Novembre 2024

Pippo Delbono. Guerra in Palestina

Diario di una viaggio e di una turné con Pippo Delbono

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Pubblichiamo un estratto dal volume in questi giorni in libreria di Gianni Manzella, Delbono (Sossella editore). Come in un romanzo, il libro accompagna il lettore in un viaggio interiore dove racconti d’arte e di vita si intrecciano in maniera indissolubile.

Domenica 29 dicembre.

È già buio alle 17 e 30 quando l’aereo della El Al atterra all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. La strana compagnia che si presenta ai banchi di controllo è capace di disorientare anche l’ostilità manifesta della doganiera israeliana, una cerbera che ci mette tutto quel che le riesce di durezza nel rivolgerci le domande di rito: per quale motivo vogliamo entrare in Israele, dove andiamo, quanto ci fermiamo. Si chiama Denise, così dice la targhetta d’identificazione che porta sul maglione blu militare. 

Ci guarda spazientita, si attacca al telefono con una certa Svetlana. 

Scompare con i nostri passaporti e quando ritorna sembra urtata di doverci far passare. È la prima volta che viaggio in Israele e Palestina. Ci sono arrivato con Pippo Delbono e i suoi compagni, invitati per un giro in cinque teatri palestinesi con lo spettacolo Guerra. Ecco l’altissimo Gustavo e il piccolo Bobò che non si toglie mai di dosso la maglia biancazzurra di Maradona; Gianluca, dolce ragazzo down, e Armando che si muove con le stampelle e il frenetico Mr. Puma che bacia la terra dove arriva. Non c’è invece Nelson, che all’ultimo momento si è rifiutato di salire sull’aereo. Ci attendono la troupe milanese che farà le riprese del viaggio e il pullman guidato da Saleh, un arabo discreto e sornione. Il pullman si chiama Sindbad, come l’avventuroso marinaio della favola, forse è un presagio.

Il primo contatto con questa terra che si dice “santa” è un viaggio nella notte verso Gerusalemme. L’autostrada attraversa luoghi immersi nell’oscurità, apparentemente poco abitati. Però la strada è tutta illuminata da lampioni, come un viale cittadino, e davanti a noi appare come un filo luminoso che si dipana nel buio.

L’albergo si trova nel quartiere cristiano della città vecchia, a un passo dalla Porta Nuova. Il Knight’s Palace è una struttura legata al Patriarcato latino, zeppa di simbolici richiami alle crociate. Trofei guerreschi sono dovunque, armature medioevali, scudi appesi alle pareti, quadri di antichi cavalieri accanto al Cristo redentore. Anche l’occhialuto Patriarca è ritratto avvolto nel mantello di qualche ordine cavalleresco. Non suscita simpatia. 

Nella sala da pranzo, al piano inferiore, domina una veduta della Gerusalemme antica, chiusa nella sua cerchia di mura in mezzo a una campagna ancora disabitata. E sopra la croce col motto “Dieu le veult”.

Qui dove tutto dovrebbe parlare di una convivenza millenaria, ora bisogna attraversare un metal detector per arrivare al muro del pianto e la spianata delle moschee ci è preclusa dai soldati (“Per la vostra sicurezza” è la formula che non ammette repliche). Che a qualcuno interessi incrinare questa convivenza anche con gesti provocatori è subito evidente. Il primo ministro Ariel Sharon ha acquistato una casa nel mezzo del quartiere musulmano. 

Impossibile non vederla: sul tetto ha fatto issare un’enorme menorah, il candeliere rituale a sette bracci, e dall’alto scende per due piani una bandiera con i colori israeliani e la stella di David. Ma forse sono più inquietanti i segni minori di intolleranza, come i nomi in arabo delle strade cancellati o nascosti da adesivi.

È il nostro primo giro per la città vecchia, vorremmo subito vedere. Nella notte, la città vecchia è bianca e vuota. Le botteghe sono tutte chiuse. Nelle strade silenziose passano solo gli uomini delle pulizie. Al muro del pianto si arriva attraverso un tunnel che aumenta la sensazione di spaesamento che coglie quando si sbuca nel luogo sacro. Nella vasta piazza si muovono con passo veloce, quasi di corsa, tanti ebrei ortodossi dai lunghi cappotti neri e il cappello pure nero posato sulla testa che sembra sempre di una misura più piccola del dovuto. La parte bassa del muro è occupata da una fila ininterrotta di uomini in preghiera che muovono ritmicamente il capo, anche loro tutti vestiti di nero. Alle loro spalle altri uomini si muovono intorno ai tavoli dove sono ammucchiati i libri sacri, li prendono per leggere un brano e poi li rimettono a posto. Le donne stanno sulla parte destra, separate da una parete divisoria; quando si allontanano non possono voltarsi, devono retrocedere rivolte al muro fino ai limiti dell’area sacra.

La piazza una volta non c’era. È stata ricavata abbattendo il quartiere di casette che arrivava quasi a ridosso del muro. Ragioni di sicurezza. In alto, ben visibili, stazionano gli automezzi della polizia.

Lunedì 30 dicembre.

La differenza fra la parte araba della vecchia Gerusalemme e il quartiere ebraico è assai visibile di giorno. Quando le strade si riempiono della gente, delle musiche, dei colori, degli odori di ogni città mediorientale. Merci esposte per strada, confusione. Poi si attraversa un sottoportico, una frontiera invisibile, ed è come precipitare in un’altra realtà. Il Cardo, l’antica strada maestra d’epoca romana, appare in un nitore senza sbavature. Edifici perfettamente ristrutturati. Ristoranti e negozi eleganti, con un che di finto o artefatto.

Forse così qualcuno immagina il futuro della città vecchia, ripulita della presenza araba e trasformata in un monumento turistico.

La conferenza stampa di presentazione del nostro viaggio è convocata all’American Colony Hotel. È la sede ufficiosa degli incontri, delle trattative – ne parla Edward Said in un suo libro, aveva soggiornato qui nel 1992 quand’era tornato dopo quasi mezzo secolo nella città dov’era nato. Un’oasi di piacevolezza old fashion. Terrazzi con gazebo. Chiostri con alberi d’arancio. All’interno boiserie e stucchi, cieli stellati, alternarsi di due colori, bianco e azzurro, grandi tappeti e specchi decorati. Un esempio di quel che era questa città nella prima metà del novecento, per la sua società benestante, una borghesia palestinese di proprietari e commercianti.

Qualcuno chiede a Delbono se lo spettacolo, Guerra, prende posizione contro l’occupazione israeliana della Palestina. Sono qui per osservare e cercare di comprendere, è la risposta. Sono più o meno le stesse parole con cui Edward Said giustifica il suo ritorno in Palestina, dopo quasi cinquant’anni di lontananza.

Ho ripreso in mano il diario scritto in quei primi giorni del 2003. Sto trascrivendo quasi alla lettera le prime pagine. È un quaderno tascabile con i fogli legati da un doppio giro di anelli e la copertina di un cartone spesso, che avevo acquistato negli Stati Uniti qualche anno prima. L’avevo scelto, prima di partire, per la tasca interna che mi consentiva di conservare i piccoli pezzi di carta trovati per via. Biglietti di teatro. Il menu di un ristorante. Il minuscolo certificato con cui Rabbi Moshe Nahshoni assicura che il cibo servito sull’aereo della El Al è kosher. 

La prima parola che mi viene incontro nel diario è “ostilità”. Ostilità è il sentimento di chi si sente nemico, o circondato da nemici. Penso alle parole scritte da Edward Said su questi due popoli accomunati nell’universalità del dolore.

Avevo scelto l’intellettuale statunitense di origini palestinesi come ideale compagno di viaggio per la sua capacità di stare da una parte senza perdere di vista le ragioni dell’altra.

Tanto da arrivare a scoprire, da ultimo, due popoli legati da vincoli inscindibili. Professore di letteratura comparata alla Columbia University di New York, studioso dell’orientalismo ma anche militante della causa palestinese, Edward Said nel 1991 aveva scoperto di essere affetto da una malattia che non gli lasciava scampo. La sconvolgente diagnosi medica dice di una grave forma di leucemia. 

Per la prima volta, scrive, deve convincersi dell’inevitabilità della morte. 

Della propria morte. Decide di lasciare ogni incarico pubblico e di partire per la Terra Santa per visitare i luoghi di origine della propria famiglia. Ripercorrere con la memoria quelle storie più antiche gli sembra un accompagnamento consono al declinare della vita. Vi tornerà nel 1996 per vedere cosa è cambiato dopo gli accordi di Oslo.

Non mi ero reso conto subito, in quel momento, di quanto questa cognizione improvvisa della propria morte fosse prossima a quella vissuta da Delbono negli anni torbidi della malattia.

Sono qui per osservare e cercare di comprendere, risponde Delbono a chi lo incalza cercando una sua collocazione nella scontata dialettica amico-nemico. Non è il rifiuto di fronte alla necessità etica di prendere posizione. Ché anzi osservare e comprendere è proprio il passo necessario per prendere consapevolmente posizione. Lo farà con le immagini di un film.

Il film che Delbono ha tratto dalle immagini riprese durante il viaggio in Palestina si intitola Guerra. Ma piuttosto che allo spettacolo presentato il titolo fa riferimento allo stato del paese che in quel momento ci appare davanti. O forse a come una creazione teatrale nata in tutt’altro contesto può misteriosamente rispecchiare quello stato. 

Una guerra strisciante, che sembra insinuarsi in ogni piega del vivere quotidiano. E infatti il film si illumina sull’immagine di un filo spinato. E a lungo non servono parole, dopo quelle di Pasolini poste in epigrafe. Serve solo guardare. 

Immagini di distruzioni. Rifiuti abbandonati. Altri muri sbrecciati e altro filo spinato. Il ferro già un po’ arruginito dell’armatura che emerge dal cemento frantumato.

“Per ogni cosa c’è il suo tempo, per ogni faccenda sotto il cielo”, urla Pippo nello spettacolo. “C’è un tempo per la guerra e un tempo per la pace. C’è un tempo per gettare i sassi e un tempo per raccoglierli”. Qui tutto sembra essersi fermato al tempo dei sassi.