La figlia del mio scrittore preferito ha spiegato che “Come sarà poi sempre una sua caratteristica, prenderà il discorso alla larga, partirà dalla teoria, dalla fantasia, dal ‘nulla’ per arrivare, camuffato e truccato, a parlare di se stesso”: volendomi, io, liberare da camuffamenti e trucchi, lo dichiaro fin da subito che qui, ora, voglio parlare di me, prendendola ugualmente alla larga.
Per parlare di me, allora, parto da una mostra intitolata A place to stay. Voi che leggete, avete poco, pochissimo tempo to stay in questo a voi ancora, per ora ignoto place, dato che la suddetta mostra chiude domani, venerdì 1 novembre. A place to stay è il luogo che Cecilia Mentasti ha ideato per gli spazi di Care Of presso la Fabbrica del Vapore di Milano. È un’area cani sui generis, o meglio: un’area cani perfettamente in linea con quest’era dell’Aquario in cui il progresso tecnologico pare vincerla sempre e, allora, non si digitalizzano e smaterializzano solo i fidanzati a causa di Tinder e del ghosting, ma pure i cani.
Nel tentativo di far riapparire i cani dopo averli smaterializzati – non pretende tutti, ma almeno alcuni, come certi tipi post ghosting –, Mentasti cerca di adescare quelli che per caso passassero di lì – magari senza padroni, scappati – con dei biscotti da lei preparati utilizzando uno stampo a forma di osso e recante il titolo della mostra, sempre da lei prodotto. Biscottini e relativo stampo poggiati su dei blocchi bianchi ad altezza cane, qualche micro-seduta pieghevole da campeggio e delle casse audio nere – alcune adagiate sul pavimento grigio, altre elevate su dei treppiedi – con i loro cavi compongono l’allestimento minimal della mostra. Tra bianchi, neri e grigi, pur piccoline, brillano, poggiate sul tavolo all’ingresso, un po’ di copie del catalogo con le loro copertine rosa.
Dei 76 animali da compagnia co-protagonisti assenti della mostra di Mentasti vediamo solo una foto nel catalogo, ne leggiamo i nomi e in certi casi – quelli degli animali più casinisti – ascoltiamo il loro abbaiare o il loro zampettare o il loro ansimare attraverso le casse sparpagliate nella sala. Ma non li incontriamo mai davvero, questi cani. È un’area cani per cani smaterializzati – tinderiani – che dobbiamo decidere se ci stanno simpatici o ci fanno paura senza averli incontrati, prima di incontrarli, solo vedendoli in foto – tinderiani, appunto. Da cat person che sono, guardo tutte e 76 le foto con sufficienza. Ai cani l’artista ha raccontato le storie e le opere di altrettanti artisti, oppure momenti della Storia dell’Arte contemporanea, come la Biennale di Venezia del 1999. Sfogliando l’elenco dei nomi degli animali, trovo Titti (è il mio soprannome) e Vittoria (è il mio nome): volendo parlare di me, devo parlare di loro. Magari avrà ragione Giulietta nel chiedersi “Che cos’è un nome?” e nel rispondersi “Quella che noi chiamiamo una rosa, con qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente”, ma per me – me, che il mio scrittore preferito già preannunciato è Giorgio Manganelli e che Nanni Moretti se c’è da citarlo, lo cito – le parole sono importanti, soprattutto i nomi. Passo, così, dalla sufficienza con cui avevo guardato le loro foto – quelle di Titti e Vittoria – al pensare, grazie ai loro nomi, che effettivamente, adesso, mi sembra lampante che sono loro i due animali migliori, i più degni di attenzione e pure di un po’ di simpatia, nonostante non siano gatti.
Titti è un Cavalier king Charles Spaniel, mentre di Vittoria non riconosco la razza – se ne ha una – e, in ogni caso, sembra più una mucca che un cane, con quel corto pelo bianco a chiazze nere. Dalla voce di Cecilia Mentasti, Titti ha ascoltato la storia del Gruppo XX e Vittoria quella di Angelo Savelli. Il Gruppo XX è stato un collettivo formatosi nella primavera del 1977 per volere di Rosa Panaro (scultrice), Mathelda Balatresi (pittrice), Antonietta Casiello (docente di filosofia) e Mimma Sardella (funzionaria del Ministero dei Beni Culturali); il nome faceva riferimento ai due cromosomi femminili e lo scopo delle quattro era di sbugiardare – in modo ironico, ma fermissimo – stereotipi e luoghi comuni su ruoli di genere et similia. Angelo Savelli, invece, è noto come “il pittore del bianco” per l’assoluta centralità di questo colore nella sua produzione: una centralità che lo portò a escludere qualsiasi altra possibilità cromatica e a lavorare solo con il bianco, sul bianco, per il bianco. Chissà cos’avrebbe detto Savelli delle chiazze nere che insozzano il manto di Vittoria.
Nel catalogo c’è l’immagine di un terzo cane, di nome Zen, a cui presto attenzione – e a cui già prima di entrare in A place to stay sapevo di dover fare caso. A lui Mentasti ha parlato di Thea Vallè, dicendogli: “Qualche giorno fa ho bevuto una cedrata con una mia amica che mi ha raccontato una storia, la storia di un’artista che non conoscevo e di cui sta cercando di mettere in salvo una grossa e pesante scultura. Ho deciso di fare anch’io la mia parte e raccontarti la sua storia. L’artista in questione si chiamava Thea, Thea Vallè”. Presto attenzione a Zen, perché l’amica con cui Mentasti aveva bevuto una cedrata ero io (l’ho detto, che ho voglia di parlare di me). Thea Vallè – nata Teresa Broggini, nel 1934, a Oleggio, in provincia di Novara – tra gli anni ’60 e gli anni ’70 visse di fronte a quella che oggi è casa mia e che allora era la casa dei miei nonni. Insieme a Thea c’erano altri artisti e mia nonna – donna della Vergine, mercuriale crocerossina (io ho la Luna in Leone: è per questo che parlo sempre di me) – portava torte e lasagne e cose così agli artisti, i quali ricambiavano regalandole loro opere. Su una delle pareti del corridoio che dal salone della casa dei miei nonni porta al cortile sono appese tre litografie di Thea: nella mia preferita delle forme verdi dai contorni irregolari e spezzati si stagliano sul fondo bianco. Mio nonno, amante della montagna, quand’ero piccola mi diceva che quella litografia ritraeva una cima con la neve che si scioglie e un bosco ai suoi piedi: forse aveva ragione lui. Nelle forme minimaliste di Thea si celano messaggi religiosi ed esistenziali, e le montagne hanno molto a che fare con l’ascensione spirituale, oltre che fisica.
La storia di Thea Vallè raccontata a Zen l’ho ascoltata seduta su una delle sediette pieghevoli da campeggio. Quando mi alzo, mi viene incontro un cagnolino, lasciato libero di correre dalla sua padrona che si sta ancora chiudendo la porta di Care Of alle spalle. Totalmente disinteressato ai biscotti-esca preparati dall’artista, il cane si dedica unicamente ai miei stivali, leccandoli ben bene, festante. Temo che Mentasti, nel voler ri-materializzare e cani e ragazzi post ghosting, abbia sbagliato qualcosa. Dev’esserci, nel corpicino di questo cagnolino, qualche tipo con il famigerato, diffusissimo fetish per i piedi che l’avrà ghostata chissà quando. Insomma, come Maga Circe Mentasti è pessima, ma per fortuna come artista è tutto il contrario. Mi chiedo se un giorno parleranno di lei a dei cani, o magari a dei pesci pipistrello dalle labbra rosse (esistono davvero: cercateli).