Novembre 2024

Basaglia e la libertà

100 anni di pensiero pratico e visionario. Un convegno a Venezia

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Pubblichiamo l’anticipazione di parte dell’intervento che Valeria Verdolini terrà l’8 novembre a Venezia al convegno Basaglia e la libertà: una eredità politica attuale.

Sul muro di uno degli edifici che compongono l’ospedale triestino, sparpagliato nel parco di San Giovanni, si legge: “La libertà è terapeutica”. Se il luogo obbliga a riflettere sul “terapeutica” a me, forse per la mia formazione giuridica, interessa soprattutto il concetto di “libertà” come terapia. Perché se la libertà è la cura, la questione centrale diventa qual è, in ultima istanza, la malattia che ci affligge. Leggendo tutti i lavori del gruppo basagliano, prodotti prima a Gorizia, poi a Trieste e infine nei molti luoghi del mondo dove hanno lavorato e de-istituzionalizzato i manicomi, si deduce che la malattia mentale rappresenta solo una piccola porzione delle diagnosi. Quando esiste, non basta a spiegare la sofferenza. Possiamo forse provare a immaginarla come detrito, come il residuo calcareo, la maceria visibile (e vitale, e conflittuale) di una serie di processi molto più complessi.

Proprio per questo, quando è stato possibile, per arginare tale contagio è stata immessa una dose antidotica di libertà: abbattendo i muri a Gorizia e a Trieste e poi con la legge 180/78, il punto di partenza di un processo di psichiatria democratica. La norma purtroppo non è riuscita fino in fondo nel suo intento di liberazione e non per cattiva volontà degli estensori, ma per la complessità delle battaglie politiche e culturali che comportano i processi di de-istituzionalizzazione e le pratiche di gestione territoriale della cura. 

Ma andiamo per ordine. Per capire di quali mali si parla è necessario partire dal principio. Come mai parlare di libertà in un ospedale, o peggio ancora, in un luogo fisiologicamente chiuso come un manicomio? In che modo la libertà diventa un pezzo centrale e terapeutico della dinamica di cura? Soprattutto, di cosa parliamo quando parliamo di libertà? Affermare che la pratica di libertà sia terapeutica significa assumere che la malattia, soprattutto la malattia mentale, si manifesta come una patologia politica, o meglio come una patologia del potere. 

La fortunata formulazione si deve all’antropologo Paul Farmer (2004). Farmer sostiene che le violazioni dei diritti umani non sono incidenti, anzi, non sono casuali nella distribuzione o nell’effetto che generano. Le violazioni dei diritti sono, invece, da considerarsi quali sintomi di patologie più profonde del potere e sono legate intimamente e matematicamente alle condizioni sociali che così spesso determinano chi subirà abusi e chi sarà protetto dal danno. 

La concezione di patologie del potere si esplicita nella pratica della “violenza strutturale” che l’antropologo definisce come un’ampia rubrica di prassi che include una serie di offese alla dignità umana: povertà estrema e relativa, disuguaglianze sociali che vanno dal razzismo alla disuguaglianza di genere ai residui coloniali, e le forme più spettacolari di violenza che sono abusi incontestabili dei diritti umani, alcune delle quali puniscono gli sforzi per sfuggire alla violenza stessa.

Insomma, possiamo riassumere sotto il vasto concetto di “oppressione” le forme e le pratiche che consideriamo come patologie del potere. La malattia quindi, soprattutto la malattia mentale, è la manifestazione di una patologia del potere, allora -solo allora- la sola medicina, la sola terapia, è la libertà. Se è difficile pensare a uno scambio materiale tra Farmer e Basaglia in termini di confronto e letture, è interessante la comune connessione tra sofferenza, violenza e potere. 

Ne L’istituzione negata c’è un passaggio che racconta le forme di violenza sistemica alla quale siamo socializzati: “Una favola orientale racconta di un uomo cui strisciò in bocca, mentre dormiva, un serpente. Il serpente gli scivolò nello stomaco e vi si stabilì e di là impose all’uomo la sua volontà, così da privarlo della libertà. L’uomo era alla mercè del serpente: non apparteneva più a se stesso. Finché un mattino l’uomo sentì che il serpente se n’era andato e lui era di nuovo libero. Ma allora si accorse di non sapere cosa fare della sua libertà: nel lungo periodo del dominio assoluto del serpente egli si era talmente abituato a sottomettere la sua propria volontà alla volontà di questo, i suoi propri desideri ai desideri di questo, i suoi propri impulsi agli impulsi di questo che aveva perso la capacità di desiderare, di tendere a qualcosa, di agire autonomamente”.

E ancora: “In luogo della libertà aveva trovato il vuoto”, perché “insieme col serpente gli era uscita fuori la sua ‘essenza’ nuova, acquistata nella cattività” e a lui non restava che riconquistare a poco a poco il precedente contenuto umano della sua vita.

Nel testo si esplicita l’analogia della favola con la condizione istituzionale del malato mentale. La riflessione si spinge però ancora più lontano: “L’incontro con il malato mentale ci ha anche dimostrato che – in questa società – siamo tutti schiavi del serpente e che qualora non tentiamo di distruggerlo o di vomitarlo, non ci sarà più un tempo per riconquistare il contenuto umano della nostra vita.”

La favola del serpente è un dispositivo che ci permette di vedere alcuni aspetti di questa relazione tra sofferenza, violenza e potere. Chi esercita la violenza? Chi esercita il potere? Chi trae vantaggio da quell’esercizio? La violenza strutturale, le patologie del potere, le “istituzioni della violenza” come il manicomio (o come il carcere oggi, giusto per fare qualche esempio) hanno sempre esercitato una funzione di separazione, “tra chi ha potere e chi non ce l’ha”. Tra noi liberi, e le persone alla mercé del serpente. O forse tra i differenti serpenti che ci abitano. 

Dove si annidano e come si riproducono questi serpenti? Per i Basaglia, in primis si tratta della violenza esercitata da chi ha il coltello dalla parte del manico, nei confronti di chi è irrimediabilmente succube. (ivi, p. 115). Ancora, sempre ne L’istituzione negata è la suddivisione dei ruoli a determinare il rapporto di sopraffazione fra potere e non potere, che riproduce costantemente lo stesso meccanismo di esclusione del non potere da parte del potere: “la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che si instauri nella nostra società” (ivi, p. 114). 

Separare, definire chi ha dignità di cittadinanza e chi non ce l’ha, selezionare chi può accedere alla cura e chi trova nell’esclusione e nella reclusione il proprio spazio è il nodo politico, oggi come allora è il senso di questa patologia. Le “istituzioni della violenza” si fondano perciò su quella base: la differenza di classe che rappresenta il nodo cruciale dello stato moderno e liberale. 

Per questo, mai come oggi, perché la libertà sia terapeutica, perché la cura possa funzionare, tanto la cura quanto la libertà devono essere politiche e strutturate a partire da una cultura politica condivisa. Forse, sarebbe più chiaro esplicitare che “la libertà è politica”. Ma quando mai la libertà non lo è? Ovvio che questa dicitura suona come una banalità nella misura in cui la libertà è sempre stata politica, tanto nelle forme quanto nelle narrazioni. L’urgenza è quindi il riempire di significati tanto il termine “politico” quanto il termine “libertà”. Questo è l’esercizio che possiamo fare oggi in questo centenario non solo della nascita di Basaglia, ma del “basagliare”. Qual è la ricetta della libertà come terapia? 

Mai come oggi, dopo queste incredibili e sconcertanti elezioni americane, riveste un’importanza centrale la dimensione politica della rivoluzione basagliana, ed è necessario nominare, definire, socializzare i concetti e le pratiche. In che modo tale esperienza è rivoluzionaria? Dove sta l’utopia della realtà, o come mi piace dire, il realismo magico dell’esperienza triestina? Dove troviamo l’attualità di quel lavoro, che sopravvive al passare del tempo? Innanzitutto, nella giovinezza delle pagine dei molti testi prodotti dal gruppo di lavoro che si è costruito come un vero e proprio collettivo prima a Gorizia e poi a Trieste.

In quei ragionamenti, la libertà ha rappresentato un grimaldello politico all’interno del manicomio, ma più in generale nelle trasformazioni sociali che sono seguite alla chiusura degli ospedali psichiatrici. In quell’esperienza, con “politico” si è inteso un vero e proprio lavoro culturale capace di cambiare le forme del pensiero prima delle pratiche. A Gorizia, a Trieste, è stata politica la possibilità di liberare gli operatori, prima dei pazienti, di riconoscere e distanziarsi dalla violenza e dal potere per alleviare finalmente la sofferenza. Per buttare giù il muro dell’ospedale, per slegare le persone, per accettare l’anormalità della “normalità” è necessario visualizzare, immaginare, credere alla magia realistica di quella libertà. Essere liberi è un’utopia. Essere liberi significa guarire del tutto. 

Quando Basaglia parla di libertà non parte perciò da un’idea astratta, ma da una pratica concreta. Il medico veneziano aveva conosciuto concretamente la privazione della libertà, l’istituzionalizzazione, nella prigionia per antifascismo. Quei giorni in carcere costituiscono un’esperienza fondamentale, non necessaria che ha permesso a Basaglia di specchiarsi nei pazienti, di vedere in che modo il suo esercizio di potere istituzionale poteva essere diverso. Si poteva curare non assecondando quella dinamica di potere e non producendo quella violenza.

In un mondo con manicomi chiusi, ma forse meno libero e più ammalato di patologie del potere, cosa si può fare in concreto? Le risposte principali offerte dai lavori triestini sono due e interconnesse: il rovesciamento istituzionale e il lavoro culturale.

Il rovesciamento istituzionale passa attraverso diversi gradi di responsabilizzazione di tutti i soggetti che partecipano all’istituzione, unico strumento fattivo per poter conquistare spazi di libertà. Se chi deve esercitare quel potere, quella violenza, dismette quel ruolo, allora anche quel meccanismo non seguirà più la logica della separazione, bensì quella della relazione. La negazione istituzionale diventa, attraverso l’assunzione di responsabilità e di una finalità comune, “il simbolo della lotta a ogni sistema di oppressione e sopruso” (ivi, p. 334).

“La libertà è terapeutica” diventa perciò pratica di democrazia e rafforzamento dello spazio di agibilità degli individui. Perché le patologie del potere sono plurime, e limitare le infezioni autoritarie diventa un problema di salute pubblica e di salute democratica. È molto banale da dire però la nominazione e il lavoro culturale, il problematizzare e risemantizzare le malattie (e gli abusi), il definire le urgenze proprie della salute mentale, ma anche delle molteplici sofferenze istituzionali, significa ricollocare le istituzioni, la cittadinanza, il pubblico nella prospettiva della liberazione dal potere, non nell’esercizio diseguale della separazione tra le persone.

Pensiamo ai modi in cui la sofferenza sociale viene punita attraverso i dispositivi di controllo urbano, o la crescente stigmatizzazione del disagio giovanile e allarme sulla pericolosità dei minori nelle città. Pensiamo a Caivano e al DDL Sicurezza in discussione alla Camera, ma anche alla nave Libra che si dirige verso le coste albanesi. Pensiamo ai 62180 detenuti in violazione delle sentenze europee.

Proprio perché questo processo è dialettico ingaggia la politica ma soprattutto evoca la “politeia”: tutti noi possiamo essere parte attiva se ci interroghiamo con uno sguardo orientato alla cura, al richiamo al senso democratico, al bene comune. E dobbiamo esserlo, perché liberare significa riportare nel collettivo la sofferenza, e farsene collettivamente carico. La cura è democratica se riduce le diseguaglianze e non le aumenta. La libertà è terapeutica se le diagnosi sono accurate, e le decostruzioni necessarie. Se noi partiamo da questo secondo me abbiamo, oggi più di ieri, mille ragioni per rileggere Basaglia e molto lavoro da fare.