Nel 1000 il Doge di Venezia, Pietro II Orseolo, sposò il mare. L’unione avvenne nel porto di S. Nicolò. Vestito di ermellino e con un corno in testa, sfilò lentamente a bordo del Bucintoro, talmente bardato di statue d’oro da diventare un oggetto inadatto alla navigazione. Fu versata acqua benedetta nell’acqua, fu gettato un anello nelle onde. La cerimonia fu resa sacra da Papa Alessandro III nel 1173 con queste parole: «Doge di Venezia, questo è l’anello nuziale del tuo matrimonio con il mare. D’ora in poi vogliamo che tu e i tuoi successori la sposiate ogni anno».
Che cosa ha significato quel rito? In quale sfera politico-religiosa si iscrive? Come si trasforma un ecosistema in un ecosistema di potere? Su quell’evento prova a riflettere Benedetta Panisson, artista visiva e ricercatrice alla Durham University, che intreccia da sempre pratiche artistiche e riflessioni teoriche con lenti femministe e queer su ecologia, desiderio e potere. Sarà una delle relatrici al convegno internazionale Materiality at the Intersection of Ecology and Religious Studies che si terrà alla Fondazione Giorgio Cini a Venezia, dal 21 al 23 maggio, per iniziativa del Centro Studi di Civiltà e Spiritualità Comparate, diretto da Francesco Piraino.
Il rito dello sposalizio del Doge col mare contiene in sé molti elementi. Il primo è la consacrazione di una visione di governo integrale dell’ecosistema che la Serenissima aveva, almeno si ritiene avesse, con una lungimiranza che si è perduta. Si potrebbe parlare di una cosmovisione politica?
Innanzitutto, bisogna intendersi su cosa significhi ‘consacrare’, e se vi sia effettivamente una lungimiranza perduta. Come studiosa delle culture e delle visualità erotico-sessuali negli spazi insulari, direi che è necessario comprendere, dal punto di vista storico, chi ha consacrato cosa. Anche i portoghesi, l’impero britannico, gli spagnoli, hanno consacrato una ‘cosmovisione politica’, forzando alla cristianizzazione, portando alla vergogna comunità che venivano ritenute al di fuori di un certo canone, sfruttando i territori.
L’Occidente, sulle culture insulari e anche quelle erotico-sessuali, da Samoa alle Andamene, dalle Trobriand a Tonga, ha imposto una omologazione coloniale, e morale, tra le più estese e durature della storia umana. Erano missioni consacrate. È una memoria fondamentale ed è importante comprendere cosa implichi, da parte di uno Stato, avere una cosmovisione, e cosa ogni consacrazione copra o escluda. Uno sposalizio cristiano tra un maschio di potere e questa meraviglia che chiamiamo ‘mare’ ha delle conseguenze, e non credo siano solo ecologiche.
Ogni tanto gioco con mia figlia con google earth, e zoomiamo a caso in mezzo all’Oceano Pacifico, sembra esserci solo acqua, poi zoomiamo ancora, spunta un piccolo arcipelago, che dista almeno quattromila chilometri da ogni terraferma. E se zoomiamo ancora l’immagine satellitare, non c’è niente in quell’arcipelago tranne una croce cristiana e si intravede, sfuocata, una chiesa. Voglio poter spiegare a mia figlia perché in mezzo all’oceano, in quell’arcipelago, c’è una croce. Rispondendo alla domanda: sì, lo sposalizio con il mare ha una visione di governo integrale dell’ecosistema e una cosmovisione politica. Ma suona ora come un qualcosa di più cupo. Abbiamo invece strumenti e interconnessioni per ri-pensare e re-immaginare il rapporto con il mare e le sue isole, anche noi stessi veneziani.
Nell’atto dello sposalizio sembra trasfigurarsi la stessa idea di città. La semantica della città per come la conosciamo perde consistenza, non è più palazzi, ponti, confini: la città può farsi solo mare? In quell’atto, della città resta una dimensione tutta liquida?
Direi piuttosto essere il contrario: il Doge attraverso lo sposalizio consacra una sottomissione, in cui la femminilizzazione del mare è l’atto attraverso il quale questo può avvenire. Questo solidificava la città e il suo sfarzo. Potrei dire che l’acqua e l’assenza di ossigeno cementificano le palafitte che la sostengono.
Il Doge rendeva l’Adriatico una funzione (moglie) del proprio dominio: non un atto di salvezza per il mare, ma per la propria immagine. Desposamus te, mare, in signum veri perpetuique dominii, dice la formula, e non ci sono modi per leggere il dominio differentemente da uno sfruttamento. Penso che uno degli elementi che più mi sostiene nella pratica artistica e in quella accademica a Durham University, sia l’essere veneziana: Venezia ha qualcosa in comune sia con alcuni dei popoli oceanici minacciati dal turismo di massa, dal peso degli esotismi, dall’innalzamento del livello del mare, sia con isole con un passato di conquista e dominio. Questo la rende ibrida e interconnessa a vari immaginari insulari.
Nel 2013 ho fatto parte con Come to Venice di Contingent Movements Archive, piattaforma del Padiglione delle Maldive della 55ma Biennale d’Arte di Venezia, curato da Hanna Husberg e Laura McLean. Indagava l’ipotetica sparizione di isole per l’innalzamento del livello del mare e gli scenari migratori delle popolazioni che vi abitano. Correlava l’estuario veneziano a una questione maldiviana, e viceversa.
Questo crea alleanza e interdipendenza ecologica. Anche a Ca’ Foscari, ad esempio nel Talanoa Forum: Swimming against the tide, creato da una collaborazione tra Francesca Tarocco, direttrice del THE NEW INSTITUTE Centre for Environmental Humanities (NICHE), la storica dell’arte Cristina Baldacci e la curatrice Natalie King, e diretto dall’artista Yuki Kihara, Venezia si fa ibridazione di culture insieme a Samoa e Aotearoa, Nuova Zelanda. Ocean Space, inaugurato nel 2019, consolida questa interconnessione tra insularità. Questi aquapelagi1 estesi sono ciò che rendono fluida Venezia.
Torniamo al Doge: con quella celebrazione rituale, sembra stabilire un rapporto di potere sulla natura, eppure non compie un rito sacrificale o di comando, lo fa attraverso una forma matrimoniale, un’alleanza che dovrebbe essere intima, carnale, orizzontale. Come si possono leggere i rapporti di potere?
Il matrimonio, per come lo si intende all’interno del contesto storico dello sposalizio con il mare, un arco di tempo di 700 anni, non è un’alleanza orizzontale, bensì patriarcale e in quanto tale verticale. La femmina nel patriarcato è una funzione di esso, che garantisce potere al maschio, e sudditanza alla femmina. Questo ragionamento, all’interno di una gerarchia cristiana, e del potere dogale, si amplifica. E si amplifica ancora più se applicato a un’entità naturale, il mare. La natura non è femminile, ma se una forma di oppressione funziona sul corpo di una femmina può funzionare anche su di un’entità naturale come il mare, femminizzandolo.
Ad esempio, il botanico settecentesco Linneo attribuì ad alcune piante il sistema patriarcale eterosessuale cristiano della sua epoca, ma questa attribuzione si mostrava come fosse proprio la natura a fornirci queste regole. Il modo cristiano di intendere sesso e genere diveniva un modello osservabile in natura: chiamava camera nuziale una parte del fiore, e moglie e marito, il pistillo e lo stame. Però pistillo e stame non sono due persone cristiane.
La dogaressa non sposa un mare maschio, ad esempio. Il Doge, attraverso l’azione del matrimonio simbolico doma, e domina, la femmina-mare. Non posso dire se il Doge ami il mare-femmina, bisognerebbe sapere che cosa significasse amore per un Doge veneziano. Questa analisi ci serve nel contemporaneo: alla luce dei femminismi, della lotta per la parità dei diritti, dei diritti delle comunità LGBTQIA+, dell’ecologia femminista, non si può lasciare indisturbato questo rituale. Con la parola ‘disturbo’ intendo che, nel 2024, compiere un rituale in cui metaforicamente l’autorità (per ora maschile) sposa il mare, inteso come femminile, è disturbante, e però anche disturbabile.
Lei fa una lettura queer dell’evento. Perché è un matrimonio che entra in un altro terreno sentimentale, tra un vivente umano e un vivente non umano e non animale. È possibile parlare di un’ecologia queer?
Farei un passo indietro: la lettura queer che faccio sul rituale del matrimonio del mare non è perché ritengo che questo sia un unione interspecie, ibrida, queer, e uso qui la parola ‘queer’ nel senso di non-conforme in relazione a conformità ritenute dominanti ed escludenti, bensì tirando in ballo una questione fondamentale, come invita a riflettere Greta Gaard, ospite del convegno e insieme a lei una moltitudine di altre voci, come Donna Haraway, Catriona Mortimer-Sandilands, Myra j. Hird, Eve Kosofsky Sedgwick, Rachel Carson: il matrimonio con il mare funziona solo all’interno di una complessa struttura culturale e morale in cui la costruzione del concetto di ‘natura’ e quello di ‘femmina’ agiscono similmente su di un qualcosa che si ritiene minoritario, sottomissibile, promiscuo, qualcosa che spaventa.
Dire che questo ruoti intorno al cardine del controllo sulla fertilità, è banale. Riformulando dunque la risposta, potremmo dire che lo sposalizio con il mare, nel quadro storico in cui lo si è inventato, all’interno della cristianità, e nei secoli a seguire, funziona solo in un tragicomico paradosso: è il fatto di pensare che il domino e lo sfruttamento del corpo femminile e della natura possano garantire a chi lo persegue un vantaggio enorme, economico, sociale, culturale.
Se lo sposalizio con il mare non fosse uno sposalizio, nella sua forma eteronormata ed escludente, se avvenisse al di fuori della cristianità, o non esclusivamente in una spiritualità che rappresenta solo una parte della cittadinanza veneziana, e globale, se non promettesse dominio sui mari ma una forma ecologica di rispetto e affetto per questa creatura che chiamiamo mare, ecco che forse potremmo parlare di un’unione eco-queer con il mare.
Il mare non è una femmina che ha bisogno di essere sposata, bensì una delle forme biologiche più complesse ed enormi della Terra. Che questo riguardi anche, ma non solo, la spiritualità umana, mi sembra evidente. Lo sposalizio con il mare può dunque insegnarci più cose: a ripensare costantemente che cosa intendiamo per ‘natura’, che cosa intendiamo per ‘femmina, che cosa intendiamo per ‘dominio’.
Quel rito è anche un atto performativo, diremmo ora. Lei ha prima di tutto una formazione d’arte: cosa la colpisce dell’impronta visiva, coreografica, dell’evento? Ha anche una matrice camp? cosa ha di peculiare rispetto ad altre forme rituali?
In generale, mi infastidisce ogni atto performativo che si prenda troppo sul serio. Quel rito è anche un atto performativo e si prende sul serio: il lancio dell’anello d’oro, la formula consacrante, il Bucintoro bardato di statue, il corno ducale. È un rituale sfarzoso che mette in scena la cristianità, il potere, la gerarchia. Come accademica mi interessa perché rende esplicita la costruzione di questa relazione, la credenza di poterne domare le tempeste, le mareggiate, gli eccessi, la diversità imprevista, attraverso una serialità di parole e gesti.
Come artista m’interesserebbe di più un atto performativo che si pone in ascolto e osservazione, forse addirittura in uno stato di contemplazione, delle variazioni e del potere del mare, più che nel tentare di domarle. Sono veneziana, di quelle veneziane perpetuamente innamorate di queste isole e di questa laguna, amo i suoi eccessi estetici e di costumi, da un punto di vista storico, ma non ritengo vi siano elementi camp nel tradizionale sposalizio con il mare. Lo direi con le parole di Susan Sontag: «Camp is a solvent of morality. It neutralizes moral indignation, sponsors playfulness»2. Il camp può cancellare la moralità, neutralizza l’indignazione morale, promuove ciò che è scherzoso. Non si tratta di questo, in questo caso, ma per certo possiamo prenderne spunto per il futuro prossimo.