Un cambiamento d’epoca
Usavo transizione in opposizione a crisi per evocare lo stesso concetto a partire dal 2012. Dicevo: se politica e collettività bollano come temporanei i cambiamenti in corso, se prevale la convinzione che sia sufficiente aspettare perché tutto torni come prima (del crollo dei mercati finanziari nel 2008), i rischi di collasso e di guerra in Europa sono molto alti. Non ci voleva Cassandra per immaginare una tempesta all’orizzonte, eppure…
Solo più tardi ho scoperto l’espressione del Papa, che senza dubbio è più incisiva, chiara e da allora l’ho fatta mia. Mi scorre ora davanti agli occhi e… Nel mezzo del cammin penso; la selva oscura. Dante!
Il collegamento mi sembra azzardato, tuttavia non riesco a cancellare la convinzione di essere proprio in quella selva che nasconde alla vista il futuro e fa svanire il passato che merita di essere ricordato. Proprio là, dove la via è smarrita.
Immersi in un cambiamento vertiginoso per rapidità e implicazioni, circondati da guerra, povertà, collasso del clima, perdita di controllo sulla tecnologia… siamo nella selva oscura, dove la via è smarrita.
Diritta non è mai stata la via, bisogna riconoscere. Ma con tornanti, salite e vertiginose discese, retromarce e riprese, una qualche strada verso una società più rispettosa della dignità umana l’avevamo percorsa. Ora è interrotta. Senza una bussola che indichi la direzione di marcia e senza la volontà di consultarla, il passato sbiadisce, perde di significato, magari celebrato ritualmente ma senza consapevolezza o empatia.
Resta solo un presente continuo in cui il progetto del futuro non ha radici. Senza il campo delle possibilità non si può immaginare alcuna alternativa a quello della realtà contingente. Se così fosse, forse è utile ricordare e riflettere intorno a ciò che potrebbe essere, che vorremmo fosse. Ma cosa ricordare e cosa no. La storia? Le storie? Quali e come?
Scompare proprio tutto?
“Tutte le immagini scompariranno. […] Tutto si cancellerà in un secondo. Il dizionario costruito termine dopo termine dalla culla all’ultimo giaciglio si estinguerà. Sarà il silenzio e nessuna parola per dirlo”, così Annie Ernaux in Les Années.
Ecco cosa se ne va con l’ultimo respiro (almeno per chi non crede in altre vite terrene o spirituali). Una parte di te resta nella vita di altre persone, vicine e lontane. Per un po’. Poi, salvo poche eccezioni di cui parla la storia o la leggenda, permane mescolata nelle cose, nelle abitudini, nelle tradizioni. Il resto svanisce. Oggi sempre più in fretta, perché travolto da una società che muta a un ritmo troppo incalzante, che con l’urbanizzazione selvaggia dissolve le forme sociali grazie alle quali un po’ di storia vissuta può essere condivisa tra generazioni diverse.
Come fa una società che vive nel presente immanente a sentire – non a capire – il dolore di un sopravvissuto alla Shoah o di una mamma che perde il suo piccolo nelle acque del Mediterraneo mentre cerca la speranza o di un anziano che vive a Rafah, ai confini tra Russia e Ucraina, nel Sahara Occidentale? O la gioia del primo passo sulla Luna o della scoperta del bosone di Higgs? O la rabbia e la paura della perdita di lavoro, di una diagnosi infausta, della mancanza d’acqua…?
Senza un’intelligenza collettiva, senza l’empatia che implica mettersi nella pelle di un altro da sé invece di tapparsi occhi e orecchie, è possibile emanciparsi dalle miserie di cui è densa la vicenda umana?
Quanto ci allontaniamo da questa necessaria capacità affogando in uno stile di vita che l’urbanizzazione, la mercificazione di tutte le esperienze e l’espansione della sfera emotiva dei nostri avatar schiaccia nel presente continuo? Dove finiscono il passato e il futuro?
Le gallerie non se ne occupano, ma per fortuna molte grandi istituzioni culturali hanno iniziato a riconoscerne il valore; sono sempre più diffuse le pratiche dell’arte contemporanea che s’immergono nelle comunità di base, per riscrivere possibili futuri investigando il passato e il presente attraverso le storie delle persone. Me l’ha fatto scoprire Sara Alberani, tra le diverse prospettive sull’arte contemporanea cui mi ha avvicinato.
Resta solo l’arte – parole, forme e colori, suoni – per condividere l’unicità che abita ciascun essere umano, le sensazioni, emozioni, i pensieri che ogni esperienza sollecita o alimenta? Null’altro?
Anche l’oratoria è, era, un’arte. Una di quelle cui si devono anche grandissimi guai nella società di massa, da Hitler e Mussolini e così via. Oggi va sotto il nome di comunicazione.
Di nuovo, senza una bussola, senza etica, ogni creazione umana può essere piegata per fare del male.
Ogni volta da capo
In I robot e l’impero di Isaac Asimov, Daneel (robot) parla con Giskard (robot) che gli confessa di aver influenzato le menti di una folla per accrescerne l’empatia con il discorso che pronuncia Lady Galadia (umana).
“Non vedo come questo sia possibile, amico Giskard – commentò Daneel – Anche a me pare impossibile, amico Daneel. Non sono umano. Non so cosa significhi in prima persona possedere una mente umana con tutte le sue complessità e le sue contraddizioni, quindi non sono in grado di comprendere certi meccanismi. Ma, almeno in apparenza, le moltitudini sono più facilmente influenzabili degli individui. È un paradosso vero? Lo spostamento di un grosso peso richiede più forza dello spostamento di un piccolo peso. Lo spostamento lungo una grande distanza richiede più tempo dello spostamento lungo una distanza piccola. Perché, allora, è più semplice controllare una folla che un gruppetto di pochi? […] Giskard parve riflettere alcuni istanti, quindi disse: Non è la ragione a essere contagiosa, ma l’emozione.
Lady Galadia ha scelto argomentazioni capaci, a suo parere, di far leva sui sentimenti della gente. Non ha cercato di ragionare con il pubblico. Dunque, […] più la folla è numerosa più è facile controllarla puntando sull’emotività lasciando da parte la razionalità. Dal momento che le emozioni di base sono poche e le concezioni razionali molte”.
Ogni vita, ogni sapere, ricomincia dalla parola e dai gesti di chi ti alleva.
Che peso avrà nei prossimi decenni l’intelligenza artificiale nella formazione dei sentimenti, nella formazione all’emozione?
Durante la Divali, la festa induista delle luci, ho sentito dire: “Essere non-violento non significa dirsi che non ho l’impulso alla violenza, ma che non posso farla e imporsi di non farla”. Una scelta, che coinvolge ragione ed emozione, consapevole che ci sono circostanze della vita in cui si vuole fare del male a qualcuno, ma che è sbagliato farlo.
Quali valori dovranno essere leggi inviolabili per le intelligenze artificiali, quali i limiti del loro impiego, quali ricordi conservare, condividere, quali rimozioni? Quali gli strumenti culturali degli umani per non diventarne succubi?
Il futuro, una volta
Ho sempre avuto un rapporto fragile con la memoria dei fatti della mia vita e delle emozioni che li accompagnarono, lo sguardo sempre e fin troppo orientato al futuro. Per cui ricordo poco e costruisco – ho costruito – pensiero su pensieri, scansato la memoria delle sensazioni e delle emozioni vissute per lasciare spazio vergine (o quasi) a quelle di domani. E forse per questo sento poca musica pur adorandola, perché su di me esercita tutto il suo potere di rianimare la memoria emotiva. Forse, in fondo, sfuggo la memoria emotiva perché m’intimorisce.
Tuttavia, le convinzioni di cui parlo qui sono indissolubilmente legate a emozioni vissute e alla loro elaborazione.
Da qualche parte conservo una bacchetta magica di Harry Potter regalata ai miei figli. Provo a farne uso per tirare fuori dal bacile dei ricordi e dei pensieri qualche filamento che spieghi, o semplicemente collochi ragione ed emozione in un qualche rapporto.
[Luca Bergamo, È qui il mio respiro, in libreria dal 5 giugno, qui in preordine)