Dicembre 2024

Intestino d’argento. La cavità della bocca e i suoi umori

A bocca chiusa Effetti di ventriloquio e scena contemporanea di Piersandra Di Matteo

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Intestino d’argento è un testo acceso dall’ascolto ventriloquo suggerito da A bocca chiusa. Effetti di ventriloquio e scena contemporanea di Piersandra Di Matteo, teorica, dramaturg e curatrice nel campo delle arti performative. In A bocca chiusa, Di Matteo guarda alla sensibilità della scena performativa nei confronti dell’arte di emettere parola senza aprire bocca: il ventriloquio. Una pratica, quella del ventriloquio, che negli anni recenti rifiuta pupazzi e marionette, evidenziando invece le forme di controllo e perdita di controllo nella presa di parola: la voce non solo come atto di presenza. La lettura del libro ha stimolato una sintonizzazione con la bocca, l’abisso orale che permette di muovere la sottile membrana tra testo e suono. Nel corso della stesura di Intestino d’argento si sono radunate parole a seconda del loro suono vocale, come bocca/trabocco/buccale, tanto che a volte il testo pare prendere una direzione onomatopeica. Una scrittura sonora che si posiziona nella frizione del linguaggio, in quel momento di collisione e attrito in cui un concetto si esprime con il suo suono, prevaricando il senso letterale e muovendo un ritmo nella lettura.

§ 1. A bocca chiusa si muove come sostanza porosa all’interno del teatro della bocca. La bocca è luogo di abiezione corporea, strumento di esplorazione di una raccolta bagnata di gesti vocali come palcoscenico. Tra voci dissociate, organi illegittimi e rivendicazione di parola nello spazio buio della bocca, una voce si fa vibrata in altre gole, nelle pieghe, nei pori della pelle, negli orifizi corporei: i buchi bui vengono fatti parlare.

Il libro esplora le emissioni degli orifizi nella messa in scena dell’atto ventriloquo analizzato attraverso performance ed eventi scenici, assumendo una postura sensibile alle dimensioni dell’ascolto: sintonizzazioni e de-sintonizzazioni, sincronie, dislocamenti e ri-posizionamenti. Ci scaraventa all’interno della bocca, ci invita a familiarizzare e a farci perturbare da un suono collocato in una mano o spinto in un corpo altro, nel limbo tra il parlare e l’essere parlat3, fino a contemplare un testo che prolifera nella gola, infestandola, e facendoci ritrovare in un pavimento umido e spettrale. Come viscere, su quel pavimento di bave si evocano in rituale analisi di pratiche performative ed esperienze sceniche che, a partire dagli anni Dieci del nuovo Millennio, si sono mosse nell’azione delle cavità bagnate dell’atto ventriloquo.

Quel buco senza legittimazione viene convocato e fatto suonare, risucchiando l3 spettator3 nella bocca nera di Not I (1972) di Samuel Beckett, e diventando un intermezzo ludico di un’atmosfera infestante in The Infinite Pleasure of the Great Unknown (2008)del regista e designer londinese Simon Vincenzi. Qui bocca e ano vibrano come unico tubo oscuro pulsionale, quello che Paul Preciado con Terrore Anale definirebbe un tubo dermico che risponde alle leggi di gravità prima della sua castrazione. Pare tutto avere più sensi, più ingressi, più buchi pronti allo spurgo socialmente temuto. Sembra che l’ascolto si stia posizionando pericolosamente nelle parti del corpo non legittime, umide, virulente.

Simone Vincenzi, The Infinite Pleasure of the Great Unknown (2008), ph. Luca Ghedini

È quello che accade con la coreografa svizzera Yasmine Hugonnet: l’ascolto scivola negli organi locutori illegittimi. Un corpo nella scena si fa cassa di risonanza di suoni sotto-traccia, ricorrendo a pratiche di depistaggio della voce in un altrove del corpo che sta fermo o quasi fermo. Micro-movimenti delle mani fanno sì che queste parlino, rendendo il ventriloquio non tanto un inganno quanto una pratica coreografica capace di rompere le gerarchie del danzabile.

È un indirizzo dell’ascolto verso un dislocamento tra vedere e sentire quello che Romeo Castellucci trasla in un corpo a corpo tra il parlare e l’essere parlat3 in più lavori. Rilevante è il tribunale fantasma in cui Giovanna D’Arco, protagonista nella messa in scena dell’oratorio Jeanne d’Arc au bûcher (2017) composto da Arthur Honegger, enuncia la propria stessa condanna ventriloquizzata dal giudice del suo Processo, ribattezzato Porcus, nella versione allegorica voluta da Paul Claudel, autore del libretto a cui spetta un’irriverente parodia della vocalità operistica. Corpo e potere come ripiglino tra spiriti irrequieti, inseriti l’uno nell’altro e invasi vicendevolmente. 

Penso ai fantasmi invischiati nei pupazzi che infestano la gola del performer Jonathan Capdevielle, fili di bava che reclamano la presenza della bocca, che ospita secrezioni come testimoni di un’interferenza tra interno ed esterno, tra piano di realtà e spettri interiori. È lo sconfinamento suggerito dalla regista, artista visiva e marionettista Gisèle Vienne nello spettacolo Jerk (ora anche un film). Jerk si muove su una finzione scenica che prevede uno spettacolo di burattini dell’ergastolano Brooks, interpretato da Jonathan Capdevielle in un atto vocale denso di stratificazioni che racconta la storia di Candy-man, noto serial killer che uccise ventotto ragazzi a Houston tra il 1970 e 1973. In questo intreccio disturbante, Brooks viene infestato dai burattini in un doloroso ribaltamento di presenze. Proliferazioni di voci in una sola gola soffocata di liquidi, come un wormhole che vacilla, uscendo dal suo contenimento, come una grotta piena di acque paludose.

In i am that am i, performance ideata dalla formazione toscana Kinkaleri, tutto comincia già nel pavimento bagnato della cavità orale, come se il testo e i suoi personaggi fossero già implosi nella bocca prima della performance e si fossero ricomposti per l’occasione. Ed è lì che teatro e testo esplorano il reciproco attrito. i am that am i è una performance di ventriloquio che inscena Le serve di Jean Genet, ispirato al pluriomicidio delle sorelle Papin del 1933. Chiara e Solange, le protagoniste, si muovono nelle pieghe della gola di Anna De Mario interagendo in partitura sonora colma di rutti, ronzii, colpi di tosse guidati dall’eterodirezione. Le voci si contaminano, si sporcano e diventano irriconoscibili quando l’interprete sbuccia e mangia una banana, un atto di masticazione per niente innocente che allude all’atto cannibale di ingestione dei personaggi. Kinkaleri a proposito del lavoro propone di pensare il lavoro come “una via di fuga, un tentativo di essere nel teatro più rappresentativo del Novecento e sovvertirlo dall’interno, aprirlo come Artaud aprirebbe una banana, come un corpo abitato da un virus incubato da tempo rivela il suo ospite esoterico tra un conato e l’altro di suoni, parole e glossolalie”. Mentre le voci infestano la scena in tutta la loro matericità, il pavimento bagnato che accoglie la performer evapora la sua acqua stagna, primo richiamo scenico alla cavità orale. Questo ambiento scivoloso, fermo e vibrante, che Di Matteo analizza attraverso casi studio della scena contemporanea, è il piano su cui ho iniziato a sfaccettare la mia ricerca. 

Gisèle Vienne, JERK Photo-Alain-Monot

§ 2. A bocca chiusa apre a nuovi pavimenti bagnati in cui stare sedut3, a nuove gestualità, angolature sbieche, orecchie sghembe e tentativi di legittimazione di un ascolto altro. È una superficie sempre vibrata e capace di lanciare i sensi in nuove traiettorie, in luoghi d’ombra da illuminare. Un’operazione che è per me una spinta a collocarmi nel buio, in una messa in relazione vischiosa della cavità buccale e i suoi umori di travaso: tra il corpo e la bocca degli strumenti a fiato. Il pavimento salivare che voglio convocare è quello dell’orchestra: suolo bagnato e virulento di un suono ripulito in cui voci indistinte si affollano. C’è una collocazione in orchestra che vibra di abiezione per via dei liquidi corporei, ed è quella delle ultime file di ottoni, una vera e propria zona marginale tra tuba e flicorni. Sono gettati in un mare di collisioni salivari. Ho sempre vissuto nella convinzione che la giustificazione al posizionarli nell’ultima fila non fosse solo acustica, ma avesse a che fare con una storia viscida: nascondere i gesti sporchi.

Nella densità delle retrovie, suonare è una coreografia buccale in un percorso liquido e intrecciato, uno scontro con un corpo che si fa intestino argentato e umido: un corpo capace di gettare nell’imbarazzo e nel disgusto, perché produttore di rumori non legittimati socialmente. Il suono del corpo, che viene significato come sgradito in un’educazione al disgusto che ci vede tutt3 partecipi, viene qui liberato dagli orifizi. Lo psichiatra-musicista Peter F. Ostwald nel suo The Semiotics of Human Sound (1973) mette in evidenza un aspetto interessante al nostro discorso quando afferma:”Tra gli organi interni del corpo che fanno rumore, il tratto digestivo è probabilmente il più musicale, una sorta di banda in miniatura. La bocca, una specie di tromba, può sibilare, squillare e sbocconcellare. L’esofago, come un fagotto, produce gorgoglii, rutti ed eruttazioni che, se ben ritmati, possono suscitare una notevole ilarità. Lo stomaco, simile a un corno francese, gorgoglia, ringhia e geme. L’intestino, simile a un glockenspiel, tintinna durante la peristalsi. Il colon, simile a un trombone, si agita mentre si diletta a sbocconcellare una pappa semisolida. Di tanto in tanto i suoi rumori, soprattutto gli improvvisi bip e bip acuti, mettono in imbarazzo il direttore della banda. I brummps, simili a tubi, indicano il deposito di feci nel retto in previsione della scarica finale, accompagnata da una fanfara di rumori” (p. 28).

Il flicorno è colmo di buchi, incastri, zone umide e ossidabili, nascoste ma immediatamente visibili. Un insieme di curve che culmina nel buco in cui inserire il bocchino, costruito su misura a partire dalla propria bocca e la sua postura. Nel momento in cui l’umidità della cavità e mucosa orale interagisce col bocchino, il cumulo di condensa generato nella coppa scivola nelle tubature fino a sedimentarsi vicino alle leve o nelle zone a U. Dapprima ospite silenziosa, la saliva comincia a bollire e traboccare. Il suono non è più puro, contenuto, esce dal pentagramma e si fa corpo incontinente, rumore di bolla che devia il tono della nota. C’è una sensibilità a questa vibrazione salivare, un’educazione a un suono sporco, o pronto a spurgare. Un ascolto del proprio liquido, come in un corpo a corpo a membra scoperte. Il fantasma acquoso infesta il suono, e va cacciato come virus, in una sovrapposizione di voci che sembra quella di Chiara e Solange. Ed ecco la liberazione, il ferro di cavallo ricolmo di liquido denso viene estratto e velocemente svuotato a terra. Il suono è ripulito dai suoi strascichi corporei, le sue membra tornano a seccarsi in attesa di una nuova produzione trasparente. I pistoni vengono unti con l’olio, e ciò che sgocciola si unisce alle onde di saliva prodotte. Così pare una macchia di petrolio nell’acqua, che tanto correrà via senza responsabilità. Dentro le tubature l’aria passa come getto d’acqua putrida moderata. Postura, modulazione del soffio e movimento del diaframma fanno parte della pedagogia sonora con lo strumento. Un allenamento che muove organi, genera evacuazioni inaspettate e insegna una nuova gerarchia delle membra. 

Kinkaleri, I AM THAT AM I, 2010 ph Kinkaleri orizOK

Tra il corpo e l’intestino d’argento dello strumento si insinuano possibilità di suono, respirazione circolare e note fuori pentagramma fortemente infestate. È in quel registro fuori spartito tra corpo e flicorno che sta il ventriloquio, negli interstizi di un’aria rarefatta e condensata in cui l’ectoplasma accede furtivamente. C’è una pratica di limbo nella quale sorge un dybbuk, quello che Di Matteo ci ricorda essere, nella demonologia ebraica, uno spirito di un3 defunt3 che si appiccica come sostanza a un3 vivente parlando attraverso la sua bocca. Una ricerca tormentata di una bocca attraverso cui parlare, una voce che dal limbo si impianta in un altrove.

La voce entra, ventriloquizza lo strumento a fiato, lo fa parlare (senza parola); le corde vocali si attivano nel bocchino e provocano sbalzi di volumi. Uno svuotamento d’aria, un balzo di diaframma in cui produrre un lamento, una multifonia. Due vibrazioni sommate da due fonti che si tagliano, la vibrazione del soffio e quella della voce. Due sorelle che si infestano, in un atto di prevaricazione in cui la seconda disturba la prima, un contrasto di frequenza che la fa tremare.

Nel momento in cui la campana emette voce liquida si manifesta qualcosa che ricorda la bocca che sbava in Jerk, una proliferazione che finisce per andare fuori controllo e diventare stonatura. Nel suono storto si muove una voce che ne abbraccia le peggiori frequenze, creando un’inquietudine sonora simile a un canto funebre. Un crollo del confine tra dentro e fuori che finisce in un tripudio salivare a terra, funerale della bocca.

Il flicorno diventa la mano che direziona all’ascolto di una voce che sta nell’ottone in trepidante attesa di un trabocco. E se questa voce impigliata nelle condense interne degli strumenti venisse avvicinata a una fonte d’acqua? Se quel pavimento umido si alzasse di livello? 

Legittimare la presenza liquida usando l’acqua stagna come cassa di amplificazione dell’orrido suono corporeo, tornare nel buio della cavità orale e danzare con i suoi fantasmi: un corpo e il suo prolungamento intestinale argentato, una voce nei tubi umidi, una gola che apre al più-che-umano come in una grotta affollata. Nella bocca per la bocca.