In Immaginazioni di una rivolta, Femminismi violenza e controllo sociale, appena pubblicato da Mimesis, il sociologo Pietro Saitta esplora le ricezioni sociali delle ultime ondate femministe e va alla ricerca dei punti di somiglianza – ovvero delle omologie – esistenti tra le culture della contestazione e il senso comune dominante. In particolare gli atteggiamenti rispetto alla pena, alla moralità e al controllo vengono indagati dall’autore per mezzo di osservazioni etnografiche e di riflessioni (anche autobiografiche) che pongono a confronto la produzione culturale o i discorsi degli intellettuali e dei movimenti sociali con quelli maggiormente comuni e radicati nel sociale. Di seguito un estratto, ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.
Andando avanti nel ragionamento, e tornando nel personale per un attimo, nel mio intimo trovo per esempio retrivo ragionare in termini di genere, anche se comprendo benissimo che esistono ancora linee di sesso e di colore. Non sto dunque sostenendo che non c’è bisogno di forze che sorveglino questi e altri fronti simili. E certamente ritengo che occorra essere coscienti dei rischi potenziali di una cecità ideologica rispetto alle differenze di opportunità rinvenibili nel sociale, soggette a essere acuite da atteggiamenti di sostanziale noncuranza riguardo al loro peso. Inoltre questa è un’osservazione valida nelle questioni legate al sesso come alla “razza”.
Ciò nondimeno l’ipotesi qui sostenuta è che nelle questioni di genere contemporanee si rinvenga anche un’ossessione identitaria, che fa mostra di sé in vari modi e che non è dissimile da altre attribuibili a quell’oggetto polimorfo e indeterminato costituito dalle “destre”. Possiamo pensare per esempio a quella preoccupazione che si manifesta nella sensibilità per i pronomi, la quale può risultare assai grottesca, ancorché, al momento della sua comparsa, sia apparsa opportunamente provocatoria nei confronti di una società maschilista.
È certamente vero che la società ha bisogno di scosse per interrogarsi e riconoscere gli elementi disfunzionali della propria organizzazione. Le performance e l’arte nelle loro forme provocatorie, per esempio, svolgono esattamente questa funzione civile. Tuttavia se presa seriamente, un’ossessione come quella per i pronomi – che impiego solo perché è utile a illustrare certe dinamiche – può essere intesa come un indicatore di un problema attinente al sé individuale. O, per meglio dire, un problema che è sì proprio di tanti individui – tanti quanti ne bastano a comporre un gruppo – ma ciò nondimeno relativi più alle psicologie e alle individualità coinvolte che al politico in senso proprio. Sovvengono così a riguardo le parole di Rupaul, una delle drag queen più celebri, quando, in un’epoca antecedente l’attuale attenzione per la questione dei pronomi, diceva: “You can call me ‘he’. You can call me ‘she.’ You can call me Regis and Kathie Lee; I don’t care! Just as long as you call me”.
Personalmente mi sono sempre trovato così d’accordo con questo punto di vista che non avrei alcun problema a essere chiamata, per esempio, professoressa Saitta. Della mia mascolinità eterosessuale, infatti, non mi importa nulla. E trovo perciò patetico e retrivo leggere quei he, she e they in calce alle email dei miei colleghi, così come le lamentele ufficiali di partecipanti alle conferenze universitarie che dichiarano di non essersi sentite rispettate perché qualcuno, privilegiando i loro attributi fisici rispetto a quelli identitari, le ha chiamate col pronome per loro sbagliato. Così come trovo imbarazzante – ma questo è un altro discorso – il divieto di alcune istituzioni universitarie di indirizzare un saluto a un collega o a uno studente che suoni come “Ciao, bella/o” oppure “ti vedo bene!” (espressioni, dunque, riferibili in qualche vago modo al corporeo degli interlocutori).
Oltre che un insopportabile identitarismo, in pratiche linguistiche come queste si vede emergere – non in filigrana, ma in chiaro – un disciplinarismo autoritario, e anche alieno al quotidiano, che non sembra avere molto di progressista. Ciò, in particolare, perché dà l’impressione di volere riordinare il sociale spingendo le persone a scegliere dei ruoli sociali intellegibili: l’essere, per l’appunto, degli he, she o they. In tal modo quello che nelle intenzioni dei proponenti avrebbe dovuto essere un atto innanzitutto linguistico di emancipazione dalle forme che associano sesso e percezioni di sé, viene assorbito dal sistema d’ordine aggiungendo una casella alla voce identità (they non sembra essere molto diverso da ciò che nei questionari istituzionali e commerciali, alla voce sesso, è categorizzato come “altro”). Viene in tal modo inserito un ulteriore genere alla ristretta lista di quelli esistenti, senza però accantonare l’uso di un concetto ordinatorio del mondo che è alla base delle differenze. Invece di un mondo senza generi, in cui prevarrebbe idealmente l’umano, ci si accontenta di un allargamento delle categorie utili a produrre ulteriori separazioni.
È una logica, potremmo dire, che si muove dentro una direzione culturale molto compatibile con i tempi. Ovvero con ciò che, per esempio, avviene da tempo nel mondo del lavoro, dove si moltiplicano i contratti, le posizioni e le rivendicazioni particolaristiche. Ma, che, soprattutto, appare curiosamente compatibile anche con quell’ordinamento tradizionale del quotidiano – oggetto altrimenti di contestazioni – che non mette in discussione la funzionalità dei pronomi, i differenti colori per i bambini di sesso diverso e tutto il resto degli armamentari atti a distinguere. La principale differenza che intercorre da quell’ordinamento classico è, oggi, la vocazione a discernere meglio, ossia a separare con maggiore accuratezza.