Dicembre 2024

Se non serve a educare, a cosa serve il patrimonio immateriale?

A cosa serve la lista del patrimonio immateriale Unesco, dunque?

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Il Patrimonio Culturale, si legge sulla pagina ufficiale di Unesco Italia, “non è solo monumenti e collezioni di oggetti ma anche tutte le tradizioni vive trasmesse dai nostri antenati: espressioni orali, incluso il linguaggio, arti dello spettacolo, pratiche sociali, riti e feste, conoscenza e pratiche concernenti la natura e l’universo, artigianato tradizionale.” 

La rilevanza che tali componenti rivestono nella generale formazione culturale individuale e collettiva è innegabile, e proprio a fronte di tale rilevanza, è forse il caso di iniziare ad interrogarsi sulle modalità con cui attualmente si ritiene tale “patrimonio culturale immateriale” debba essere supportato.

Senza entrare in dettagli tecnici, di base, ci sono tre principali modalità attraverso le quali ad una determinata componente immateriale può essere garantita la sopravvivenza: se la tradizione è “viva”, e quindi ha ancora un valore vitale per la comunità in cui tale tradizione ha avuto origine o si è estesa, seguendo talvolta le migrazioni degli uomini, tale tradizione mantiene il proprio carattere di autenticità ed è sostenuta, sia economicamente che sotto il profilo contenutistico sia ancora attraverso l’adesione e la partecipazione, dalla comunità di riferimento, attraverso organizzazioni, strutturali o spontanee, che possono agire anche ignorando l’importanza che queste giocano a livello globale.

Quando ciò non accade, tuttavia, e quindi quando una determinata tradizione, per una serie molto eterogenea di ragioni, smette di essere vissuta, sostenuta e sufficientemente finanziata dalla propria comunità di riferimento, si incorre nella necessità di rintracciare modalità di finanziamento ulteriori: tali fonti possono essere le risorse private (imprenditori e finanziatori che decidono di donare risorse economiche come liberalità o a fronte di vantaggi specifici), o enti collettivi (risorse pubbliche territoriali, regionali, nazionali, internazionali), o ancora finanziate attraverso l’estensione dei soggetti cui tale tradizione si rivolge, incentivando quindi visite turistiche e fenomeni di spettacolarizzazione.

Tutte queste dimensioni sono portatrici di “finanziamenti” che se da un lato assicurano continuità ad una tradizione, dall’altro presentano anche delle criticità che è utile approfondire.

Il sostegno pubblico, ad esempio, rischia di ridurre la partecipazione spontanea da parte dei cittadini e delle comunità di riferimento. Si tratta di una dimensione alquanto nota nell’ambito della psicologia prosociale, vale a dire quella branca della psicologia e di altre discipline collegate, che analizzano il comportamento che individui e comunità adottano in una logica di benessere sociale collettivo. In genere, in questi casi, si parla in genere di effetto sostituzione, vale a dire la riduzione di impegno personale da parte degli individui che può ad esempio derivare dalla costituzione di una struttura organizzativa deputata al sostegno delle persone più fragili di una collettività. Episodi di questo tipo sono stati riscontrati in contesti molto eterogenei, che spaziano dalle comunità indigene alle più strutturate comunità rurali in Cina. Ma si può trovare, per restare in ambito “culturale”, anche in alcune istituzioni del nostro Paese, che, fondando la propria sopravvivenza principalmente su una componente di sostegno pubblico, sono meno interessati rispetto ad altre organizzazioni a coinvolgere attivamente i soggetti privati o i cittadini all’interno delle proprie attività.

Il sostegno privato, d’altro canto, rischia un utilizzo strumentale della cultura e delle tradizioni locali. Tale rischio è poco elevato quando ad intervenire è la stessa comunità di riferimento: un imprenditore locale, che condivide con il resto della comunità l’adesione a determinate pratiche culturali, può aderire sicuramente per ottenere una maggiore visibilità, ma lo farà tenendo conto del concetto di “reward” all’interno del proprio contesto di riferimento. In altri termini, e accettando le semplificazioni, se un imprenditore siciliano decide di finanziare, attraverso una sponsorizzazione o una liberalità una manifestazione ascrivibile all’opera dei pupi, lo farà nel pieno rispetto di quella tradizione, perché al di là della visibilità del logo aziendale, ci sarà anche la visibilità e la ricerca di “rispetto” e di “appartenenza” alla propria comunità.  Se quello stesso imprenditore siciliano decide invece di finanziare uno spettacolo ascrivibile al Teatro Nōgaku,  è naturale sia più interessato alla dimensione aziendale che al proprio status in una comunità cui non appartiene.  Inoltre, la dimensione di finanziamento da parte di soggetto privato esterno alla comunità di riferimento, rischia di sviluppare criticità analoghe a quanto già visto in tema di sostegno pubblico. In entrambi i casi, poi, nel caso in cui il finanziamento provenga dall’esterno della comunità e si strutturi in eccesso rispetto alle reali esigenze, il rischio che ci siano distorsioni nel comportamento degli agenti privati non può essere del tutto escluso.

L’estensione dei soggetti interessati, e lo sviluppo di economie correlate al determinato patrimonio culturale immateriale, ipotesi che nella maggior parte dei casi si sostanzia nel fenomeno turistico, introduce ulteriori criticità spesso significative per la stessa sopravvivenza  di tale patrimonio: uscendo dalla lista dei patrimoni Unesco, l’insieme di festività tradizionali che a fronte di un sempre maggior numero di turisti tendono ad essere percepite sempre meno “identitarie”, e sempre più “business-oriented” in Italia è altissimo. La Festa delle Sardine, ad esempio, o i Riti Settennali di Guardia Sanframondi. L’approccio turistico incentiva lo sviluppo di dinamiche che tendono ad una costante estensione della manifestazione o del patrimonio culturale immateriale. L’estensione di tali manifestazioni, unito alla valorizzazione delle componenti più spettacolistiche, rischia infatti di allontanare da una determinata tradizione proprio coloro cui la tradizione è principalmente rivolta.

Se all’improvviso, nel villaggio di  Afounkaha, in Costa d’Avorio, si assistesse all’arrivo di centinaia e centinaia di ragazzi provenienti da ogni parte del globo per assistere ad uno spettacolo Gbofe, il rischio che gli abitanti del villaggio cerchino di massimizzare i profitti economici legati alle proprie manifestazioni tradizionali è tutt’altro che teorico. Così come tutt’altro che teorico è il rischio che un boom turistico all’interno di un’area urbana non ben preparata a tale evento possa portare ad una riduzione della qualità dei prodotti tipici locali, e citare Napoli e il calo della qualità della pizza in quelli che erano considerati i templi di questa istituzione è forse anche superfluo.

A cosa serve la lista del patrimonio immateriale Unesco, dunque?

Come sempre, la risposta non è mai univoca, perché mai come nella cultura, la generalità è tutt’altro che un insieme di casi omogenei. In alcuni casi, è corretto affermare che tale lista è una modalità per agevolare dei trasferimenti internazionali, come nel caso di fondazioni private che intendono favorire lo sviluppo di determinate aree, e che agiscono in questo senso favorendo il finanziamento di particolari patrimoni immateriali. In altri, è invece più corretto sostenere che tale lista ha una funzione di incentivo, e vale a dire quella di favorire l’emersione di una maggiore consapevolezza dell’importanza culturale internazionale di una manifestazione tipicamente locale. Ancora,  in altri casi  la lista mira a sviluppare un approccio sistemico e organizzato per favorire la continuità delle manifestazioni. 

C’è poi un altro ruolo, che dovrebbe essere invece quello prioritario, su cui la lista UNESCO ha avuto sinora un impatto che non è polemico affermare sia notevolmente più basso rispetto a quanto ci si attendesse: la diffusione di conoscenza.

La lista si arricchisce, con cadenza periodica, di elementi che sono sicuramente sconosciuti alla maggioranza della popolazione mondiale, e probabilmente la maggior parte del patrimonio culturale immateriale inscritto all’interno della lista UNESCO di una nazione (ad esempio l’Italia) è probabilmente sconosciuta anche alla maggioranza degli italiani stessi.

Sicuramente si può arguire che lo scopo primario della lista non sia quello di diffondere la conoscenza delle singole manifestazioni, ma quello di tutelare la persistenza di tali manifestazioni o patrimoni immateriali della cultura, ma senza un’attività realmente educativa, che richiederebbe anche risorse aggiuntive che a quanto pare l’UNESCO attualmente non ha, si può dire davvero assolta la ragion d’essere della lista stessa?