«La stessa stanza non era più la stessa. Il tappeto era rimasto del colore tremendo che avevamo ribattezzato «verde conato», e sulla sua superficie restavano tracce dei nostri ricordi sotto forma di chiazze velate…».1 Prabda Yoon, eclettico artista tailandese, comincia così uno dei racconti contenuti in Feste in lacrime (2018).
Ho pensato immediatamente a questo racconto quando mi sono ritrovata tra le mani il piccolo – ma denso, pungente – saggio Cosa può un compost. Fare con le ecologie femministe e queer (2022) di Antonia Anna Ferrante. Forse, per quella presa della memoria sulla materia residuale, il suo tentativo di allungarsi attraverso corpi indesiderati. Oppure, per la trasformazione e capacità rigenerativa di un concetto – di un oggetto of concern – attraverso nuove forme che emergono, di volta in volta, dall’insieme magmatico e incostante che lo compone. «La stessa stanza non era più la stessa»;2 anche il compost non coincide mai con se stesso, ma nella misura della sua potenza d’agire, di uno scomporsi e ricomporsi in strutture dotate di nuovo senso che Jasbir Puar chiamerebbe “applicabilità politica dell’assemblaggio”.3
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Pensare con una materia astratta come può apparire quella della compostiera significa interrogarsi, per la prima volta, «a partire dall’organizzazione della materia, nella sua più intima dinamica intramolecolare, e da lì inferire il rapporto che sussiste nelle architetture sociali» (p. 35). Attraverso frammenti di riflessioni di Haraway, Parisi, Tsing e altre studiose femministe, in Cosa può un compost Ferrante rielabora la teoria dell’assemblaggio nell’immagine potente della compostiera, quel contenitore o la “sacca”, per dirla con Ursula Le Guin,4 che accoglie una moltitudine di materie organiche e microrganismi, insieme alle sostanze nutritive prodotte dalla loro interazione.
Appropriandosi della figura del compost, Ferrante disegna le traiettorie desideranti per teorizzare un’anti-struttura orizzontale. Il compost è infatti innanzitutto lo scarto in azione, un processo rigenerativo che corrisponde «ai limiti della sua capacità di essere affetto» (p. 27). Diversamente dalle piantagioni monoculturali, ambienti omogenei che non riflettono le differenze e gli squilibri di potere esistenti tra gli esseri umani,5 il sistema del compost accoglie infatti l’interferenza, la componente non umana che entra e disfa tutto, disturbando e trasformando un sistema apparentemente stabile.
Nella, da e attraverso la compostiera si delineano conformazioni transitorie e instabili, mentre le identità si disgregano insieme ai corpi che le rappresentano, immersi nel processo della decomposizione: umano e non umano, organico e inorganico, materiale e immateriale si mescolano, perdono definizione, mentre i loro confini diventano porosi e permabili. L’orizzonte performativo del compost si arricchisce infatti nella domanda che Ferrante avanza in un passaggio del testo: «Come cambierebbero le risposte pubbliche se si assumesse seriamente la vitalità dei corpi-anche-non-umani»? (p. 35) La compostiera come modello ecologico «per rivendicare anche giustizia sociale» (p. 81) non sussiste, è bene ricordare, senza la presa di responsabilità di una giustizia multispecie,6 e Cosa può un compost affronta questa questione, affidandosi agli ecofemminismi di Val Plumwood e Astrida Neimanis, tra le altre.
In campi diversi ma complementari, le studiose avanzano l’idea di co-evoluzione come processo di costruzione di relazione con l’estraneo (p. 49) a partire dalla materialità tattile di queste relazioni sociali. Dai concatenamenti di relazioni più-che-umane all’interno della compostiera emergono sempre corpi situati, dotati di una propria potenza politica non tanto nella valorizzazione di più capacità di agire, quanto, piuttosto, nella riscrittura «che media le infinite possibilità della materia con […] l’esperienza situata della soggettività»,7 non solo umane, che la compongono.
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Pur nel contesto irrisolto della messa in scena di corpi animali, un esempio nel testo è Composting the City | Composting the Net (2013) di Shu Lea Cheang. Partendo dal presupposto che il processo della compostiera può venire applicato tanto a rifiuti materiali e immateriali, l’artista disegna una evento in cui l’accumulo di frammenti immateriali prelevati dagli archivi della rete si si mescola, diventando materiale digeribile, fermentabile, assimilabile da un gruppo di vermi (p. 89).
Lo scavare degli animali cambia la chimica del terriccio contaminato, che entra «in dialogo col furioso balbettio dei fu digitali, in un fluttuare di frequenze in grado di riparlare di intelligenza comune oltre i limiti del linguaggio, voci di archeologi del futuro che rileggono i lavori precedenti all’apocalisse del Capitalocene» (p. 91).
In quanto teoria transdisciplinare, il compost non è legato a un campo di studi o a una pratica sistematizzata, quanto piuttosto a una postura, a un modo obliquo di guardare la relazione nel suo farsi e disfarsi, nel suo fare e disfare mondi. Nella compostiera, la retorica di una togetherness immanente, volta alla purezza dell’assimilazione, lascia spazio alla costitutiva mostruosità della coabitazione,8 al cui interno i “divenire-contro”9 prevalgono su altri tipi di trasformazione in-comune. Le forme che si materializzano dal compost costituiscono relazioni di pensiero antiegemonico «di resistenza alla purezza degli enti e dei sistemi che li accolgono, valorizzando riscritture caotiche di rappresentazioni» non solo umane.10
Nel compost sono opache sia la visione che la percezione di ciò che si sta realmente toccando; i confini perdono di concretezza e le temporalità si allargano. Cosa può un compost di Antonia Anna Ferrante si pone allora un importante manuale poetico per muoversi all’interno di questo scenario interconnesso e stratificato, dove i tentacoli che si protendono dalla terra non sono protesi ma ramificazioni umide e appiccicose invischiate nella complessità delle relazioni che circondano, riempiono e danno forma ai corpi, di volta in volta in modo differente.
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Bibliografia
Boisseron, B. (2018), Afro-Dog: Blackness and the Animal Question, Columbia University Press, New York.
Cipollone, G. (2024), Haunted. Una drammaturgia sonora in “Connessioni Remote”, 7: 98-113.
Masini, T. (2025), “Disturbing Multispecies Performance. Uno sguardo animalfuturista alla coabitazione”. Roots§Routes 15(47).
Masini, T. (2024), Performance Bug. Una ricerca sugli ‘errori animali’ nella scena performativa contemporanea tra coabitazioni multispecie e zoohauntologia in “Liberazioni: Rivista di critica antispecista”, 59: 11-21.
Puar, J.K. (2012), ‘I would rather be a cyborg than a goddess’: Becoming-Intersectional in Assemblage Theory in “philoSOPHIA: A Journal of Continental Feminism”, 2(1): 49-66.
Tsing, A.L., Mathews, A.S., Bubandt, N. (2019), Patchy Anthropocene: Landscape Structure, Multispecies History, and the Retooling of Anthropology in “Current Anthropology”, 60: 186-197.
Weisberg, Z., Salzani, C. (2023), Non c’è giustizia climatica senza giustizia per gli animali in “Liberazioni. Rivista di critica antispecista”, 54: 37-49.
Yoon, P. (2018), Feste in lacrime, trad. it. di Luca Fusari, Add Editore, Torino.
- P. Yoon, Feste in lacrime, trad. it. di Luca Fusari, Add Editore, Torino 2018. ↩︎
- Ibidem. ↩︎
- Cfr. J.K. Puar, “I would rather be a cyborg than a goddess”: Becoming-Intersectional in Assemblage Theory, in «philoSOPHIA: A Journal of Continental Feminism», Vol. 2, n. 1, 2012, pp. 49-66. ↩︎
- Il volume di Ferrante contiene, al suo interno, anche il saggio “La teoria narrativa della sacca” di Ursula K. Le Guin. Infra, pp. 111-124. ↩︎
- Cfr. A.L. Tsing, A.S. Mathews, N. Bubandt, Patchy Anthropocene: Landscape Structure, Multispecies History, and the Retooling of Anthropology, in «Current Anthropology», Vol. 60, agosto 2019, pp. 186-197: 194. ↩︎
- Cfr. Z. Weisberg e C. Salzani, Non c’è giustizia climatica senza giustizia per gli animali, in «Liberazioni: Rivista di critica antispecista», n. 54, autunno 2023, pp. 37-49. ↩︎
- G. Cipollone, Haunted. Una drammaturgia sonora, in «Connessioni Remote», n. 7, settembre 2024, pp. 98-113: 107. ↩︎
- Cfr. T. Masini, Performance Bug. Una ricerca sugli ‘errori animali’ nella scena performativa contemporanea tra coabitazioni multispecie e zoohauntologia, in «Liberazioni: Rivista di critica antispecista», n. 59, inverno 2024, pp. 11-21: 13. ↩︎
- Cfr. B. Boisseron, Afro-Dog: Blackness and the Animal Question, Columbia University Press, New York 2018. ↩︎
- T. Masini, Disturbing Multispecies Performance. Uno sguardo animalfuturista alla coabitazione, in Roots§Routes, Vol. 15, n. 47, www.roots-routes.org/disturbing-multispecies-performance-uno-
sguardo-animalfuturista-alla-coabitazione-di-teresa-masini. ↩︎