Paolo Gervasi ha coordinato un confronto aperto sul mondo del lavoro, la sua organizzazione e i cambiamenti in corso insieme a Fabio Lisca e Sergio Pissavini
Paolo Gervasi: Questa conversazione nasce per provare a identificare come sta cambiando il mondo del lavoro e quali sono le grandi tendenze che lo stanno rimodellando. L’idea nasce dalle riflessioni che stanno emergendo grazie al lavoro di scavo e di analisi che Fabio Lisca e Sergio Pissavini hanno portato alla luce con Leader no leader. La visione delle organizzazioni human-centric / La visione del manager primo volume della collana Convergenze che dirigono per Luca Sossella editore.
Probabilmente è inevitabile partire dalla tecnologia, l’emergenza di nuovi fenomeni tecnologici che stanno mutando la forma del modo di lavorare, ma sopratutto stanno radicalmente mutando il modo in cui concepiamo il lavoro.
Ci sono nuovi lavori che non esistevano che vengono abilitati dalla tecnologia e ci sono anche nuovi modi di accedere al lavoro e alle professionalità che vengono anch’essi abilitati dalla tecnologia. Attorno a questo scenario svilupperemo alcuni ragionamenti, ipotesi, visioni e prefisioni con Sergio Pissavini, executive leader in diverse multinazionali e con Fabio Lisca, fondatore di Agile School.
QUANDO SI ASSUME UNA PERSONA
Sergio Pissavini: Uno degli aspetti più importanti in questo momento lo si osserva quando si cercano persone da assumere all’interno della propria organizzazione. I consulenti si sforzano proponendosi in modo nuovo ed è sicuramente è qualcosa che va compreso. Nello stesso tempo però ci sono alcuni aspetti che mi lasciano perplesso, perché nel campo della consulenza c’è una spinta notevole nel presentarsi su diverse piattaforme o su diversi social continuando però a ripetere lo stesso messaggio. Vedo raramente articoli che vanno in profondità, spesso è piuttosto una presentazione di quanto si è bravi, di quanto si può rappresentare un fenomeno, di quanto si può essere bravi a descrivere una particolare situazione. Quindi io vedo una costruzione d’immagine ma non vedo una costruzione che entri nello specifico delle proprie competenze. E mi resta un dubbio: come faccio a questo punto ad assumere una persona e a valutarla? La valuto solo attraverso come si presenta sui social e quindi vengo a perdere il contatto diretto della classica intervista in cui ha una certa importanza l’istinto?
Perché alla fine quando si assume una persona questa entra da far parte di un team non resta solo come un elemento che lavora dall’altra parte dello schermo. L’interazione col team per me è estremamente importante e così la capacità di interagire con le altre persone. Istintivamente quello che tu vedi nell’altra persona resta fondamentale. Sarà forse una preoccupazione di chi ha un certo numero di anni di esperienza sulle spalle, ma è anche un dubbio che permane in me fortissimo.
Fabio Lisca: Parto da questo ultimo spunto che ha dato Sergio, perché quando ho iniziato a fare inbound marketing volevo prendere qualcuno che mi aiutasse. Uscendo dall’università molti ti presentano un curriculum che non dice niente e inoltre quello che hanno studiato non serve praticamente a nulla. Quindi che cosa ho fatto? Ho costruito un percorso di inbound recruiting, cioè ho permesso a quella persona di fare le cose che poi avrebbe dovuto… in pratica imparare. E così facendo ho fatto una selezione naturale. perché chi è rimasto fino alla fine ha scelto me, non sono io che ho scelto loro. Ho un po’ ribaltato la modalità. Se tu dai la possibilità alle persone di capire se quello che verranno a fare è quello che gli interessa probabilmente saranno più felici poi di farlo.
AI E PENSIERO VELOCE
Fabio Lisca: L’aspetto preponderante delle nuove tecnologie è che implicano un fattore determinante, e cioè quello dell’apprendimento continuo. L’automazione, così come l’intelligenza artificiale, viaggiano insieme. L’intelligenza artificiale sa riconoscere cose che di solito riconoscevano gli umani, ma molto più rapidamente e con un minor numero d’errore. L’automazione invece permette di fare dei lavori che tutto sommato erano noiosi e permette di farlo in modo automatico. C’è sempre però dietro qualcuno che la deve aggiustare, un po’ come il machine learning, cioè: le macchine non imparano mica da sole. Google credo che cambi 600 volte in un anno i pesi ai suoi algoritmi, per cui c’è ancora tanto lavoro fatto dagli umani, ma è un lavoro di tipo diverso.
In Mercedes stanno utilizzando dei robot che accompagnano gli uomini. Ci mettono 90 ore a imparare i movimenti senza colpire l’uomo. Sono lo stesso numero di ore con cui si programmavano i vecchi robot, che però erano escatolati proprio perché avevano il difetto di non vedere, di non essere sensibili a ciò che accadeva intorno. Ultimo esempio: ci sono quattro satelliti italiani che girano intorno al mondo e scaricano 1500 immagini tutti i giorni. Decidere come leggerle è praticamente impossibile. Le macchine invece possono ad esempio il valutare il costo reale del petrolio andando a vedere l’ombra proiettata dalle petroliere rispetto alla stazza della nave. Le macchine sanno leggere tanto materiale che noi non sappiamo, ma siccome sono governate da noi, noi dobbiamo acquisire la conoscenza anche della macchina oltre che della materia.
Sergio Pissavini: Tante volte l’uomo usando l’istinto può produrre anche delle analisi sbagliate, ma ho forse l’illusione di credere che l’istinto, un pensiero veloce che collega in maniera non palese tutta una serie di accadimenti e esperienze, qualche volta ti possa dare qualcosa di brillante che non può darti l’intelligenza artificiale. Quindi l’impatto dell’uomo nel valutare quello che sta uscendo dalla macchina è importantissimo. Se il risultato ha una logica basata anche sulle intuizioni dell’uomo e sulla sua esperienza probabilmente cresce anche l’intelligenza artificiale.
ELABORARE DATI PER DELEGARE DECISIONI
Paolo Gervasi: Rispetto a questo che dite mi viene in mente che proprio la capacità di elaborazione di quantità enormi di dati è un po’ il tema dell’ultimo libro di Harari, Nexus. L’autore paventa l’avvento di un totalitarismo algoritmico, probabilmente con un eccesso di allarmismo, cioè l’ipotesi di delegare molte decisioni e quindi responsabilità nelle organizzazioni
Sergio Pissavini: Non arrivo a pensare che in un futuro saremo guidati dalle macchine perché questi sono secondo me ragionamenti per assurdo, però occorre la capacità umana di valutazione, e nello stesso senso chiedersi se quello che sta arrivando è corretto e non prenderlo di default perché è sviluppato da un gruppo di team super esperti o da un algoritmo estremamente complesso e sofisticato.
Fabio Lisca: Secondo me il vero cambiamento parte molto tempo fa, diciamo per esempio in Toyota dalla fine della guerra. Loro erano un’industria tessile e l’idea era quella di creare delle automazioni. Toyota significa proprio automazione con il tocco umano. Perchè? Quale era l’intenzione? Fare in modo che gli errori fossero rilevati dalle macchine e che poi l’intervento umano implicasse soltanto la capacità di pensare in senso creativo per risolvere l’errore. Tutta l’impostazione di Amazon è stata basata su algoritmi che si chiamano collaborative filtering. La capacità predittiva diventa sempre così più sofisticata, ma la differenza è che l’umano deve imparare cose nuove, sennò non governa le macchine. E viene governato dalle macchine, ovvero il terrore di Harari.
VIVERE IL LAVORO
Paolo Gervasi: Infatti la chiave dell’apprendimento secondo me sarà questa, una grande sfida anche di tutti i sistemi educativi, fuori e dentro le organizzazioni, partendo dal sistema educativo di base.
Ma l’altra grande forza che sta trasformando il lavoro, aprendo nuovi orizzonti, nuovi modi di relazionarsi è proprio quello che le persone chiedono al lavoro, cioè il modo in cui lo vivono, il modo in cui lo interpretano, il posto che danno al lavoro nelle loro vite. Quindi da un lato lasciare il lavoro e cercare di fare qualcosa di più significativo con le proprie vite. Dall’altro quello che si chiama quiet quitting cioè un lasciare senza lasciare, stare lì, vivacchiare, fare il proprio piccolo compito senza impegnarsi più di tanto perché magari appunto il centro della propria vita si è spostato da un’altra parte. Vi chiederei dal vostro osservatorio come vedete questo cambiamento.
Sergio Pissavini: Ultimamente ho osservato questo cambiamento in atto, nel senso che per assumere persone occorre ormai offrire pacchetti anche molto diversificati e molte aziende sono in difficoltà perché non sono strutturate per poterlo fare. Fanno fatica anche a descrivere il lavoro di cui hanno bisogno. È un periodo di transizione, ma sono convinto che poi i due sistemi torneranno a parlarsi, però in questo momento è necessario uno sforzo enorme da parte delle aziende.
Fabio Lisca: Credo che al momento ci siano due punti di vista, due grossi paradigmi organizzativi. Uno che è quello di predizione e controllo, che è ancora insegnato nelle università, negli MBA, e credo che l’80% delle organizzazioni adotti quel tipo di mentalità. E c’è poi c’è quello che si chiama “di autonomia condivisa”, che è ancora poco diffuso, ma che sposta il concetto da avere persone selezionate che facciano delle cose che l’azienda sta facendo e di cui ha bisogno, a persone che diventino un po’ degli intraprenditori all’interno dell’azienda. Questo paradigm permette anche a chi ha voglia e ha uno spirito imprenditoriale di creare la propria azienda all’interno dell’azienda. C’è un bellissimo esempio che è Valve, è un’organizzazione che fa videogiochi ed è stata fondata da due fuoriusciti da Microsoft che hanno deciso che l’organizzazione non avrebbe avuto neanche un manager. Valve è un’organizzazione piatta dove creano in pratica dei marketplace interni all’organizzazione. Questi spostamenti – per le nuove generazioni, ma anche per quelli della nostra età – offrono più possibilità di trovare uno scopo, un senso e anche una progettualità personale.
FINE DEL POSTO FISSO?
Paolo Gervasi: Mi piacerebbe porvi una domanda che riguarda proprio i modelli organizzativi, il posto fisso come elemento strutturante del lavoro si sta esaurendo o stiamo assistendo solo a un mascheramento della precarietà? Secondo voi c’è una sostanza in questi cambiamenti ed è davvero qualcosa che le persone potrebbero preferire all’idea del posto fisso e della sicurezza a vita, oppure è più una retorica che magari cel una perdita di sicurezza?
Fabio Lisca: Il sistema economico sta giocando contro alle persone stesse, ai lavoratori, e che non sta funzionando, è estremamente disfunzionale. Si richiedono maggiori tasse ai lavoratori e allo stesso tempo si danno meno servizi. Almeno in Italia non funziona la sanità, non funziona la scuola e abbiamo una serie di problemi molto seri. Sappiamo poi che c’è una fortissima diseguaglianza, c’è il famoso 1% dei ricchi che possiede l’80% della ricchezza mondiale e questi non pagano le tasse. Allora è tutto un sistema in sé che probabilmente va rivisto, un sistema con forti interessi che evidentemente hanno anche un impatto sui sistemi politici. Io ammiro molto il lavoro di Edward Deming che dice una cosa fondamentale, dice: attenzione, le buone o cattive performance di un’organizzazione sono dovute al 94% all’organizzazione, solo al 6% al fattore umano. Questo implica il fatto che il fattore umano può agire e cambiare soltanto se riesce a cambiare il sistema. Quindi esistono entrambi gli elementi. Precarietà e mascheramento della precarietà dall’altro e forse difficoltà di creare un modo, una modalità di possibilità diverse perché il sistema non lo permette.
Sergio Pissavini: Sì, diciamo che il mito del posto fisso ormai sta tramontando. Io ho cambiato sette posti di lavoro nella mia carriera. Io ho lasciato l’Italia per andare all’estero, il mio primo contratto l’ho avuto in Svizzera dove il concetto di precarietà non esisteva, nel senso che io potevo essere licenziato con 30 giorni di preavviso in qualsiasi momento per mancate performance, però ho accettato questa sfida.
In Italia dobbiamo affrontare questo discorso da un punto di vista strutturale. Perché io posso assumere facilmente se so che ho poi qualche flessibilità nel caso avessi una problematica grossa in azienda, altrimenti diventa un vincolo che blocca secondo me un pochino tutto il sistema. In Francia ho avuto esperienze dove siamo riusciti a riorganizzare situazioni nel momento di crisi per poi riassumere i lavoratori giocandolo con aziende del territorio. Trovare il giusto equilibrio come diceva Fabio non è facile perché chiaramente ci sono strutture che sono ormai bloccate da molto tempo per cui si fa fatica a muoverle e andare nella giusta direzione dove una flessibilità sarà inevitabile, anche perché i cambiamenti legati alla tecnologia porteranno il desiderio di cambiare spesso il lavoro, ma per una crescita personale, non soltanto perché si è obbligati.
Fabio Lisca: È un argomento che implica anche il sistema socio politico, quindi è difficile da affrontare. Sempre a livello organizzativo c’è l’esempio di due organizzazioni, Favi in Francia che fabbrica auto e l’altra è la Semco. Quando hanno avuto un momento di crisi anziché prendere delle decisioni centralizzate su cosa fare hanno fatto un’assemblea con tutti i lavoratori della fabbrica e si sono auto-organizzati fino a quando si sono ripresi. Quindi l’idea di coinvolgere invece di decidere dal centro può essere un fattore vincente.
Sergio Pissavini: In Francia ho avuto per esempio una discussione relativamente a una riduzione, che poi si è rivelata temporane. La mia controparte era un sindacalista con una grossa esperienza, insieme abbiamo valutato le condizioni del mercato e abbiamo ottenuto una buona gestione. Ma non partendo dall’assunto “io devo ridurre, tu non puoi ridurre”, ma Qual è la problematica? Quali sono le alternative che possiamo prendere in considerazione?
Fabio Lisca: E poi vorrei dire che per i giovani – in particolare – rimanere troppo tempo all’interno della stessa organizzazione non è più un plus, ma è ormai chiaramente un minus.
Paolo Gervasi: Stavo proprio pensando a questo, come generazione siamo stati catapultati nel mondo del lavoro nel pieno della crisi post 2008 e quindi con un’idea che era tutto finito, non ci sarebbe più stata nessuna possibilità di stabilità e anzi bisognava prendere quello che capitava. Vi chiederei così di riflettere sull’elemento delle generazioni. Perché poi spesso accade, magari anche nelle organizzazioni più grandi, che generazioni diverse si trovino a lavorare fianco a fianco, vivendo il lavoro in modo completamente diverso. Come vedete voi questo incontro fra generazioni che sono modi diversi di intendere il lavoro?
Sergio Pissavini: Dipende molto dalle personalità. Io che mi definisco un manager di origine anglosassone, avendo fatto la mia carriera all’estero, con una società anglosassone, sono sempre stato convinto, in parte perché all’inizio l’ho sperimentato sulla mia pelle, che il giovane ha sicuramente dei grossi vantaggi: può portare idee nuove, può portare magari competenze nuove. E soprattutto ha il coraggio di fare, perché ha l’incoscienza, di fare quelle domande che nessuno ha il coraggio di fare. Il problema è che le organizzazioni spesso non sono così pronte ad assumere i giovani e a valorizzarli. La figura del senior è quella di spiegare la sua esperienza, dare qualche esempio e spronare. Una cosa che odiavo è quando mi dicevano “non si può promuovere quella persona perché è troppo giovane”. Cosa significa? È sulle abilità tecniche e personali che si prende la decisione, non sulla base dell’anzianità. Però questo è un problema che ritengo complicato in Italia più che all’estero soprattutto nelle cosiddette PMI, perché nelle PMI c’è spesso una chiara verticalizzazione da senior a junior, dove il senior dipende in maniera molto importante dalla sua posizione, dalle sue competenze, dalla sua storia, e vede come un cedere qualcosa che è suo.
Fabio Lisca: Le generazioni vengono tracciate a partire dal baby boomer, è la prima che viene tracciata come generazione dai sociologi, perché prima non si usava. Le generazioni erano ogni 25 anni, perché in genere i figli si facevano intorno a quell’età li.
Però credo che sia un finto problema nel lavoro. È un problema che pongono molto, come sottolineava Sergio, le organizzazioni gerarchiche. Allora, il problema non è tanto quello delle gerarchie o della differenza, ma il fatto che possiamo lavorare all’interno di un team, perché all’interno di un team si esercita quella forma di peer control che aiuta tutti e che cambia molto la dimensione del lavoro. Come però questo team viene organizzato o meglio si auto organizza fa la differenza.
SMART WORKING
Paolo Gervasi: Mi piacerebbe toccare un altro tema che è forse un po’ più specifico rispetto a quelli che abbiamo fin qui discusso, cioè quello del “da dove si lavora”. Quando siamo passati attraverso la pandemia la tecnologia è entrata a supporto e ha reso possibile cose che prima ci sembravano impossibili.
Sergio Pissavini: Ci sono situazioni in cui uno può lavorare a casa magari un giorno, due settimane, credo molto al principio della flessibilità in questo che è legato all’intelligenza di chi gestisce e all’intelligenza di chi lavora in smart nel fare quello che deve fare, nel deliberare quello che deve deliberare nei tempi corretti e della qualità corretta. Questo è indipendente dal fatto secondo me che lavori in ufficio o lavori smart. Ci sono però due aspetti che vanno presi in considerazione: il fatto che comunque essere presenti in azienda è importante per le relazioni interpersonali che penso non si possano creare soltanto in comunicazione via zoom o via qualsiasi altro tipo di strumento. C’è poi il comprendere le situazioni osservando le persone, osservando come ci si muove, osservando come si dialoga all’interno di un’organizzazione e questo secondo me è altrettanto importante nella condivisione degli spazi di lavoro.
L’altro aspetto che mi trovo a valutare con attenzione, perché l’ho potuto vedere, sono gli effetti collaterali dello smart working che possono essere da una parte motivanti per alcune persone, ma possono anche creare situazioni di disagio in altre, perché una persona poi può tendere a rinchiudersi, vedere la sua realtà soltanto attraverso quello che vede nella teleconferenza e creare delle situazioni di disagio a livello psicologico importanti.
Fabio Lisca: Lo smart working esisteva già da prima per alcune organizzazioni, soprattutto quelle tecnologiche che sviluppano magari software e utilizzavano persone da ogni parte del mondo. Tanto che se vuoi il loro problema era proprio di fare questi recruiting online. Ma è qualche cosa che probabilmente va molto bilanciato. Sicuramente è stato catastrofico per quelli che andavano a scuola. E credo anche che in certi MBA dicessero “ tu vai a fare un MBA non tanto perché impari delle cose che poi ti servono ma perché perché crei un network e tu il network in smart hai un po’ fatica a stabilirlo. Sono due aspetti che vanno considerati e probabilmente dosati.
Sergio Pissavini: La tendenza è andare, ora esagero, verso le problematiche che il Giappone ha affrontato con gli hikikomori, ovvero persone che poi non si muovono assolutamente da casa e con una serie di disagi che poi si manifestano in vari modi.
Paolo Gervasi: Credo che la questione sia interessante soprattutto nei suoi termini sfumati e anche nelle contraddizioni, nelle tensioni che crea. Ho letto un paragone che mi sembra abbastanza interessante, che è quello dell’ufficio come palestra, cioè di usare l’ufficio come adesso usiamo la palestra, cioè un posto dove vado perché vado a fare qualcosa che è utile lì, cioè che mi serve, in cui passo perché vado a fare quel tipo di esercizio che mi serve di fare lì.
Sergio Pissavini: Ho sempre cercato di organizzare i cosiddetti management team meeting, dove si era fuori due o tre giorni, se non quattro all’anno, dove in maniera autarchica, proibito l’uso del cellulare e non si parlava solo di business, si faceva attività insieme anche per conoscere le persone, per sapere come rivolgersi a una persona, come approcciare le persone, sapere come reagiscono magari in certe situazioni, che ti serve per un dialogo migliore, per una comunicazione migliore. Anche qua devo dire che c’è una grossa differenza tra il mondo anglosassone e l’italiano. L’italiano tende a vedere il management team building come una perdita di tempo, ma secondo me semplicemente perché ha paura di esporsi facendo attività non catalogate e ben inscritte nella sua attività di business.
Fabio Lisca: C’è anche da aggiungere che le organizzazioni knowledge intense, quindi con un basso consumo di conoscenza, hanno da sempre organizzato quelle che chiamano comunità di pratica o in alcune organizzazioni le gilde periodiche per scambiare le conoscenze.
DOVE STIAMO ANDANDO?
Paolo Gervasi: Leggevo ultimamente che è sempre più sovrastante la percentuale di lavoro che è skill-oriented e che non tiene conto dell’organigramma. La competenza prima della gerarchia?
Sergio Passavini: L’evoluzione non la puoi fermare: devi cercare di bilanciare le cose. Non bisogna opporsi, non bisogna neanche darsi degli schemi rigidi, bisogna essere flessibili abbastanza per poter bilanciare e valutare con tranquillità le situazioni in cui è necessario andare magari in maniera più soft. Il cambiamento va affrontando tenendo presente i rischi e valutando cosa fare per contenerli.
Fabio Lisca: In questo momento non si vede tutta questa grande evoluzione nelle organizzaioni. È molto millantata, ma poco praticata. Quindi quali saranno i nuovi modelli? Vedo i millennials che fanno alcuni lavori creativi insieme, e riconoscono molto più le competenze che non le gerarchie. Riconoscono il fatto di aver bisogno di altri e si organizzano come network.