Riportiamo qui la postfazione a Storia di un sindaco. Da San Vittore all’assoluzione di Simone Uggetti con Arianna Ravelli.
Con una prefazione di Aldo Cazzullo e un contributo di Gaia Tortora.
Se non ci fosse in gioco la carne viva di una persona e dei suoi cari, la dignità umiliata di un politico per bene e della sua storia pubblica, dovremmo dirci cinicamente fortunati per aver assistito alla vicenda giudiziaria del Sindaco Simone Uggetti. D’altronde, lui per primo ne è a tal punto consapevole da aver deciso di scrivere questo libro, per raccontare, spogliandosi e mettendosi a nudo davanti a tutti noi, la sua storia incredibile. Mi è piaciuta molto la metafora del Kintsugi, che l’autore ha scelto per descrivere questo sforzo doloroso. Se una vicenda giudiziaria, politica e mediatica di questa ottusa e spietata violenza ti ha ridotto come un coccio di ceramica ridotto in pezzi, usi l’oro –come in quella formidabile tecnica artistica giapponese – per tenerli insieme, valorizzando le crepe e ridando a quel disastro una nuova dignità e bellezza.
Questa storia è dunque una occasione preziosa per tutti noi, perché la sua particolarità sta nell’essere inattaccabile nella sua solare semplicità. I fatti sono incontrovertibili, e lo sono per chiunque sia stato infine chiamato a giudicarli. Il Tribunale che ha condannato, la Corte di Appello che ha assolto, la Cassazione che ha annullato con rinvio, la Corte di Appello che, infine, ha nuovamente assolto, sebbene ora per “tenuità del fatto”, sono tutti concordi sulle decisive connotazioni dei fatti che hanno dato luogo alla contestazione del reato di turbativa d’asta, e che vale dunque la pena mettere in fila, semplicemente.
1. Si è trattato di un bando di gara del valore di € 5000,00 (dicesi cinquemila euro); 2. Il valore modestissimo della gara avrebbe consentito, del tutto legittimamente, l’affidamento diretto anziché il bando di gara; 3. La turbativa della regolarità dell’asta è consistita in un incontro del Sindaco con l’avvocato Marini, amministratore della società comunale che già gestiva le altre piscine della città, per chiedergli se a suo parere fosse meglio il bando o l’affidamento diretto; 4. L’avvocato Marini, contro lo stesso interesse della società pubblica da lui amministrata, suggerisce la strada del bando, e il sindaco lo segue; 5. L’obiettivo del Sindaco è sempre e solo stato quello di affidare la gestione del nuovo impianto alla Società del Comune; 6. Il sindaco non ha coltivato il benché minimo interesse economico personale nella intera vicenda, né ha in alcun modo favorito quello di terzi; 7. Altre ditte non hanno partecipato al bando ritenendo la gestione di quella piscina non conveniente da un punto di vista economico.
Questi fatti, devo ripetermi, sono riconosciuti come del tutto pacifici, provati e non controvertibili in tutti i vari gradi di giudizio dell’intera vicenda processuale.
Voi comprendete benissimo, allora, il valore pedagogico inestimabile di questa dolorosa vicenda, capace di illuminare senza zone d’ombra, senza margini di opinabilità, senza possibili letture alternative, il degrado stupefacente del nostro sistema giudiziario, la radicata alterazione degli equilibri costituzionali tra i poteri dello Stato, le dinamiche velenose e putrescenti del famoso “circolo mediatico-giudiziario”. Perché tu puoi pure urlare ai quattro venti, ritmando “onestà-onestà” ai piedi delle adorate ghigliottine, che l’etica del Pubblico Amministratore modello avrebbe precluso al Sindaco quell’incontro e, una volta iniziate le indagini, spaventato, di ipotizzare la “formattazione dei computer” (mai effettuata, per di più); ma questo non ti consentirà mai di trasformare l’acqua potabile in liquame di fogna. I fatti sono quelli, implacabili. Non solo la modestia ridicola dell’appalto, ma ancor prima il fatto che il Sindaco avrebbe potuto legittimamente assegnare in modo diretto la gestione della piscina alla Società pubblica, senza doversi inspiegabilmente industriare nel tentativo di indirizzare indebitamente l’appalto per ottenere il medesimo risultato, in ogni caso del tutto conforme al pubblico interesse.
E allora, se questi sono i fatti, la prima domanda che una persona normale avrebbe il dovere di porsi è molto semplice: cosa c’entra, in tutto ciò, l’autorità giudiziaria penale? Se una solerte, ovviamente indignata e altrettanto verosimilmente non del tutto disinteressata “cittadina modello” denunzia gravi irregolarità in quell’appalto bagatellare, è giusto verificare; ma una volta chiariti i termini della questione, di cosa si impiccia la Procura della Repubblica? E invece accade non solo che quella Procura si avventa sulla denuncia come se fosse l’inchiesta del secolo, ma addirittura chiede e ottiene prima di intercettare lungamente gli indagati (atto investigativo che il nostro codice qualifica e regola come eccezionale), poi di inoculare il trojan nel telefono del sindaco (atto investigativo che il nostro codice qualifica e regola come doppiamente eccezionale), e infine addirittura di incarcerare il sindaco e i suoi sodali.
Ho detto bene “chiede e ottiene”, perché in Italia si parla dei PM, mai dei GIP che troppo spesso accolgono con sistematico, ossequioso entusiasmo le richieste delle Procure. Eppure, il sistema procedimentale è costruito dal legislatore proprio sulla funzione di controllo giurisdizionale delle indagini, affidata all’ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari e del Giudice dell’Udienza Preliminare.
L’idea è che l’ipotesi investigativa, per sua natura unilaterale anche perché fortemente condizionata dal tendenziale pregiudizio accusatorio della Polizia Giudiziaria inquirente, venga vagliata – pur nella inevitabile sommarietà della fase – proprio dal Giudice per le Indagini Preliminari, ogni qual volta egli venga raggiunto da richieste investigative destinate a incidere sui diritti fondamentali delle persone indagate (intercettazioni, trojan, misure cautelari).
Ed è qui che la persona normale (e in buona fede) di cui sopra dovrebbe necessariamente porsi la seconda domanda: ma è mai possibile che per una vicenda del genere un sindaco in carica, democraticamente eletto dalla maggioranza dei cittadini, debba essere prima intercettato addirittura con un trojan, e poi trascinato nella polvere, umiliato e distrutto dalla traduzione in carcere? Non solo questo è incredibilmente accaduto, ma il GIP di Lodi ha ben pensato di ufficializzare lo stigma del disprezzo sociale, qualificando il povero Sindaco Uggetti come persona “abietta”. Sarà anche un problema di buon governo della lingua italiana, ma insomma vi sono pochi dubbi sulla inevitabile consapevolezza del fatto che qualificare in un atto pubblico, giustificativo della custodia in carcere, una persona, per di più primo amministratore della città, come “abietta” equivale a porre quella persona nel gradino più basso del giudizio morale. Ora, ditemi voi quali tracce, seppur vaghe, di umana “abiezione” è mai possibile rintracciare in questa grottesca vicenda di presunta turbativa di un appalto di 5000 euro pacificamente in favore e a tutela – a tutto concedere un po’ “garibaldina” – dell’interesse pubblico.
La risposta a questa domanda pone finalmente la vicenda nelle sue giuste coordinate, chiarendone il valore simbolico di un degrado politico-giudiziario che ha le sue radici, ovviamente, ben oltre e ben al di fuori della città di Lodi. È dai prima anni 90 che l’indagine giudiziaria è diventata il principale strumento regolatore delle dinamiche politiche. Indagare un politico o un pubblico amministratore significa incidere in modo decisivo sulle sorti politiche e amministrative della comunità sociale interessata, sia essa locale che nazionale. La pubblica opinione, anche comprensibilmente sfiduciata da diffusi episodi di illegalità nella gestione della cosa pubblica, ha progressivamente affidato all’autorità giudiziaria la funzione sociale di promuovere i buoni e punire i cattivi. I Pubblici Ministeri sono inevitabilmente consapevoli dell’enorme potere affidato nelle loro mani, sicché l’indagine sull’uomo pubblico, politico o amministratore che sia, viene colta sin dall’inizio nel suo valore etico, simbolico, pedagogico. Si tratta di una alterazione micidiale dell’equilibrio tra i poteri dello Stato, che ovviamente porta al rischio che la finalità etica e simbolica della indagine finisca per sopraffarne il merito, facendo smarrire del tutto il senso delle proporzioni, e più in generale la finalità e le ragioni di una inchiesta giudiziaria.
La vicenda Uggetti è la fotografia perfetta di questa drammatica deriva. L’abietto sindaco ha dovuto conoscere, per una vicenda di nessun rilievo penale, l’orrore del carcere, così, come se niente fosse; ha dovuto pietire i domiciliari, ottenuti infine solo perché il Prefetto lo aveva intanto sospeso dalle funzioni; ha dovuto dimettersi; è divenuto l’oggetto di una incredibile messa all’indice nazionale, aggredito con una violenza sproporzionata e insensata da tutta la miserabile compagnia di giro della politica nazionale. Le scuse postume possono aver dato una qualche soddisfazione morale a Simone Uggetti, ma non segnano alcuna resipiscenza della politica, che continua imperterrita ad avventarsi sull’avversario indagato o – nemmeno a parlarne – arrestato, senza alcun pudore, senza alcun sentimento di umana decenza. È quella politica che – davvero incredibilmente – mostra di non comprendere che riconoscendo già ai primi atti investigativi il peso e la forza di una sentenza di condanna, si scava ogni giorno la fossa, consegnandosi mani e piedi, con giuliva inconsapevolezza, al potere giudiziario.
Non c’è nulla, in queste mie d’altronde perfino banali considerazioni, che possa avere seppure minimamente a che fare con una pretesa di impunità della politica, dalla quale dobbiamo pretendere il rispetto più rigoroso delle regole dell’etica pubblica. Ma proprio in considerazione delle conseguenze micidiali che una indagine giudiziaria comporta sull’ordinato svolgimento della vita democratica e delle sue istituzioni rappresentative, dovremmo poter pretendere dall’autorità giudiziaria una prudenza, una accuratezza investigativa, una rigorosa attenzione non solo nei mezzi investigativi adottati, ma perfino nelle parole usate negli atti giudiziari, che purtroppo vengono invece quasi sistematicamente a mancare, come questa storia dimostra in modo esemplare. È banale, infatti, osservare come questa piccola, mediocre, marginalissima indagine giudiziaria poteva senza dubbio alcuno essere egualmente svolta e portata a termine senza sconvolgere non solo la vita delle persone coinvolte ma, ripeto, soprattutto l’ordinato svolgimento della vita democratica di una comunità sociale. Si è scelta invece la strada della irruzione precipitosa, violenta, esemplare e salvifica della “Giustizia” per sgominare il “Male” nella vita pubblica agli occhi di tutti i cittadini. Fino alla incredibile decisione dell’arresto e del carcere, che in una vicenda bagatellare come questa, appare per ciò che essa è: un atto di gratuita, indicibile violenza nei confronti di una persona per bene, costretta, per malriposti e approssimativi sospetti su un appalto di 5000 euro, a conoscere la più profonda e devastante delle umiliazioni.
Il segno di quanto profonda possa essere stata la ferita inferta, senza ragione e contra legem (non può infliggersi una misura cautelare per fatti in ordine ai quali sia ragionevolmente prevedibile una pena inferiore a tre anni di reclusione) al Sindaco di Lodi, sta tutta nelle belle, dolorose parole con le quali egli descrive il carcere, dopo questa tremenda esperienza: “Luogo di forzata solidarietà, di disagi e piccole vergogne condivise, di coesistenza di destini”. Voglio augurarmi che la scelta di Simone Uggetti di raccontare questo suo dolore possa contribuire a diffondere quanto più possibile la consapevolezza di quanto inestimabile sia la difesa dei valori costituzionali della presunzione di non colpevolezza e di tutela e rispetto della dignità della persona.

Un arresto, un rumore sordo, una vita interrotta. E il coraggio del protagonista di raccontarla. Il 3 maggio 2016 è stato l’inizio di un’altra storia. Una menzogna. Questo libro racconta cosa significa perdere tutto e ricominciare da capo. Un sindaco, un’inchiesta, una città coinvolta. Una testimonianza per chi crede nella forza della giustizia e della memoria. Politica, magistratura, media, intrecciati in un sistema malato, possono schiacciare una vita intera. Questo libro non è una resa dei conti, ma un atto di verità. Ogni vita ha il suo giorno decisivo. Qui è narrato quel giorno e vengono portate alla luce le ferite che ha lasciato. La cronaca di una caduta involontaria e incolpevole, ma anche la tenacia lenta per la difficile risalita verso la verità nella ricerca della giustizia.