamarla “musica della democrazia”, per fare una formuletta. Ma non basta guardare alla fenomenologia materiale della piazza, per parlare di democrazia.

Manifestazione Nazionale NUDM (Roma, 25 novembre 2023) Foto @Margherita Caprilli

PDM: È l’alleanza dei corpi che si radunano e s’intonano, attivano dinamiche di sintonizzazione in quanto pluralità interagente, complicità che riverberano…

AC: Sì, esatto. Parlare assieme, cantare insieme. Mi riferisco a quando il soggetto collettivo entra e opera nello spazio pubblico. Ho affrontato questa problematica dalla prospettiva dell’elemento reciproco dell’emettere e dell’ascoltare. È una relazionalità diffusa, sonora e acustica, un luogo segnato da un’intensa emotività che parla di comunità, che preferisco definire pluralità. Ho distinto tra la voce della massa, un conglomerato indifferenziato di individui che si fondono in un sol corpo, e la voce della pluralità, che in chiave arendtiana, si riferisce a una voce che non agglutina gli individui ma esalta l’unità incarnata di coloro che la compongono. Parlo di “democrazia sorgiva” quando è incarnata da voci uniche che recitano coralmente, dov’è in gioco cacofonia, armonia, un brusio, possiamo dire con Barthes. Una plurifonia, appunto. 

Nella fonosfera della massa, il canto è una delle espressioni più tipiche e coinvolgenti.  Pensiamo alla simultaneità di voce e gesto nell’estetica fascista, dove gli individui si fondono in una voce deindividualizzata che ingloba il singolo in una dimensione intrisa di valori arcani, sinistri, e non per questo meno seducenti nella loro terribile ambiguità. Nella fenomenologia del totalitarismo la sonorità della piazza mette in gioco la performatività dell’essere uno, un sangue, un corpo. Poi ci sono piazze diverse, penso alle piazze femministe perché questa è la mia esperienza. Dove c’è lo stare assieme, laddove l’ascolto implica il riconoscimento della pluralità, della differenza, delle differenze che sottraggono l’agire politico alla morsa di dinamiche spersonalizzanti e fusionali. 

PDM: È uno stare insieme, una prossimità dei corpi, che si è allenato nel riverbero complice tra voce-ascolto nella pratica dell’autocoscienza…

AC: Assolutamente. Ma vorrei tornare alla questione che ponevi sull’ascolto. Ho la sensazione che sto facendo un percorso inverso al tuo. Da tempo studio il mito delle sirene, la sua ricezione. È un vecchio interesse che sto approfondendo, nella letteratura e nella storia della filosofia, a partire da Omero, ma dialogando anche con Kafka, Adorno, Saramago. Tutta una continua elaborazione del mito con diverse versioni che prendono le mosse da un nucleo irriducibile. L’episodio delle Sirene è sempre stato visto e analizzato dalla prospettiva dell’ascoltatore: Ulisse, il protagonista del mito, che ascolta senza morire per via di un trucco della ragione. Si narra spesso dei poveri marinai che hanno ascoltato e, sedotti, giacciono esangui sugli scogli. Trovo interessante capovolgere il plot del mito e raccontarlo dal punto di vista del godimento delle Sirene a partire dall’emissione polifonica, che preferisco definire “plurifonica”. Con questo neologismo pongo l’accento sulla pluralità sincronica di voci distinte, un insieme di singolarità che cantano per il proprio godimento collettivo. 

Manifestazione per Giulia Cecchettin – NUDM (Bologna 22 -11 – 2023) Foto Margherita Caprilli.

C’è un verso in una poesia di Eliot, pubblicata in Collected Poems del 1963, che recita: “I have heard the mermaids singing, each to each. / I do not think that they will sing to me”. In italiano suona: “Ho sentito cantare le sirene l’una all’altra ./ Non credo che canteranno per me”. Non mi interessa approfondire cosa intenda esattamente Eliot in questo passaggio; preferisco concentrarmi su ciò che emerge dalla lettura. È istruttivo affrontarlo con uno sguardo ingenuo: il testo sembra suggerire che l’intera trama, il piacere e il significato del racconto risiedano nel fatto che le Sirene cantano insieme, l’una per l’altra, attraverso il loro narrare. Sorprendentemente, il loro canto non è rivolto a Ulisse né ai marinai. Ulisse, simbolo di astuzia e razionalità, sfida le Sirene trovando l’inganno per ascoltarle senza perire. Le Sirene rappresentano l’animalità, sono esseri ibridi, metà uccello e metà donna. Con l’evolversi del mito – ad esempio in Andersen, nella cui versione viene loro cavata la voce, fino alle reinterpretazioni di Disney – le Sirene si trasformano in creature metà donna e metà pesce, assumendo i tratti di un ideale desiderio maschile: un corpo molle, iridescente. Il mio interesse sta nel ribaltare questa dinamica di oggettificazione in soggettivazione, in un processo che, attraverso il “cantare insieme”, pone valore all’esperienza del godimento condiviso. Non solo nel senso fisico del canto, nella vibrazione della gola, ma nel piacere di creare un’armonia collettiva, una plurifonia, appunto.

[Ringraziamo Margherita Caprilli per la concessione delle immagini] 

Continua a leggere...

Dicembre 2024
A cosa serve la lista del patrimonio immateriale Unesco, dunque?
Stefano Monti

Il Patrimonio Culturale, si legge sulla pagina ufficiale di Unesco Italia, “non è solo monumenti e collezioni di oggetti ma anche tutte le tradizioni vive trasmesse dai nostri antenati: espressioni orali, incluso il linguaggio, arti dello spettacolo, pratiche sociali, riti e feste, conoscenza e pratiche concernenti la natura e l’universo, artigianato tradizionale.” 

La rilevanza che tali componenti rivestono nella generale formazione culturale individuale e collettiva è innegabile, e proprio a fronte di tale rilevanza, è forse il caso di iniziare ad interrogarsi sulle modalità con cui attualmente si ritiene tale “patrimonio culturale immateriale” debba essere supportato.

Senza entrare in dettagli tecnici, di base, ci sono tre principali modalità attraverso le quali ad una determinata componente immateriale può essere garantita la sopravvivenza: se la tradizione è “viva”, e quindi ha ancora un valore vitale per la comunità in cui tale tradizione ha avuto origine o si è estesa, seguendo talvolta le migrazioni degli uomini, tale tradizione mantiene il proprio carattere di autenticità ed è sostenuta, sia economicamente che sotto il profilo contenutistico sia ancora attraverso l’adesione e la partecipazione, dalla comunità di riferimento, attraverso organizzazioni, strutturali o spontanee, che possono agire anche ignorando l’importanza che queste giocano a livello globale.

Quando ciò non accade, tuttavia, e quindi quando una determinata tradizione, per una serie molto eterogenea di ragioni, smette di essere vissuta, sostenuta e sufficientemente finanziata dalla propria comunità di riferimento, si incorre nella necessità di rintracciare modalità di finanziamento ulteriori: tali fonti possono essere le risorse private (imprenditori e finanziatori che decidono di donare risorse economiche come liberalità o a fronte di vantaggi specifici), o enti collettivi (risorse pubbliche territoriali, regionali, nazionali, internazionali), o ancora finanziate attraverso l’estensione dei soggetti cui tale tradizione si rivolge, incentivando quindi visite turistiche e fenomeni di spettacolarizzazione.

Tutte queste dimensioni sono portatrici di “finanziamenti” che se da un lato assicurano continuità ad una tradizione, dall’altro presentano anche delle criticità che è utile approfondire.

Il sostegno pubblico, ad esempio, rischia di ridurre la partecipazione spontanea da parte dei cittadini e delle comunità di riferimento. Si tratta di una dimensione alquanto nota nell’ambito della psicologia prosociale, vale a dire quella branca della psicologia e di altre discipline collegate, che analizzano il comportamento che individui e comunità adottano in una logica di benessere sociale collettivo. In genere, in questi casi, si parla in genere di effetto sostituzione, vale a dire la riduzione di impegno personale da parte degli individui che può ad esempio derivare dalla costituzione di una struttura organizzativa deputata al sostegno delle persone più fragili di una collettività. Episodi di questo tipo sono stati riscontrati in contesti molto eterogenei, che spaziano dalle comunità indigene alle più strutturate comunità rurali in Cina. Ma si può trovare, per restare in ambito “culturale”, anche in alcune istituzioni del nostro Paese, che, fondando la propria sopravvivenza principalmente su una componente di sostegno pubblico, sono meno interessati rispetto ad altre organizzazioni a coinvolgere attivamente i soggetti privati o i cittadini all’interno delle proprie attività.

Il sostegno privato, d’altro canto, rischia un utilizzo strumentale della cultura e delle tradizioni locali. Tale rischio è poco elevato quando ad intervenire è la stessa comunità di riferimento: un imprenditore locale, che condivide con il resto della comunità l’adesione a determinate pratiche culturali, può aderire sicuramente per ottenere una maggiore visibilità, ma lo farà tenendo conto del concetto di “reward” all’interno del proprio contesto di riferimento. In altri termini, e accettando le semplificazioni, se un imprenditore siciliano decide di finanziare, attraverso una sponsorizzazione o una liberalità una manifestazione ascrivibile all’opera dei pupi, lo farà nel pieno rispetto di quella tradizione, perché al di là della visibilità del logo aziendale, ci sarà anche la visibilità e la ricerca di “rispetto” e di “appartenenza” alla propria comunità.  Se quello stesso imprenditore siciliano decide invece di finanziare uno spettacolo ascrivibile al Teatro Nōgaku,  è naturale sia più interessato alla dimensione aziendale che al proprio status in una comunità cui non appartiene.  Inoltre, la dimensione di finanziamento da parte di soggetto privato esterno alla comunità di riferimento, rischia di sviluppare criticità analoghe a quanto già visto in tema di sostegno pubblico. In entrambi i casi, poi, nel caso in cui il finanziamento provenga dall’esterno della comunità e si strutturi in eccesso rispetto alle reali esigenze, il rischio che ci siano distorsioni nel comportamento degli agenti privati non può essere del tutto escluso.

L’estensione dei soggetti interessati, e lo sviluppo di economie correlate al determinato patrimonio culturale immateriale, ipotesi che nella maggior parte dei casi si sostanzia nel fenomeno turistico, introduce ulteriori criticità spesso significative per la stessa sopravvivenza  di tale patrimonio: uscendo dalla lista dei patrimoni Unesco, l’insieme di festività tradizionali che a fronte di un sempre maggior numero di turisti tendono ad essere percepite sempre meno “identitarie”, e sempre più “business-oriented” in Italia è altissimo. La Festa delle Sardine, ad esempio, o i Riti Settennali di Guardia Sanframondi. L’approccio turistico incentiva lo sviluppo di dinamiche che tendono ad una costante estensione della manifestazione o del patrimonio culturale immateriale. L’estensione di tali manifestazioni, unito alla valorizzazione delle componenti più spettacolistiche, rischia infatti di allontanare da una determinata tradizione proprio coloro cui la tradizione è principalmente rivolta.

Se all’improvviso, nel villaggio di  Afounkaha, in Costa d’Avorio, si assistesse all’arrivo di centinaia e centinaia di ragazzi provenienti da ogni parte del globo per assistere ad uno spettacolo Gbofe, il rischio che gli abitanti del villaggio cerchino di massimizzare i profitti economici legati alle proprie manifestazioni tradizionali è tutt’altro che teorico. Così come tutt’altro che teorico è il rischio che un boom turistico all’interno di un’area urbana non ben preparata a tale evento possa portare ad una riduzione della qualità dei prodotti tipici locali, e citare Napoli e il calo della qualità della pizza in quelli che erano considerati i templi di questa istituzione è forse anche superfluo.

A cosa serve la lista del patrimonio immateriale Unesco, dunque?

Come sempre, la risposta non è mai univoca, perché mai come nella cultura, la generalità è tutt’altro che un insieme di casi omogenei. In alcuni casi, è corretto affermare che tale lista è una modalità per agevolare dei trasferimenti internazionali, come nel caso di fondazioni private che intendono favorire lo sviluppo di determinate aree, e che agiscono in questo senso favorendo il finanziamento di particolari patrimoni immateriali. In altri, è invece più corretto sostenere che tale lista ha una funzione di incentivo, e vale a dire quella di favorire l’emersione di una maggiore consapevolezza dell’importanza culturale internazionale di una manifestazione tipicamente locale. Ancora,  in altri casi  la lista mira a sviluppare un approccio sistemico e organizzato per favorire la continuità delle manifestazioni. 

C’è poi un altro ruolo, che dovrebbe essere invece quello prioritario, su cui la lista UNESCO ha avuto sinora un impatto che non è polemico affermare sia notevolmente più basso rispetto a quanto ci si attendesse: la diffusione di conoscenza.

La lista si arricchisce, con cadenza periodica, di elementi che sono sicuramente sconosciuti alla maggioranza della popolazione mondiale, e probabilmente la maggior parte del patrimonio culturale immateriale inscritto all’interno della lista UNESCO di una nazione (ad esempio l’Italia) è probabilmente sconosciuta anche alla maggioranza degli italiani stessi.

Sicuramente si può arguire che lo scopo primario della lista non sia quello di diffondere la conoscenza delle singole manifestazioni, ma quello di tutelare la persistenza di tali manifestazioni o patrimoni immateriali della cultura, ma senza un’attività realmente educativa, che richiederebbe anche risorse aggiuntive che a quanto pare l’UNESCO attualmente non ha, si può dire davvero assolta la ragion d’essere della lista stessa?

Continua a leggere...

Dicembre 2024
Note su Piazza Fontana e sulla morte di Pinelli
Valeria Verdolini

“La mia memoria, signore, è come uno scarico di immondizie” dice Ireneo Funes, protagonista del lucente ed omonimo racconto di Borges. Funes ha l’incredibile capacità di ricordare ogni dettaglio, ogni crine della criniera del cavallo, ogni bolla della spuma del mare. Eppure, quella memoria diventa la sua condanna, lo paralizza e lo blocca. Per Borges quell’atto di perenne ricordo rappresenta l’obbligo a dover ininterrottamente pensare e ripensare, senza trovare la pace dell’oblio. Tale maledizione del ricordo viene ripresa anche da Elias Canetti, ne “La tortura delle mosche” in cui identifica tre gradi di disperazione: “Non ricordarsi di nulla, ricordare qualcosa, ricordare tutto”. Per Canetti accumuliamo in ogni vita i debiti di molte esistenze, e scegliamo a quali attingere sulla base di un’unica tonalità emotiva: la gratitudine o l’amarezza, la nostalgia o l’odio.  

In un tempo in cui si tende proprio a non ricordarsi di nulla, soprattutto del passato prossimo più tragico e doloroso, a queste parole ho pensato spesso, soprattutto nell’ultimo mese, dopo la scomparsa di Licia Rognini Pinelli, forse una delle persone che più ha saputo fare dell’esercizio della memoria una missione di vita, rendendo la storia privata quasi soltanto (non) sua, quindi politica. A queste parole penso soprattutto oggi, a 55 anni dalla strage di Piazza Fontana, avvenuta il 12 Dicembre 1969.

La longevità di Licia Pinelli ha reso la sua battaglia di verità e giustizia per la morte del marito Pino vitalizia, un lavoro politico che è proseguito per decenni. Tuttavia, quel tempo di vita così largo non è stato comunque sufficiente per vedere affermato (sia in sede giudiziaria, che come memoria condivisa) ciò che lei ha sostenuto sempre: Pino non si è ucciso. Una certezza ormai di senso comune che non ha avuto riscontri processuali. Un nodo nevralgico proprio perché nella simulazione e nei depistaggi della sua morte si trovavano annidate le vere cause della bomba alla Banca dell’Agricoltura.

A differenza dell’elenco di Canetti, nei molti ricordi evocati al suo funerale, c’è una tonalità emotiva che ricorre per descriverla sempre: la fermezza. Si tratta di un sentimento necessario per resistere alle temperie politiche, alle strumentalizzazioni e alle fatiche del tempo materiale; alla difficoltà di reperire testimoni, parti attive, pezzi della storia. 

Licia Pinelli solo nel 2009, a 40 anni dalla strage, è stata riconosciuta come “vittima” del terrorismo e invitata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alla giornata della memoria. In quell’occasione, il presidente definì il marito Pino “vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti, e poi di un’improvvisa, assurda fine”. 

Una delle ragioni di questa permanenza vittimaria sta nel fatto -ricordato in occasione della morte di Licia dal giudice Guido Salvini- che in questi anni non si è mai celebrato un processo per le responsabilità della morte di suo marito. E finché non c’è giustizia, la vita non può ripartire, si rimane potenziali parti processuali. La verifica giuridica dei fatti è tanto più necessaria laddove lo Stato ha avuto una parte attiva negli eventi. La riflessività delle istituzioni sulle proprie colpe e responsabilità sono alcuni dei cardini propri dei sistemi democratici, laddove compiono delle falle, e nei casi in cui chi dovrebbe proteggere i cittadini ne diventa abusante.

La storia e la memoria nascono dalla stessa urgenza e sono indirizzate allo stesso fine, ossia elaborare il passato. Come scrivono alcuni storici, questi due movimenti non sono alternativi, bensì gerarchici. Se la memoria è una sorta di matrice, la storia è una scienza, un’arte, che cerca di trovare le risposte alle domande poste dalla memoria e prendendone le distanze. Questo vale per la maggior parte degli eventi, ma in qualche modo il meccanismo si inceppa nel momento in cui il legame con la memoria è vivo, ha capacità performativa nel presente, non può essere storicizzato. Finché la memoria è trauma, non può esserci né storia né pacificazione. 

Un meccanismo che vale per i lutti privati, ma a maggior ragione per i traumi collettivi e politici, come è stato evidente in questi mesi di conflitti in Medio Oriente.

Sarebbe irrispettoso citare, come fatto fino ad ora, solo la diciottesima e “conseguente” vittima della strage di Piazza Fontana, senza richiamare i morti e gli ottantotto feriti che hanno subito l’esplosione alla Banca dell’Agricoltura, a cui va il cordoglio e il doveroso esercizio di memoria. Andrebbero sempre evocati tutti come alle commemorazioni delle 16.37; come fa Pier Paolo Pasolini in Patmos, in cui ogni nome, ogni storia è seguita dall’inciso: “Presente!”. Il poeta sceglie l’isola che ospita la grotta dell’Apocalisse, incastonata nel crostone di roccia che sorregge la chora bianchissima per parlare del centro di Milano, di quella piazza nascosta all’ombra del Duomo. Nel poema, Pasolini prende le distanze dal dolore della cronaca e della prossimità, per interrogare, da subito, la storia: “la porta della storia è una Porta Stretta/ infilarsi dentro costa una spaventosa fatica/ c’è chi rinuncia e dà in giro il culo/ e chi non ci rinuncia, ma male, e tira fuori il cric dal portabagagli, /e chi vuole entrarci a tutti i costi, a gomitate ma con dignità”. Giorgio Boatti ha usato la felice espressione “giorno dell’innocenza perduta”, ma sono state molte le cose e le questioni smarrite in questi 55 anni. Boatti ci parla di un’innocenza che “riguarda chi, il giorno dei funerali, stava dalla parte delle vittime della strage. E assisteva sgomento, nei giorni e nei mesi successivi, alle menzogne sistematiche, ai depistaggi e alle inchieste deviate”. Il rifuggire da una verità processuale ha -infatti- prodotto nuovi traumi che richiedono forme di ricomposizione sociale e politica. 

Dello stesso avviso era Franco Fortini, che nella sua cronaca dei funerali di Pinelli scriveva: “Non so come ma ho la certezza che con la strage di pochi giorni fa, l’orrendo coro dei giornali e questo assassinio del Pinelli, è davvero finita un’età, cominciata ai primi del decennio. È possibile il silenzio degli uomini dell’opinione, i difensori dello stato di diritto? Sì, è possibile. La paura è veloce”. 

Mai come in questo secolo, mai come negli ultimi mesi, storia e memoria sono state evocate e intrecciate alle forme e alle strutture della giustizia, ma anche altrettanto silenziate, spesso proprio in quelle aule di tribunale. Eppure una ricostruzione non lontana da quanto raggiunto in questi ultimi 55 anni era già stata prodotta in tempi rapidi, nel giugno del 1970. Strage di Stato, un volume di controinchiesta identificava i neofascisti come autori della strage di Piazza Fontana e gli uomini dello Stato come mandanti. Si trattava di un lavoro attento di controinformazione, frutto di una collaborazione tra militanti, sindacalisti, accademici, magistrati e giornalisti. Questi autori furono i primi a indagare il coinvolgimento dell’estrema destra nella strage della Banca dell’Agricoltura, influenzando il dibattito pubblico dell’epoca e introducendo il termine “strage di Stato”, che sarebbe diventato un riferimento importante nei decenni successivi. Quella verità, subito diffusa, non poteva trovare -allora- una legittimazione istituzionale, e fatica ancora oggi a farsi spazio (ahimè, tanto giuridico quanto politico). 

Le strutture amministrative si sono arenate molte volte nel tentativo di ricostruire le vicende, per lungo tempo coperte dal c.d. “segreto funzionale”, e quindi, come tali, non accessibili. Un segreto che per lungo tempo era apparso come “necessario”, per preservare la tenuta dello Stato, evitare l’esarcebarsi del conflitto sociale. Un’urgenza che a distanza di cinquantacinque anni non sembra più così stringente. Abbiamo assistito ad un patto di oblio che ha permesso in questi anni non solo di contenere l’uso pubblico della storia, ma anche di conservare l’esercizio del potere. Come ha scritto Elias Canetti, “Il segreto sta nel nucleo più interno del potere. Il potente che si serve del proprio segreto lo conosce con esattezza, e sa bene apprezzarne l’importanza nelle varie circostanze. […] Egli ha molti segreti, poiché vuole molto, e li combina in un sistema entro il quale si preservano a vicenda. Un segreto confida a questo un altro a quello, e fa in modo che i singoli depositari di segreti non possano unirsi fra loro. Chiunque sappia qualcosa viene controllato da un altro, il quale però ignora quale sia in realtà il segreto del sorvegliato”. 

Mentre lo spazio per accedere a quei segreti (ora che sono quasi tutti morti) sembra ipoteticamente aprirsi, allo stesso modo la stanchezza di questi cinquantacinque anni inizia a farsi sentire. Non solo non sembra più centrale far chiarezza, ma spesso sembra faticoso ricordare. Chi va in piazza il 12 dicembre, il 2 agosto, il 28 maggio? Perché ci va ancora? Per la memoria di ieri o per la domanda di giustizia dell’oggi? 

I risultati di decenni di inchieste giudiziarie e processi per le stragi e i tentativi di colpo di Stato si sono conclusi con la mancata individuazione dei colpevoli, fatta eccezione per tre casi (Peteano, Questura di Milano e, in tempi più recenti, piazza della Loggia), senza comunque parlare dei mandanti. Questo ha determinato la disallineata sovrapposizione tra verità storica e verità giudiziaria e ha legittimato la nascita e il consolidamento di un senso comune che potremmo definire “confuso”.

Un senso comune che si è costruito su tanti pregevoli lavori di inchiesta che hanno cercato di fornire risposte alle tante domande ancora senza risposta. Penso al ruolo di Camilla Cederna, di Corrado Stajano, di Pietro Scaramucci, di Carlo Smuraglia, di Enrico Deaglio. O ancora alle opere teatrali di Dario Fo e Franca Rame. Al lavoro culturale che ha sopperito l’assenza istituzionale. Così come quello civico, portato avanti dall’Associazione Piazza Fontana, del Comitato permanente antifascista, dall’ANPI. 

Come hanno affermato i giornalisti Alberto Nerazzini e Andrea Sceresini, nel loro recente e dettagliatissimo podcast di inchiesta 121269 a cui rimando, “Possiamo solo provare a chiudere dichiarando che nemmeno la giustizia italiana è sempre in grado di prodursi l’alibi. Perché troppo spesso non è dove bisogna essere, non ascolta chi deve ascoltare, non scava dove bisogna scavare”. 

Tale ignavia istituzionale è il riverbero della domanda politica, centrale in questo cinquantacinquesimo anniversario: quanto ci interessa oggi sapere cosa è accaduto davvero? Quanto quella verità potrebbe essere utile non solo alla domanda di giustizia, ma anche al rivedere l’oggi, al ripensare il presente? A cosa ci serve, nel 2024, quel passato, quando non riusciamo a farci memoria nemmeno del presente di sterminio? Quali danni ha prodotto quell’assenza di memoria e di giustizia nella nostra incapacità di ricordare e di chiedere il riconoscimento delle responsabilità odierne? Per i parenti, le persone coinvolte direttamente da quegli eventi dolorosi, è chiaro che tutto questo serve a restituire dignità, pace e a permettere loro di ricordare l’affetto privato anche scegliendo di abbandonare finalmente la dimensione pubblica di “testimone”. Ma quest’anno, in cui alcune delle principali protagoniste di quelle battaglie sono venute a mancare, a cosa ci serve ricostruire quelle vicende? Licia Rognini Pinelli l’aveva chiarito nella sua autobiografia: quella storia è QUASI soltanto loro. In quel “Quasi” è custodito il senso di tutto. La storia di piazza Fontana è una storia sempre collettiva. Ci riguarda. Riguarda la storia dell’Italia repubblicana, e di uno dei momenti più oscuri di questa traiettoria. Come ha scritto Vladimir Jankélévitch: “Il passato […] non solamente domanda di essere cercato, ma di essere ancora completato”. Non si tratta soltanto di un completamento conoscitivo. Il passato può essere visto come un repertorio di possibilità non realizzate a cui attingere per ispirare il presente e le azioni da compiere. Fare i conti con il passato permette, oggi più che mai, di non riattivare fantasmi, attribuzioni, depistaggi. Permette di distinguere i fascismi di ieri da quelli attuali. Permette di non incolpare le piazze per le responsabilità istituzionali. Permette di contestare con fonti legittime le forme di revisionismo e disinformazione, i negazionismi dell’oggi. Potrebbe concedere alla democrazia di crescere, di diventare solida, matura, e di avere meno segreti. La cronaca dei funerali di Pinelli, scritta da Franco Fortini si conclude con “chissà cosa ci porta il domani”. é una domanda aperta, che interroga il qui ed ora, da cui dobbiamo partire, se vogliamo che quanto accaduto 55 anni fa diventi un mai più, prima che il passato mai risolto ritorni come presente, senza possedere più gli strumenti culturali e politici indispensabili per poterlo combattere. 

Continua a leggere...

Quale rapporto esiste tra innovazione, mutualismo e cooperazione? Le ragioni alla base di questo interrogativo derivano sia da evidenze che da mancanze. Rispetto alle prime si moltiplicano iniziative, per quanto ancora sporadiche e limitate nonostante l’hype narrativo, che cercano di combinare in modo nuovo i termini in questione. Le mancanze, che forse agiscono maggiormente nel porre l’interrogativo, derivano da uno svuotamento della cultura d’uso dell’innovazione che a fronte di capacità di adoption limitate tende a “girare a vuoto” in termini di sostegno a capacità trasformative. In estrema sintesi innovazioni incapaci di generare quei cambiamenti positivi e duraturi che appaiono sempre più necessari a fronte di sfide la cui soluzione non è più rinviabile.

Prima però di valutare la solidità dei nessi è necessario stabilire la natura delle relazioni. Da questo punto di vista pare consigliabile puntare sulla ricerca di affinità elettive tra innovazione, mutualismo e cooperazione. Quindi non vere e proprie correlazioni o ancor di più legami causali rigorosi e univoci, ma piuttosto quelle “direzioni di condizionamento reciproco” che esistono ma non sono predeterminate e univoche, come sosteneva Weber ispirandosi all’omonimo romanzo di Goethe per spiegare l’influenza tra etica protestante e spirito del capitalismo.

Una volta definito il quadro delle relazioni è possibile indagare su queste affinità, in particolare su come si caratterizzano rispetto al contesto storico che stiamo vivendo e che in modo un po’ sbrigativo ma comprensibile possiamo definire come “era delle transizioni”. Considerato questo stato processuale e di passaggio la modalità di analisi dovrebbe essere prima di tutto fenomenologica piuttosto che teorico concettuale. Guardare cioè a innovazione, mutualismo, cooperazione per come si manifestano oggi nella loro versione più “superficiale” o manifesta piuttosto che fondativa che rischia di essere escludente in un contesto fluido come quello attuale. In termini fenomenologici la prospettiva dovrebbe inoltre essere bifocale, guardando simultaneamente sia agli elementi mainstream – cioè i caratteri riconosciuti come più diffusi a livello narrativo – che  quelli emergenti e divergenti. E a partire da questo punto di osservazione riscontrare la tenuta e l’evoluzione della loro base di significato, della loro ideologia sottostante che prende forma intorno a modellistiche “sacralizzate” attraverso principi generali sostenuti da sistemi esperti fatti da ricercatori e addetti ai lavori. In questo modo si potrà verificare se esiste, o se si sta formando, una qualche prospettiva comune che sia in grado di costruire una rappresentazione sociale definita e peculiare – una specie di teoria dal basso – che tenga insieme innovazione, mutualismo e cooperazione.

Dopo questa lunga premessa un po’ metodologica e molto di svelamento della postura culturale nei confronti dei termini e delle loro relazioni, si può iniziare a definire la fenomenologia mainstream, il “discorso” dominante potremmo dire, di ciascun termine.

  • Guardando all’innovazione sembra permanere un approccio “soluzionista”, cioè legato all’individuazione di bisogni / problemi ben definiti intorno ai quali attori diversi e in qualche modo specializzati ad operare come “agenti di cambiamento” che concorrono per cercare di risolvere in modo originale la sfida.
  • Per quanto riguarda il mutualismo questo particolare legame di interdipendenza tende a realizzarsi soprattutto attraverso approcci di scambio tra persona e organizzazione, il più possibile contrattualizzati e rendicontabili.
  • Rispetto alla cooperazione, intesa come forma istituzionale, prevale una tendenza a riprodursi soprattutto “per omogeneità” e continuità, dove col primo termine si fa riferimento alla constituency delle basi sociali e con il secondo ai principali settori d’intervento.

Se invece si guarda alla fenomenologia emergente (o alternativa) dei tre termini si evidenziano aspetti differenti:

  • l’innovazione assume sempre più una prospettiva di cambiamento sistemico, che si gioca a livello di policy e di advocacy, adottando una prospettiva d’impatto che non si riduce a mera rendicontazione (o peggio riposizionamento funzionale allo status quo);
  • per quanto riguarda il mutualismo si nota una maggiore ricerca di riconoscimento e condivisione tra gli attori; e questo assegna più peso dialettico e conflittuale al fine di sostanziare il principale elemento di valore della società cioè la diversità;
  • infine la cooperazione sta riemergendo, paradossalmente, andando oltre sé stessa ad esempio attraverso modelli multistakeholdership e ibridi come innovazione istituzionale.

Su questa bene si possono individuare le affinità.

Nella versione mainstream l’innovazione adotta approcci cooperativi e modelli mutualistici come correttivi o integratori a fronte della crescente difficoltà di “matchare” domanda e offerta, con la seconda che domina sulla prima. In questo caso si possono segnalare programmi “ingegnerizzati” di open innovation, il ritorno di fiamma per le comunità di pratica o le community di early adopters di nuove tecnologie.

Nella versione emergente cooperazione e mutualismo sono utili per cambiare verso all’innovazione (digitale in particolare) riscrivendo la narrativa di questa ultima ideologia. Subentra, in questo passaggio, una maggiore enfasi sulla governance, in particolare rispetto alla materia prima dei dati e sulla formazione e condivisione di nuovi asset patrimoniali intangibili, ovvero apporti progettuali e di altra natura che derivano da scambi ad elevata intensità di condivisione dei mezzi e dei fini dell’azione.

Continua a leggere...

Dicembre 2024
Filippo La Porta

Pubblichiamo un saggio di Filippo La Porta dall’ultimo numero di Parole-Chiave. Classi (Carocci), ringraziamo l’editore per la disponibilità

«Sessant’anni di pace, e viverli tutti, sono una bella botta di culo. Ma quella che chiamiamo pace non fu altro che una forma terrificante di guerra intestina… la feroce & sanguinosa guerra tra le classi, ma non solo… sono stati sessant’anni di guerra tutti contro tutti, che dura ancora, quella degli interessi individuali per l’accaparramento di potere e risorse, per la conquista di posizioni dominanti» (Francesco Pecoraro, Questa e altre preistorie, Le Lettere, 2008). Pecoraro quindici anni fa pubblica in un libro i suoi interventi in Rete firmati come Tashtego e racconta la catastrofe epocale e quotidiana del nostro tempo. Quella che doveva essere la fine della preistoria, prevista da Marx come conseguenza di una dialettica della Storia virtuosa (certo non inevitabile ma ragionevolmente possibile), somiglia a un’epoca che sembra regredire all’età della pietra.

Ma che fine ha fatto il “popolo” di una volta? Quello di Vasco Pratolini – un popolo stratificato che pure proveniva dall’Ottocento e che è stato variamente interpretato in politica – non esiste più. È stato sostituito dalla massa, per sua natura indifferenziata, e anzi, come ci avverte Asor Rosa, dalla «massa mediocre che ha stabilito con il sistema democratico un compromesso, che consiste nell’accettare di viverci dentro, svuotandolo» (si veda Scrittori e massa, 2014, pubblicato cinquant’anni dopo Scrittori e popolo, 1965). Si tratta della massa apatica, passiva, del tutto acritica delle democrazie attuali, non di quella in perenne sovreccitazione dei fascismi. Mario Tronti aggiunge che coincide con il borghese-massa (una locuzione che ricalca quella celebre dell’operaio-massa, privo di professionalità, protagonista del ciclo di lotte sociali degli anni Sessanta e Settanta), con l’uomo-massa democratico “sbarcato sul nostro continente insieme agli eserciti degli Alleati”, che per lo stesso Tronti si è tradotto in un “totalitarismo democratico”, con la fine della politica e del pensiero stesso. Concordo con la diagnosi ma ho qualche dubbio sulle conclusioni – certo comprensibili ma per me unilateralmente apocalittiche – di quelli che furono i padri dell’operaismo teorico, come dirò tra poco.

Vorrei anche precisare che questa ricognizione sul tema delle classi sociali nella letteratura italiana contemporanea è tutt’altro che esaustiva. Non basterebbe un intero saggio. Per comodità distinguo subito due temi distinti, che pure hanno attinenza con la questione delle classi sociali: la rappresentazione letteraria del lavoro, del lavoro post-fordista fondato su intelligenza, informazione, socialità, attitudine dialogica (insomma il capitalismo cognitivo della celebre pagina dei Grundrisse sul “general intellect”); e poi la rappresentazione letteraria del denaro. Cominciamo da qui.

La roba

“Il denaro. I soldi. La pilla. I baiocc. Gli sghei. I ghell. I danee. La grana…”. Nel romanzo di Simona Vinci, Stanza 411 (Einaudi, 2006), crudo resoconto di una claustrofobica, febbricitante passione amorosa – raccontata dentro una stanza d’albergo a Roma –, ci si imbatte in una pagina sul denaro. Mentre nel Ritorno a casa di Enrico Metz di Claudio Piersanti (Feltrinelli, 2006) al protagonista, un potente legale ora solo consulente e deciso a ritrovare la propria vita, viene affidata una valigetta piena di banconote di grosso taglio, da consegnare poi ad altri. Così il silenzioso Convitato di pietra, ai margini della attuale “rappresentazione” pubblica – cioè il denaro, la ricchezza personale – rientrava prepotentemente in letteratura, dopo un lungo periodo di imbarazzata rimozione. Ma proprio un tema del genere dimostra quanto sia cambiata la realtà negli ultimi due secoli, e il modo di rappresentarla. Il denaro, protagonista e motore di trame nel romanzo ottocentesco, da Balzac a Dickens, da Gogol a Verga, appare via via più defilato nella narrativa del Novecento, entro un mondo che sembra smaterializzarsi. Limitandoci al nostro paese, l’ultima volta in cui incontriamo il denaro come oggetto fisico, era stato alla fine degli anni Ottanta, con la valigetta (un’altra!) che padre e figlio portano in Svizzera in Per dove parte questo treno allegro, opera prima quasi ricalcata sul Sorpasso di Risi, di Sandro Veronesi, e nelle esotiche banconote false de I fannulloni di Marco Lodoli, autore che riuscì a incantare Fellini.

Da allora i romanzi che raccontano la razza padrona (Edoardo Nesi, Tullio Avoledo, Sebastiano Nata…) non ci parlano direttamente del denaro, peraltro quasi sparito dalle nostre esistenze. E inoltre si astengono da giudizi morali diretti. Spostandoci invece di una generazione, gli scrittori italiani che hanno vissuto la modernizzazione convulsa degli anni Sessanta si presentavano quasi tutti come severi censori dei nuovi stili di vita, e dell’ideologia che li ispira: Goffredo Parise indicava come fine di ogni vera educazione il semplice fatto di amare il mondo più delle cose; mentre Elsa Morante osservò una volta che la Roll’s Royce è spazzatura, e anzi merda, e che possederla o desiderarla è esattamente lo stesso…

Affermazioni di inguaribili esteti, di letterati snob che condannano i volgari consumi ben al riparo dei loro privilegi materiali? Certo è singolare che il “problema” venga posto in modo così radicale da alcuni scrittori e non dai leader politici della sinistra di quegli anni (eccettuata la poco convinta “austerità” berlingueriana). Ed è ancor più singolare che una scrittrice come Simona Vinci, immersa in una contemporaneità sempre più convinta della corrispondenza tra denaro e merito, riproponga attraverso un suo personaggio l’idiosincrasia morale per i soldi (e per il potere che implicano): «Ancora una volta il tema dei soldi entrava nella mia vita e mi riempiva di schifo…». Ricordo anche un filone filosofico-antropologico recente, da Ivan Illich a Serge Latouche (e più indietro Thoreau), che insiste sulla rinuncia non penitenziale ma gioiosa al lusso e su una abbondanza frugale. Ma cosa può insegnarci la letteratura? Non ci chiede di convertirci a un’etica pauperistica, né deve dispensare scomuniche sociali. Piuttosto ci mostra alcuni destini concreti e i probabili effetti di alcune scelte.

Sebastiano Vassalli decide di trattare frontalmente la centralità dei soldi in Comprare il sole (Einaudi, 2012), scegliendo la forma della favola. E come ogni vero romanziere si mette a indagare “scientificamente” cause e effetti della eterna commedia umana. Quando la giovane Nadia Motta vince al super-lotto 21 milioni di euro, siamo subito curiosi di vedere in che modo la sua esistenza ne verrà destabilizzata. Vassalli rappresenta la natura sfuggente, metafisica di una cosa pure così materiale come i soldi: luccicanti e odorosi nel deposito dove si tuffa Paperon de’Paperoni, ma anche ridotti ad astrazioni, a numeri che transitano misteriosamente nei conti correnti delle Società, aprendo e tappando buchi. Alla fine quelli di Nadia si perderanno nel nulla.

Infine Walter Siti, uno degli scrittori italiani più interessanti degli ultimi decenni. Qualche volta la sua narrativa sembra identificarsi etologicamente con l’aggressore, e così è impregnata di un realismo un po’ cinico e a tratti decadente. Però in Resistere non serve a niente, vincitore del Premio Strega nel 2013, attraverso il ritratto di Tommaso – vizioso e candido, borgataro divenuto artista della finanza – si enuclea una ovvia ma preziosa verità morale che andrebbe fatta circolare, anche perché i deprecati “mercati”, causa di tutti i mali, siamo anche noi, con le nostre aspettative, ingordigie, percezioni distorte, e non riguardano solo mafiosi e criminali. Una verità che “tradisce” la formazione umanistica dell’autore: il denaro comanda e può comprare tutto, tranne una relazione, al massimo può comprare la finzione di una relazione.

Letteratura post-industriale

Lo scrittore Tullio Avoledo, autore dell’Elenco telefonico di Atlantide (Sironi, 2002), ha dichiarato in un incontro pubblico: «Mio nonno faceva il contadino, mio padre il falegname, io non so, letteralmente, che lavoro faccio, cosa produco!». E così accade nel suo romanzo, in buona parte autobiografico, dove il consulente giuridico di una piccola banca si trascina di riunione in riunione, sempre sul punto di essere trasferito o di essere considerato “in esubero”, sullo sfondo di complotti esoterici. Dunque, al centro della nostra società, o almeno della nostra vita professionale, proprio come al centro della Terra per Giulio Verne, troviamo un vuoto, uno spazio cavo e insondabile… Un vuoto che poi si riflette minacciosamente su tutta l’esistenza, sui nostri affetti, sui nostri comportamenti. In realtà il lavoro continua a sostenere l’economia, soltanto che ha cambiato radicalmente volto, diventando irriconoscibile, non ben identificabile. Sappiamo che si è esaurita la “civiltà” industriale: nelle aree dismesse occidentali, in quei grandi capannoni che ospitavano macchinari, fioriscono centri sociali, università e discoteche. La fabbrica si è frammentata e decentrata su tutto il globo. Poiché i mercati sono quasi saturi di beni al lavoro materiale si sostituisce quello immateriale, dove infatti la principale forza produttiva diventa l’informazione, e, come si dice nel romanzo “terminale” di Giuseppe Montesano Di questa vita menzognera (Feltrinelli, 2005), non si vendono più le cose ma idee e stili di vita; dove alla dipendenza dalla macchina si sostituisce la dipendenza ancora più insidiosa da altre persone (la centralità delle “relazioni interpersonali”, appunto delle interminabili riunioni e dei breefing, di cui occorre conoscere trucchi e regole), dove al posto fisso subentrano lavori a termine, collaborazioni, consulenze… Come apprendiamo da uno dei racconti di Oliviero La Stella – Lo sdraiatore (Fazi, 2002) –, il requisito principale non è più la professionalità ma la “disponibilità”. E tutto questo ha conseguenze sulla personalità stessa, che deve diventare flessibile, adattabile, e perfino programmaticamente “sleale”, pronta cioè a cambiare con disinvoltura datore di lavoro, come avverte il sociologo Richard Sennett (nel fondamentale L’uomo flessibile, Feltrinelli, 2000), con conseguenze socialmente distruttive, o almeno schizofreniche: negli Stati Uniti oggi un padre giudizioso continua ad educare i figli secondo valori di dedizione, coerenza, fedeltà (alla famiglia, a un amico, all’azienda) che lui stesso però deve negare ogni giorno per avere successo! Prevale su tutto quanto l’irrealtà del nuovo mondo del lavoro, fatto di cose molto astratte come schermi luminosi, monitoraggi di situazioni, fiumi di parole, abilità nel persuadere o nella “gestione” dell’apparenza… Una irrealtà più o meno morbida o confortevole, di cui la nostra narrativa riesce a rendere conto solo in parte.

Per molti anni i nostri romanzi parlavano soltanto – in modo autoreferenziale – di giornalisti, redattori di case editrici, traduttori, scrittori, insegnanti ecc., insomma i mestieri di chi quei romanzi li scriveva (il “lavoro culturale” che intitolava un libro di Bianciardi). Poi l’orizzonte sociologico si è ampliato e abbiamo cominciato a vedere imprenditori di provincia (Edoardo Nesi), pony-express (Gianpaolo Spinato), ragazze di chat line porno (Francesca Mazzucato), sottoccupati eternamente precari (Giuseppe Culicchia), licenziati forzosamente contenti (Massimo Lolli), magazzinieri (Paolo Nori), postini (Angelo Ferracuti), una moltitudine di extracomunitari più pittoreschi che verosimili… Dopo la letteratura industriale di mezzo secolo fa auspicata negli anni del boom da Vittorini, e poi incarnata in alcune opere esemplari di Parise, Ottieri, Volponi, Mastronardi, Bianciardi ecc., albeggia una letteratura post-industriale.

D’altra parte c’è ancora oggi la persistenza della vecchia fabbrica e della sua ferrigna “materialità”: i romanzi quasi chapliniani di Antonio Pennacchi, gli operai di Paolo Nelli, l’“apprendista” votato a una filosofia della fabbrica quasi “toyotista” del bel racconto omonimo con cui esordì Giulio Mozzi. In questi libri la fabbrica appare come alienazione ma anche come immagine – ribaltata – di un’utopia sociale, fatta di cooperazione, socialità, orgoglio lavorativo, coscienza dei produttori. E siccome il Progresso è fatto sempre di due passi avanti e uno indietro, nelle patrie lettere trovano spazio anche i mille lavori semisommersi dell’Italia rurale, un po’ folle e un po’ fiabesca, di Vincenzo Pardini e Guido Conti, con la loro straziata epica – rispettivamente – della Lucchesia e della Padania. Ma è leggendo le pagine del Dipendente di Sebastiano Nata (Feltrinelli, 1995) che abbiamo avuto la percezione di un mutamento epocale, con quel top manager che per vendere carte di credito deve possedere soprattutto doti da imbonitore: «Bisogna guardare negli occhi di chi ti ascolta. Metterlo sotto ipnosi… serve a un tubo il master». E una ingegnosa arte di arrangiarsi ispirava pure i personaggi del notevole La ballata degli invisibili di Marilia Mazzeo (Frassinelli, 1999), tutti precari alla ricerca di un impossibile lavoro fisso e con molte, fumose velleità artistiche.

Ma sul precariato vorrei almeno segnalare anche Cordiali saluti di Andrea Bajani (Einaudi, 2005), Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese di Aldo Nove (Einaudi, 2006), Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria di Michela Murgia (2010, poi Einaudi, 2016). Spostiamoci al pubblico impiego. Nel racconto Spettabile Ministero, compreso nella raccolta La manutenzione degli affetti di Antonio Pascale (Einaudi, 2003), l’impiegato neoassunto che confessa al dirigente di non averci capito niente in un documento ministeriale si sente rispondere “Allora è perfetto”. Il potere, come abbiamo visto, deve mostrarsi esoterico oltre che imbonitore. Un’umanità più agile, illimitatamente disponibile, opportunistica e un po’ anguillesca, pronta a reinventarsi, a riadattarsi sempre. Un’umanità che non c’è, corrispettivo del lavoro che non c’è… Ci dovrebbe spaventare? Tutt’altro. A ben vedere siamo interamente dentro il nostro (deprecato) carattere nazionale. Italiani ancora uno sforzo: chissà che l’universo della New Economy non rappresenti la nostra grande occasione!

Letteratura working class

Certo la classe operaia non si è dissolta del tutto, anche se non si raccoglie più nelle grandi concentrazioni degli anni Cinquanta e Sessanta. Esiste una letteratura working class che continua a raccontarci la vita degli operai, specie fuori della fabbrica, come ci ha mostrato Alberto Prunetti, che ha vissuto per lungo tempo in Inghilterra (cita Ken Loach), autore dei romanzi Amianto. Una storia operaia (Alegre) dedicato al padre, 108 metri e Nel girone dei bestemmiatori (entrambi Laterza). Poi Prunetti ha scritto il fondamentale saggio Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class (minimum fax, 2022), intendendo per working class non solo gli operai di fabbrica e il lavoro salariato ma l’universo dei precari, sottoccupati, atomizzati, poveri, non protetti: il soggetto sociale protagonista del movimento del ’77, quell’“operaio sociale” che poi Toni Negri e Michael Hardt hanno travasato nella “moltitudine” spinoziana, rete di singolarità irriducibili e nuovo soggetto rivoluzionario (dove la suggestione teorica prevale largamente su una analisi sociologica puntuale). Forse l’autore avrebbe dovuto dare più spazio alla letteratura migrante o italofona (scritta in italiano dagli immigrati), nata intorno al 1990 e che comprende circa 500 autori: in questa letteratura il lavoro precario è uno dei temi ricorrenti.

Prunetti, che ha fatto i mille mestieri, viene – orgogliosamente – dal basso. Non frequenta il coté borghese della maggior parte dei nostri scrittori, quando si presenta alle case editrici lo prendono per il tecnico delle caldaie! Nei suoi libri intende documentare una realtà lavorativa semisommersa, invisibile, che caratterizza oggi l’economia dei paesi occidentali e che ha sperimentato di persona.

Neoproletariato

Abbiamo citato l’opera di esordio di Pecoraro. Nei libri successivi – La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie, 2013) e Lo stradone (Ponte alle Grazie, 2019) –, potenti romanzi-saggio in cui la forma stessa riproduce caos e frammentazione pur nella ricerca di un ordine, l’autore continua tra l’altro la sua disincantata ricognizione sulla società italiana. Nello Stradone descrive un ceto che abita la Terra di Mezzo tra pochissimi privilegiati di fatto invisibili e la massa indistinta di disperati che rovistano nei cassonetti (in una pagina sulla storia del quartiere, Valle Aurelia, vi si parla della ciminiera del “Monte d’Argilla”, che per secoli ha rifornito di mattoni, e in definitiva costruito, la capitale). Potremmo dire una classe medio-bassa che Tommaso Labranca – qui citato – definiva più o meno propriamente “neoproletariato”, il quale «sogna tre cose che cominciano per F: fitness, fashion, fiction». Nel suo Neoproletariato. La sconfitta del popolo e il trionfo dell’eleghanzia (Castelvecchi, 2002), Labranca sostiene che questa nuova classe, questo popolo del discount e delle televendite, che vive di lavori a provvigione (tra New Economy e agenti immobiliari) aspira non al plusvalore ma al plus-cool, ossia al superfluo, a una pseudo-eleganza entro una estetizzazione della vita quotidiana.

L’autore a un certo punto scrive beffardamente: «Neoproletari di tutto il mondo separatevi, individualizzatevi, opprimete il vostro simile con la vostra carica di eleghanzia superiore». A volte il neoproletariato labranchiano sembra stingere nel Lumpen, altre volte corrisponde solo a una sensibilità diffusa e interclassista, a un “luogo dell’anima”, ma l’intuizione sociologica resta notevole.

“Massa” vs democrazia?

Ora, questa umanità post-moderna, post-morale, post-tutto, attraversa le classi e le ideologie, non ha più una precisa rappresentanza politica e abita un mondo illimitatamente fluido. Il punto, però, è che la pre- sunta scomparsa delle classi non significa scomparsa delle disuguaglianze socio-economiche, le quali anzi si sono allargate. Si potrebbe dire pasolinianamente: oggi l’immaginario è omologato, Montezemolo e l’ultimo dipendente della fiat aspirano agli stessi consumi, solo che il primo può acquisirli, il secondo non sempre. Ma torniamo alle conclusioni di Asor Rosa e Tronti. Certo le classi di una volta non ci sono più, con la propria fisionomia e cultura specifica, ma siamo sicuri che la “massa” sia solo quella realtà magmatica, mostruosa, “blobbiana” che viene illustrata con accenti apocalittici?

La massa è composta da individui, mai del tutto massificati: proprio nel capitalismo cognitivo dove ciascuno può sviluppare potenzialmente la propria funzione intellettuale, la contraddizione non è più tra élite e volgo, tra intellettuali e popolo, ma passa dentro ogni persona: dentro ciascuno di noi abitano un uomo-massa conformista e apatico e un individuo consapevole, responsabile, con autonomia e capacità critica. Non sarà che questo borghese-massa ci preoccupa tanto perché – ispirato dal mantra ossessivo “uno vale uno” – non ascolta più le élite, non riconosce alcuna autorevolezza ad una casta intellettuale se- parata o a figure un pò obsolete di maître-à-penser, non intende farsi egemonizzare?

Viene dall’America, certo, ed è la ragione per cui l’America ha vinto nel secolo breve sui totalitarismi: la gente preferisce alla eccitazione delle adunate, alla mobilitazione permanente, ai sacrifici collettivi, alle grandi imprese eroiche della nazione, una vita quotidiana piuttosto regolare e confortevole, con il frigo e la lavatrice, con la televisione e il condizionatore. Probabilmente una democrazia ha bisogno di cittadini attivi e informati, con la voglia di deliberare ecc., mentre il borghese-massa di Tronti è privo di senso critico e di slanci ideali, disinteressato alla politica.

Insomma: Tocqueville non aveva previsto Hollywood. La cultura di massa, generando una massa eterodiretta, minaccia dall’interno la democrazia. Però la cultura di massa è a sua volta variegata e fortemente disomogenea: in una memorabile puntata dei Simpson, dove Bart si vende l’anima, c’è una intelligente rilettura della tradizione umanistica. E poi: perché definire “mediocre” qualcuno che vuole vivere onestamente entro una dimensione privata, “nella prossimità” diceva Nietzsche, a contatto con gli affetti più cari e con i piccoli piaceri quotidiani, frequentando il vicinato, senza grandi ambizioni, senza il desiderio di partecipare a qualche comitato, e con l’innocente “capriccio” di potersi acquistare l’ultimo modello di iPhone o di televisore al plasma per vedersi meglio le partite di calcio o le serie su Netflix? Per caso coincide con un tipo umano inferiore e arretrato, con un “bruto” (secondo l’orazione dell’Ulisse dantesco) addirittura privo di pensiero?

La politica ridefinita

Provo sempre più simpatia per gli oziosi Oblomov dispersi nella folla, per le apatiche signore dei romanzi di Jane Austen che passano la vita su un sofà, per chi non smania di partecipare (“libertà è partecipazione”, ci ha svelato Gaber, l’hanno messa lì nella canzone solo perché suonava bene!), e meno che mai di riparare il mondo. Inoltre: nella attuale guerra di tutti contro tutti – quasi un ferino stato di natura hobbesiano – si insinuano pur sempre forme di cooperazione e collaborazione, di rivolta e di rifiuto, di resistenza e di sperimentazione sociale. Il conflitto, lungi dallo sparire (dalla Primavera Araba del 2011 che ha usato i social, al populismo turbolento dei Gilet gialli francesi nel 2018), viene rimodulato in forme nuove, spesso spiazzanti, che abbiamo il compito di decifrare anche con l’ausilio dell’immaginazione sociologica dei nostri romanzieri.

Oggi accanto allo svuotamento della democrazia e al ridimensionamento della politica assistiamo a una cultura diffusa di pratiche di cittadinanza attiva, reti di contropoteri, esperienze assembleari di base. Una politica ridefinita: non più tecnica per conquistare il potere ma dimensione microcomunitaria e autoeducativa. La fine delle classi coincide con la fine dei partiti (che le rappresentavano) e delle compatte, monolitiche appartenenze collettive. Potrebbe essere una buona notizia. Oggi al centro della scena c’è di nuovo l’individuo, che non è la monade borghese, egoista e sigillata in se stessa, ma l’individuo ribelle e responsabile della tradizione anarchica non-violenta che dice no al potere (l’“uomo in rivolta” di Albert Camus), e che può contare sulla amplificazione della Rete (anche in Hegel la dialettica nasce storicamente con il dire no del contadino medievale). Anche perché, ammoniva Nicola Chiaromonte, dalla caverna si esce uno alla volta, non in gruppi.

Certo la pace dell’Occidente è precaria, turbata dalla pulsione individuale – non più “educata” dalla politica – ad accaparrarsi potere e risorse. Contiene, secondo Pecoraro, un presagio di catastrofe. Darwin oggi ci soccorre più di Marx. Eppure il fatto che alle identità collettive di classe, con le fumose narrazioni e spettacolari mitologie politiche che l’hanno accompagnate, si è sostituita la figura di un individuo smarrito sì nella liquidità ma in molti casi indocile, nomade, creativo, e “naturalmente” cooperante, potrebbe rimettere in moto la cigolante dialettica della Storia. Un individuo sempre dentro la relazione con gli altri, però capace – secondo l’auspicio di Hannah Arendt – di cominciare qualcosa di nuovo (nella sfera pubblica) insomma di ridurre nella propria esistenza la parte del “lavoro” (comunque determinato dalla necessità) e di ampliare la parte dell’ “agire”, vertiginosamente aperto alla libertà.

Continua a leggere...

Novembre 2024
Fare belle foto a Milano, quelle di Carlo Orsi
Vittoria Caprotti

Nel pomeriggio di venerdì 8 novembre 2024, mentre c’era lo sciopero dei mezzi e la gente era obbligata a camminare tra Palazzo Reale e San Babila, evitando la metropolitana, il centro di Milano, all’altezza dell’incrocio tra via Beccaria e corso Vittorio Emanuele, è sembrato per un po’ l’Inferno, o meglio: la caricatura dell’Inferno. Fiamme rossissime accompagnate da un nerissimo fumo salivano dalle grate di un parcheggio sotterraneo dove un cortocircuito elettrico aveva generato un incendio. Appurato che di vittime non ce n’erano state e che, dunque, si poteva parlare pubblicamente del fattaccio senza il benché minimo timore di ferire i sentimenti e/o la morale altrui, ho iniziato a lamentarmi. Ho iniziato a lamentarmi della bassa, imbarazzante, da far venire i nervi qualità delle foto e dei video dell’accaduto: pare che a Milano non esistano più fotoreporter capaci di fare il loro mestiere. “Da YouReporter in poi ci siamo abituati alla mediocrità”, ha detto una persona con cui ho parlato brevemente del mio fastidio – evidentemente condiviso – per la mancanza di immagini belle dell’accaduto (Alberto Arbasino e Susan Sontag, tra i vari, erano per la riabilitazione di questa categoria, il “bello”: basta con l’“interessante” e lo “stimolante” e il “rivelatorio”).

Nel bel mezzo della mia lamentela, ho ripensato alla mostra Miracoli a Milano. Carlo Orsi fotografo, visitabile fino al 2 febbraio 2025 negli spazi al piano terra di Palazzo Morando, che avevo visto pochi giorni prima. Curata da Giangiacomo Schiavi e Giorgio Terruzzi, realizzata in collaborazione con l’Archivio Carlo Orsi e il Comune di Milano, la mostra si snoda in quattro sezioni dedicate alla città meneghina, alla moda, ai reportage dal mondo e ai ritratti. Ad aprire il percorso, però, non incasellabile, c’è la prima foto che Orsi abbia mai scattato, da ragazzino: si vedono solo le mani rugose di una donna che alla luce di una traballante lampadina appesa al soffitto – come racconta lo stesso fotografo nel video all’ingresso – reggono un giornale su cui si legge il titolo: “Cara mamma, domani sarò fucilato”. Questa “cara mamma” aveva chiesto la grazia a De Gaulle per il figlio condannato a morte in Francia: la grazia non fu concessa.

Mi lamento, guardando i video dell’incendio e ripensando alla mostra di Palazzo Morando, perché chissà che foto avrebbe fatto, delle fiamme e della schiuma bianca usata dai Vigili del Fuoco, Orsi. Orsi, uno che ha fotografato Milano per decenni interi, dagli anni ’60 alla città dell’Expo 2015, passando dalle sale della Pinacoteca di Brera alle rampe di San Siro; dall’iconico bar Jamaica alla Stazione Centrale dove “il treno del Sud” nel giorno di Ferragosto 1963 partiva verso Reggio Calabria riportando a casa chi era salito per cercare lavoro; dalle pensiline delle stazioni della metropolitana al concerto dei Beatles al Vigorelli; dai turisti stanchi e sudati al Castello ai Navigli pre-movida, ossia i Navigli con gru e mucchi di sabbia per farli diventare quelli di oggi, vale a dire gli stessi Navigli che fanno da sfondo al “Vuoi una forchettata?” in “Un povero ricco” con Renato Pozzetto. E proprio Pozzetto, insieme a Cochi, compare in due ritratti di coppia – uno di quand’erano giovani, uno scattato in anni più recenti – presenti nell’ultima delle quattro sezioni della mostra.

Il grande merito della selezione di immagini esposta a Palazzo Morando è di non aver cristallizzato Milano a quella che fu, perché Orsi ha continuato a guardarla e fotografarla fino ai giorni nostri – mi dico. Mentre finisco di dirmelo, un conoscente, che fa il fotografo e lo fa bene, mi manda le sue foto dell’incendio: e sono belle.

Continua a leggere...

Novembre 2024
Femminismi violenza e controllo sociale
Pietro Saitta

In Immaginazioni di una rivolta, Femminismi violenza e controllo sociale, appena pubblicato da Mimesis, il sociologo Pietro Saitta esplora le ricezioni sociali delle ultime ondate femministe e va alla ricerca dei punti di somiglianza – ovvero delle omologie – esistenti tra le culture della contestazione e il senso comune dominante. In particolare gli atteggiamenti rispetto alla pena, alla moralità e al controllo vengono indagati dall’autore per mezzo di osservazioni etnografiche e di riflessioni (anche autobiografiche) che pongono a confronto la produzione culturale o i discorsi degli intellettuali e dei movimenti sociali con quelli maggiormente comuni e radicati nel sociale. Di seguito un estratto, ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.  

Andando avanti nel ragionamento, e tornando nel personale per un attimo, nel mio intimo trovo per esempio retrivo ragionare in termini di genere, anche se comprendo benissimo che esistono ancora linee di sesso e di colore. Non sto dunque sostenendo che non c’è bisogno di forze che sorveglino questi e altri fronti simili. E certamente ritengo che occorra essere coscienti dei rischi potenziali di una cecità ideologica rispetto alle differenze di opportunità rinvenibili nel sociale, soggette a essere acuite da atteggiamenti di sostanziale noncuranza riguardo al loro peso. Inoltre questa è un’osservazione valida nelle questioni legate al sesso come alla “razza”. 

Ciò nondimeno l’ipotesi qui sostenuta è che nelle questioni di genere contemporanee si rinvenga anche un’ossessione identitaria, che fa mostra di sé in vari modi e che non è dissimile da altre attribuibili a quell’oggetto polimorfo e indeterminato costituito dalle “destre”. Possiamo pensare per esempio a quella preoccupazione che si manifesta nella sensibilità per i pronomi, la quale può risultare assai grottesca, ancorché, al momento della sua comparsa, sia apparsa opportunamente provocatoria nei confronti di una società maschilista.

 È certamente vero che la società ha bisogno di scosse per interrogarsi e riconoscere gli elementi disfunzionali della propria organizzazione. Le performance e l’arte nelle loro forme provocatorie, per esempio, svolgono esattamente questa funzione civile. Tuttavia se presa seriamente, un’ossessione come quella per i pronomi – che impiego solo perché è utile a illustrare certe dinamiche – può essere intesa come un indicatore di un problema attinente al sé individuale. O, per meglio dire, un problema che è sì proprio di tanti individui – tanti quanti ne bastano a comporre un gruppo – ma ciò nondimeno relativi più alle psicologie e alle individualità coinvolte che al politico in senso proprio. Sovvengono così a riguardo le parole di Rupaul, una delle drag queen più celebri, quando, in un’epoca antecedente l’attuale attenzione per la questione dei pronomi, diceva: “You can call me ‘he’. You can call me ‘she.’ You can call me Regis and Kathie Lee; I don’t care! Just as long as you call me”. 

Personalmente mi sono sempre trovato così d’accordo con questo punto di vista che non avrei alcun problema a essere chiamata, per esempio, professoressa Saitta. Della mia mascolinità eterosessuale, infatti, non mi importa nulla. E trovo perciò patetico e retrivo leggere quei he, she e they in calce alle email dei miei colleghi, così come le lamentele ufficiali di partecipanti alle conferenze universitarie che dichiarano di non essersi sentite rispettate perché qualcuno, privilegiando i loro attributi fisici rispetto a quelli identitari, le ha chiamate col pronome per loro sbagliato. Così come trovo imbarazzante – ma questo è un altro discorso – il divieto di alcune istituzioni universitarie di indirizzare un saluto a un collega o a uno studente che suoni come “Ciao, bella/o” oppure “ti vedo bene!” (espressioni, dunque, riferibili in qualche vago modo al corporeo degli interlocutori). 

Oltre che un insopportabile identitarismo, in pratiche linguistiche come queste si vede emergere – non in filigrana, ma in chiaro – un disciplinarismo autoritario, e anche alieno al quotidiano, che non sembra avere molto di progressista. Ciò, in particolare, perché dà l’impressione di volere riordinare il sociale spingendo le persone a scegliere dei ruoli sociali intellegibili: l’essere, per l’appunto, degli he, she o they. In tal modo quello che nelle intenzioni dei proponenti avrebbe dovuto essere un atto innanzitutto linguistico di emancipazione dalle forme che associano sesso e percezioni di sé, viene assorbito dal sistema d’ordine aggiungendo una casella alla voce identità (they non sembra essere molto diverso da ciò che nei questionari istituzionali e commerciali, alla voce sesso, è categorizzato come “altro”). Viene in tal modo inserito un ulteriore genere alla ristretta lista di quelli esistenti, senza però accantonare l’uso di un concetto ordinatorio del mondo che è alla base delle differenze. Invece di un mondo senza generi, in cui prevarrebbe idealmente l’umano, ci si accontenta di un allargamento delle categorie utili a produrre ulteriori separazioni.

 È una logica, potremmo dire, che si muove dentro una direzione culturale molto compatibile con i tempi. Ovvero con ciò che, per esempio, avviene da tempo nel mondo del lavoro, dove si moltiplicano i contratti, le posizioni e le rivendicazioni particolaristiche. Ma, che, soprattutto, appare curiosamente compatibile anche con quell’ordinamento tradizionale del quotidiano – oggetto altrimenti di contestazioni – che non mette in discussione la funzionalità dei pronomi, i differenti colori per i bambini di  sesso diverso e tutto il resto degli armamentari atti a distinguere. La principale differenza che intercorre da quell’ordinamento classico è, oggi, la vocazione a discernere meglio, ossia a separare con maggiore accuratezza.   

Continua a leggere...