Tante persone sarebbero pronte ad affermare – talvolta con ironia, talvolta con rabbia – che l’amore non esiste. Considerandolo, a buon titolo, compromesso dalla sua storia ufficiale, e dunque dalla storia delle istituzioni che si sono incaricate di governare l’amore, producendone un’idea funzionale al governo della proprietà, della sessualità e della riproduzione, nonché alla giustificazione e alla legittimazione della violenza di genere e sessuale, tante persone vorrebbero giustamente sbarazzarsi dell’amore, stabilendo l’impossibilità di pensarlo al di fuori della sua storia, e mettendo in discussione la struttura stessa che rende possibile ogni argomentazione.
Al posto dell’amore, semmai, esisterebbero i rapporti sessuali, o forme più o meno superficiali di relazioni di solidarietà e affetto, tendenzialmente eteronormate, nei casi in cui prevedano forme di sessualità, e tendenzialmente omosociali, nei casi in cui invece non siano all’apparenza contemplate.
Tante persone, inoltre, riterrebbero le sofferenze che l’amore può produrre del tutto risibili se comparate a quelle prodotte da altre condizioni sociali, come la povertà, la precarietà o la malattia.
Accanto a queste persone, ce ne sono poi delle altre che se forse non riuscirebbero a individuare con certezza il nesso che lega la propria sofferenza amorosa e la questione più ampia dell’organizzazione sociale delle relazioni di produzione (quali sono gli effetti differenziali della precarizzazione neoliberista sulla vita dell’amore? Quale vita amorosa è prodotta differenzialmente dal regime di precarietà?), di certo riescono però a scorgere in modo più chiaro quello che lega invece la deprivazione amorosa (o altri fenomeni parzialmente correlati, come il lutto) e la malattia psichica. Di conseguenza, tantissime persone avrebbero molti e ottimi motivi per volersi liberare definitivamente dalle sofferenze che l’amore infligge alla loro vita. Spesso, sintomaticamente, se ne liberano solo liberandosi della vita stessa.
È possibile che questi desideri di minimizzazione o, al contrario, di liberazione dall’amore non siano altro che un’ulteriore prova della sua esistenza materiale nella vita delle persone, nonché della sua persistenza e della sua efficacia. Tali desideri inoltre, sono tutti innervati da un altro tipo di problema, che l’amore non cessa di sottoporre alla nostra attenzione: l’impossibilità di stabilire un confine certo tra l’amore e la vita – e l’organizzazione, anche materiale, di questa vita.
Ne era in fondo convinto anche Roland Barthes. Ciò che più lo tormentava era che a fronte di questa posizione fondamentale, costitutiva, dell’amore nella vita delle persone, il discorso amoroso versasse in una condizione desolante, impoverita rispetto ad altri discorsi dominanti nello spazio pubblico. Egli sosteneva che nessuno avesse voglia di parlare d’amore in assenza di un “tu specifico a cui rivolgersi. Di conseguenza l’amore era ai suoi occhi declassato a una questione del tutto privata, e tale declassamento aveva la forza di produrre non solo (o non tanto) la natura “privatizzata” del discorso amoroso, ma anche la sua sottrazione al mondo, o la sua assenza di mondo.
Il discorso amoroso è la sommatoria di quei discorsi che partono da un io e arrivano a un tu – anche se quel tu è assente, o morto, o idealizzato. Ma la stessa struttura del “tu” è intesa quale prodotto tiranneggiato dalla solitudine acosmica dell’io – individualizzata, arbitraria, nevrotica. Quel “tu” a cui l’io si rivolge è la naturale appendice di ciò che già esso è in quanto soggetto: individualizzato, arbitrario, nevrotico.
Non a caso, ammoniva Barthes nelle prime righe di Frammenti di un discorso amoroso (1977), “il discorso amoroso è oggi d’un’estrema solitudine”, elevando questa considerazione al rango di domanda che fosse in grado di guidarlo in una monumentale compilazione di un lessico comune, in cui chiunque, sfogliandolo, avrebbe potuto percepire alleviata la percezione di solitudine del proprio amore.
A distanza di alcuni decenni, possiamo gettare uno sguardo più ampio sull’intera ricerca che presiedette a quel testo classico della semiotica contemporanea, sfogliando le lezioni del seminario dal titolo Il discorso amoroso che Barthes tenne all’École Pratique des Hautes Études di Parigi tra il 1974 e il 19762, dal quale poi egli stesso selezionò i materiali per i Frammenti, pubblicati in italiano nel 1979. Ma a distanza di alcuni decenni abbiamo soprattutto la possibilità di ritornare anche sul senso di quella considerazione barthesiana e di provare a misurarne la tenuta, a interrogarne le aporie, se non proprio a problematizzarla. “Questo discorso”, scriveva Barthes,
è forse parlato da migliaia di individui (chi può dirlo?), ma non è sostenuto da nessuno; esso si trova ad essere completamente abbandonato dai discorsi vicini: oppure è da questi ignorato, svalutato, schernito, tagliato fuori non solo dal potere, ma anche dai suoi meccanismi (scienze, arti, sapere). Quando un discorso viene, dalla sua propria forza, trascinato in questo modo nella deriva dell’inattuale, espulso da ogni forma di gregarietà, non gli resta altro che essere il luogo, non importa quanto esiguo, di un’affermazione. Questa affermazione è in definitiva l’argomento del libro che qui ha inizio
Innanzitutto, è ancora possibile dire che il discorso amoroso sia tagliato fuori dal “potere”? Indubbiamente, l’amore è stato a lungo relegato nell’oscurità della sfera privata, di contro a una sfera pubblica intesa come luogo per eccellenza dell’esercizio della ragione in pubblico, non dell’espressione dei sentimenti. Tuttavia, una tale prospettiva sembra avere ceduto largamente il
passo a un’altra forma di relazione fra il potere e l’amore. E ciò perché, innanzitutto, è lo stesso paradigma del potere ad aver subito una profonda e accelerata mutazione: il potere non è più esclusivamente verticistico, giuridico o positivo, incarnato dalle istituzioni giuridiche o politiche, bensì orizzontale, senz’altro diffuso e molecolare.
Il potere policentrico e molecolare del capitale, ad esempio, ha ben compreso le potenzialità produttive insite nell’amore. Indubbiamente, avremmo ottimi motivi per interrogare l’amabilità di questa compagnia, sicuramente rispetto a quella auspicata (motivatamente?) da Barthes, delle “scienze”, delle “arti” e del “sapere”. In ogni caso, non è certo possibile dire, in relazione al potere, che l’amore sia oggi “d’un’estrema solitudine”, o che sia “abbandonato dai discorsi vicini”.
Sarebbe senz’altro più corretto affermare che quello stesso discorso sia oggi d’un’estrema sussunzione sotto le leggi del capitale, ossia sotto le leggi e i “meccanismi”, per usare lo stesso lessico barthesiano, di ciò che oggi è il potere. D’amore si parla ovunque, l’amore fa vendere, in tutti i comparti produttivi.
Barthes, d’altronde, avrebbe dovuto avere presenti le coeve considerazioni di Foucault sul potere, sulla biopolitica e sulla governamentalità. Se non avesse fallito nell’impresa di tenere insieme il proprio desiderio di scrivere tra le pagine più erudite sul tema dell’amore e le suggestioni derivanti da tali concezioni meno moderne del potere, avrebbe infatti potuto ben intuire non solo che l’amore era uno dei temi trainanti del marketing anche negli anni Settanta, ma avrebbe anche evitato di
lasciare totalmente silente un’altra questione, anch’essa riconducibile alla natura del potere, e in particolare a quella forma che il potere assume quando è l’effetto, del tutto materiale, di norme non scritte e immateriali.
Che posto occupa, infatti, o vorrebbe occupare, Roland Barthes, quando attraversa i boulevards o i passages di Parigi, in cui le coppie manifestano apertamente l’amore eterosessuale, tenendosi per mano o scambiandosi baci ed effusioni? Come si rapporta a quel paradigma relazionale che ha davanti agli occhi? In che modo questa forma di potere regolatore – l’eterosessualità – che
procede senza alcun bisogno di dirsi, perché ovunque si manifesta e ovunque tacitamente si riproduce, mantiene l’amore in una condizione “d’estrema solitudine”, o non supporta il discorso amoroso?
Il potere dell’eterosessualità, esattamente come il potere del capitale, è un potere molecolare, che precede ed eccede ogni legge possibile. E da questa forma di potere dipendono nientemeno che le condizioni di intelligibilità dell’amore, del suo riconoscimento, così come del suo essere degno o meno di cura e protezione.
Si tratta di quelle norme la cui forza è tale da informare gli stessi paradigmi di riconoscimento anche dell’amore tra persone dello stesso sesso, e le stesse norme che presiedono al giudizio di quali e quante relazioni tra persone dello stesso sesso siano riconoscibili. […]
Quale ruolo accorda, Barthes a quelle modalità di conoscenza e quei regimi di verità che contribuiscono a determinare l’intelligibilità dell’amore – oltre che, intelligibilità dell’amore, del soggetto amoroso, di quell’io che parla a quel tu? L’amore è pensabile, intelligibile o vivibile al
di fuori degli ordini del discorso amoroso? Bisognerebbe infatti domandarsi: quale amore, e quale discorso amoroso? Ma Barthes non lo fa.
Barthes scrive che il discorso amoroso è “d’un’estrema solitudine”, lamenta addirittura l’abbandono del tema dell’amore da parte delle arti, delle scienze e dei saperi, nonostante tutta la produzione culturale – sicuramente quella Occidentale – abbia conferito al “discorso amoroso” un ruolo
di primo piano, nella letteratura, nelle arti visive, nella musica. È proprio in ragione di questo, d’altronde, che la ricerca di Barthes può metterci davanti agli occhi, con alfabetica e chirurgica precisione, tutte le parole di quell’imponente dispositivo storico, politico e culturale in cui propriamente consiste l’amore, quando esso riceve i suoi termini e le sue figure dalle norme egemoniche che presiedono al discorso amoroso, e dunque al giudizio – i cui parametri quel discorso costantemente plasma – di quali amori siano degni di essere detti, vissuti, celebrati, esibiti, pianti pubblicamente.
Quali amori, addirittura, rientrino nei perimetri della pensabilità, della possibilità, della credibilità e della realtà. È solo come nel rovescio di un ricamo che la ricerca di Barthes ci mette davanti agli occhi tutte quelle parole che costellano, per opposizione, quegli amori che emergono invece ai bordi dell’intelligibilità, e che proprio da quello spazio si confrontano con i modi, mutevoli, attraverso i quali le norme sociali circoscrivono il discorso amoroso.
Di quegli amori che non hanno nulla di nuovo, perché anche all’interno di quello stesso discorso occupano una qualche zona tra la norma e la possibilità della sua sovversione. Di quegli amori, però, che forse riferiscono di quella condizione in cui versa l’amore quando non è né normato né sovversivo, ma è l’amore nella propria condizione di anonimità, ciò per cui non abbiamo ancora parole per dirlo, ciò che resiste a ogni tentativo di nominazione. È forse questo, a dispetto di ogni apparenza, il solitario punto d’osservazione di Roland Barthes? È questo ciò a cui Barthes allude quando parla, inspiegabilmente, della solitudine del discorso amoroso? La solitudine di cui parla è quella di chi, nel “discorso amoroso”, non trova alcuna rappresentanza né rappresentazione – di sé, delle proprie complesse situazioni relazionali, dei propri amori?
Se così fosse, saremmo senz’altro più incoraggiati a cercare tra i Frammenti del discorso amoroso non solo i luoghi del totalizzante rapporto eterosessuale e diadico, ma quelli di molte altre situazioni o conflitti. Potremmo ricercare le tracce dell’impossibile intento a contestare i perimetri della possibilità. Dell’impensabile, mentre ridiscute i termini della pensabilità. Dell’incredibile che in quelle pagine troverà conferma di una credibile esistenza. L’impossibile, l’impensabile e l’incredibile, d’altronde, costituiscono il costante non-ancora della vita dell’amore. In questo senso, costituiscono una risorsa irrinunciabile per la comprensione dello stesso “ordine del discorso (amoroso). Ciò che rispetto a esso è impossibile, impensabile o irreale è proprio ciò che ne indica i punti di instabilità, ciò che esso esclude, o forclude, per potersi affermare come l’unico discorso possibile e necessario.
Un altro discorso amoroso, io penso, prende corpo quando soggetti impossibili allestiscono le scene di convocazioni rimaste fino a quel momento impensate. Si tratta della sfida di coloro che non occupano il posto del soggetto amoroso, pienamente legittimato ad amare e a essere amato, sostenuto dalle norme che stabiliscono come si deve essere e cosa si deve fare per vivere un amore degno di essere riconosciuto e vissuto – ossia di quel soggetto che ha già avuto accesso alla sfera dell’“amabilità”, che si sente talmente immune dall’impoverimento che potrebbe derivare da una vita priva di relazioni amorose, da concedersi il privilegio di declassare a zuccherosa faccenda, o di relegare all’ambito del sentimentale, dell’irrilevante o del patologico l’intera questione dell’amare e del ricevere amore, oltre che della sua connessione con la più ampia questione della vivibilità di una vita che è ontologicamente relazionale.
Quei soggetti impossibili, mi sembra, anche a partire da una posizione di non pienezza articolano parole o pensieri, non necessariamente diadici, e atti corporei minimali e performativi, che a volte, e non in modo indolore, smarginano i bordi dell’amore e del suo discorso ordinato e ufficiale, in funzione di una loro imprevista apertura.
Non so se e quando ci libereremo mai di quell’imponente dispositivo di assoggettamento che è l’amore, come lo conosciamo – in seno al quale, per opposizione o per acquiescenza, diventiamo soggetti. Forse, ciò avverrà solo quando si affermerà un nuovo senso comune ispirato alle grandi suggestioni di Antonin Artaud che, a un prezzo molto alto, auspicò la possibilità scongegnare il corpo dalla sua eteronormazione, e di pensare un “corpo senza organi” – tema che sintomaticamente ricorre anche negli scritti a quattro mani di Gilles Deleuze e Félix Guattari.
Suggestione, questa, che mi sento di riconoscere come parte di quell’orizzonte politico materialista e queer che, in fondo, ambisce a sottrarre potere all’Amore, alle sue istituzioni regolative biopolitiche, alle determinazioni che esso contribuisce a reiterare sui corpi; e che, tuttavia, mira a dare un’altra possibilità all’amore, intesa come una delle più intense, creative e trasformative possibilità di corpi in relazione tra loro. Forse, è questo il senso mai dischiuso e ben addomesticato dalla sua storia, mediante l’identificazione con la mera genitalità, dell’espressione “fare l’amore”.
L’amore è qualcosa che si fa. È una prassi. È la creazione di un’opera le cui misure e i cui parametri di intelligibilità non si danno in nessun luogo, ma sono prodotti nel momento del suo farsi.