Il futuro non è scritto

Il futuro non è scritto

Novembre 2024
100 anni di pensiero pratico e visionario. Un convegno a Venezia
Valeria Verdolini

Pubblichiamo l’anticipazione di parte dell’intervento che Valeria Verdolini terrà l’8 novembre a Venezia al convegno Basaglia e la libertà: una eredità politica attuale.

Sul muro di uno degli edifici che compongono l’ospedale triestino, sparpagliato nel parco di San Giovanni, si legge: “La libertà è terapeutica”. Se il luogo obbliga a riflettere sul “terapeutica” a me, forse per la mia formazione giuridica, interessa soprattutto il concetto di “libertà” come terapia. Perché se la libertà è la cura, la questione centrale diventa qual è, in ultima istanza, la malattia che ci affligge. Leggendo tutti i lavori del gruppo basagliano, prodotti prima a Gorizia, poi a Trieste e infine nei molti luoghi del mondo dove hanno lavorato e de-istituzionalizzato i manicomi, si deduce che la malattia mentale rappresenta solo una piccola porzione delle diagnosi. Quando esiste, non basta a spiegare la sofferenza. Possiamo forse provare a immaginarla come detrito, come il residuo calcareo, la maceria visibile (e vitale, e conflittuale) di una serie di processi molto più complessi.

Proprio per questo, quando è stato possibile, per arginare tale contagio è stata immessa una dose antidotica di libertà: abbattendo i muri a Gorizia e a Trieste e poi con la legge 180/78, il punto di partenza di un processo di psichiatria democratica. La norma purtroppo non è riuscita fino in fondo nel suo intento di liberazione e non per cattiva volontà degli estensori, ma per la complessità delle battaglie politiche e culturali che comportano i processi di de-istituzionalizzazione e le pratiche di gestione territoriale della cura. 

Ma andiamo per ordine. Per capire di quali mali si parla è necessario partire dal principio. Come mai parlare di libertà in un ospedale, o peggio ancora, in un luogo fisiologicamente chiuso come un manicomio? In che modo la libertà diventa un pezzo centrale e terapeutico della dinamica di cura? Soprattutto, di cosa parliamo quando parliamo di libertà? Affermare che la pratica di libertà sia terapeutica significa assumere che la malattia, soprattutto la malattia mentale, si manifesta come una patologia politica, o meglio come una patologia del potere. 

La fortunata formulazione si deve all’antropologo Paul Farmer (2004). Farmer sostiene che le violazioni dei diritti umani non sono incidenti, anzi, non sono casuali nella distribuzione o nell’effetto che generano. Le violazioni dei diritti sono, invece, da considerarsi quali sintomi di patologie più profonde del potere e sono legate intimamente e matematicamente alle condizioni sociali che così spesso determinano chi subirà abusi e chi sarà protetto dal danno. 

La concezione di patologie del potere si esplicita nella pratica della “violenza strutturale” che l’antropologo definisce come un’ampia rubrica di prassi che include una serie di offese alla dignità umana: povertà estrema e relativa, disuguaglianze sociali che vanno dal razzismo alla disuguaglianza di genere ai residui coloniali, e le forme più spettacolari di violenza che sono abusi incontestabili dei diritti umani, alcune delle quali puniscono gli sforzi per sfuggire alla violenza stessa.

Insomma, possiamo riassumere sotto il vasto concetto di “oppressione” le forme e le pratiche che consideriamo come patologie del potere. La malattia quindi, soprattutto la malattia mentale, è la manifestazione di una patologia del potere, allora -solo allora- la sola medicina, la sola terapia, è la libertà. Se è difficile pensare a uno scambio materiale tra Farmer e Basaglia in termini di confronto e letture, è interessante la comune connessione tra sofferenza, violenza e potere. 

Ne L’istituzione negata c’è un passaggio che racconta le forme di violenza sistemica alla quale siamo socializzati: “Una favola orientale racconta di un uomo cui strisciò in bocca, mentre dormiva, un serpente. Il serpente gli scivolò nello stomaco e vi si stabilì e di là impose all’uomo la sua volontà, così da privarlo della libertà. L’uomo era alla mercè del serpente: non apparteneva più a se stesso. Finché un mattino l’uomo sentì che il serpente se n’era andato e lui era di nuovo libero. Ma allora si accorse di non sapere cosa fare della sua libertà: nel lungo periodo del dominio assoluto del serpente egli si era talmente abituato a sottomettere la sua propria volontà alla volontà di questo, i suoi propri desideri ai desideri di questo, i suoi propri impulsi agli impulsi di questo che aveva perso la capacità di desiderare, di tendere a qualcosa, di agire autonomamente”.

E ancora: “In luogo della libertà aveva trovato il vuoto”, perché “insieme col serpente gli era uscita fuori la sua ‘essenza’ nuova, acquistata nella cattività” e a lui non restava che riconquistare a poco a poco il precedente contenuto umano della sua vita.

Nel testo si esplicita l’analogia della favola con la condizione istituzionale del malato mentale. La riflessione si spinge però ancora più lontano: “L’incontro con il malato mentale ci ha anche dimostrato che – in questa società – siamo tutti schiavi del serpente e che qualora non tentiamo di distruggerlo o di vomitarlo, non ci sarà più un tempo per riconquistare il contenuto umano della nostra vita.”

La favola del serpente è un dispositivo che ci permette di vedere alcuni aspetti di questa relazione tra sofferenza, violenza e potere. Chi esercita la violenza? Chi esercita il potere? Chi trae vantaggio da quell’esercizio? La violenza strutturale, le patologie del potere, le “istituzioni della violenza” come il manicomio (o come il carcere oggi, giusto per fare qualche esempio) hanno sempre esercitato una funzione di separazione, “tra chi ha potere e chi non ce l’ha”. Tra noi liberi, e le persone alla mercé del serpente. O forse tra i differenti serpenti che ci abitano. 

Dove si annidano e come si riproducono questi serpenti? Per i Basaglia, in primis si tratta della violenza esercitata da chi ha il coltello dalla parte del manico, nei confronti di chi è irrimediabilmente succube. (ivi, p. 115). Ancora, sempre ne L’istituzione negata è la suddivisione dei ruoli a determinare il rapporto di sopraffazione fra potere e non potere, che riproduce costantemente lo stesso meccanismo di esclusione del non potere da parte del potere: “la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che si instauri nella nostra società” (ivi, p. 114). 

Separare, definire chi ha dignità di cittadinanza e chi non ce l’ha, selezionare chi può accedere alla cura e chi trova nell’esclusione e nella reclusione il proprio spazio è il nodo politico, oggi come allora è il senso di questa patologia. Le “istituzioni della violenza” si fondano perciò su quella base: la differenza di classe che rappresenta il nodo cruciale dello stato moderno e liberale. 

Per questo, mai come oggi, perché la libertà sia terapeutica, perché la cura possa funzionare, tanto la cura quanto la libertà devono essere politiche e strutturate a partire da una cultura politica condivisa. Forse, sarebbe più chiaro esplicitare che “la libertà è politica”. Ma quando mai la libertà non lo è? Ovvio che questa dicitura suona come una banalità nella misura in cui la libertà è sempre stata politica, tanto nelle forme quanto nelle narrazioni. L’urgenza è quindi il riempire di significati tanto il termine “politico” quanto il termine “libertà”. Questo è l’esercizio che possiamo fare oggi in questo centenario non solo della nascita di Basaglia, ma del “basagliare”. Qual è la ricetta della libertà come terapia? 

Mai come oggi, dopo queste incredibili e sconcertanti elezioni americane, riveste un’importanza centrale la dimensione politica della rivoluzione basagliana, ed è necessario nominare, definire, socializzare i concetti e le pratiche. In che modo tale esperienza è rivoluzionaria? Dove sta l’utopia della realtà, o come mi piace dire, il realismo magico dell’esperienza triestina? Dove troviamo l’attualità di quel lavoro, che sopravvive al passare del tempo? Innanzitutto, nella giovinezza delle pagine dei molti testi prodotti dal gruppo di lavoro che si è costruito come un vero e proprio collettivo prima a Gorizia e poi a Trieste.

In quei ragionamenti, la libertà ha rappresentato un grimaldello politico all’interno del manicomio, ma più in generale nelle trasformazioni sociali che sono seguite alla chiusura degli ospedali psichiatrici. In quell’esperienza, con “politico” si è inteso un vero e proprio lavoro culturale capace di cambiare le forme del pensiero prima delle pratiche. A Gorizia, a Trieste, è stata politica la possibilità di liberare gli operatori, prima dei pazienti, di riconoscere e distanziarsi dalla violenza e dal potere per alleviare finalmente la sofferenza. Per buttare giù il muro dell’ospedale, per slegare le persone, per accettare l’anormalità della “normalità” è necessario visualizzare, immaginare, credere alla magia realistica di quella libertà. Essere liberi è un’utopia. Essere liberi significa guarire del tutto. 

Quando Basaglia parla di libertà non parte perciò da un’idea astratta, ma da una pratica concreta. Il medico veneziano aveva conosciuto concretamente la privazione della libertà, l’istituzionalizzazione, nella prigionia per antifascismo. Quei giorni in carcere costituiscono un’esperienza fondamentale, non necessaria che ha permesso a Basaglia di specchiarsi nei pazienti, di vedere in che modo il suo esercizio di potere istituzionale poteva essere diverso. Si poteva curare non assecondando quella dinamica di potere e non producendo quella violenza.

In un mondo con manicomi chiusi, ma forse meno libero e più ammalato di patologie del potere, cosa si può fare in concreto? Le risposte principali offerte dai lavori triestini sono due e interconnesse: il rovesciamento istituzionale e il lavoro culturale.

Il rovesciamento istituzionale passa attraverso diversi gradi di responsabilizzazione di tutti i soggetti che partecipano all’istituzione, unico strumento fattivo per poter conquistare spazi di libertà. Se chi deve esercitare quel potere, quella violenza, dismette quel ruolo, allora anche quel meccanismo non seguirà più la logica della separazione, bensì quella della relazione. La negazione istituzionale diventa, attraverso l’assunzione di responsabilità e di una finalità comune, “il simbolo della lotta a ogni sistema di oppressione e sopruso” (ivi, p. 334).

“La libertà è terapeutica” diventa perciò pratica di democrazia e rafforzamento dello spazio di agibilità degli individui. Perché le patologie del potere sono plurime, e limitare le infezioni autoritarie diventa un problema di salute pubblica e di salute democratica. È molto banale da dire però la nominazione e il lavoro culturale, il problematizzare e risemantizzare le malattie (e gli abusi), il definire le urgenze proprie della salute mentale, ma anche delle molteplici sofferenze istituzionali, significa ricollocare le istituzioni, la cittadinanza, il pubblico nella prospettiva della liberazione dal potere, non nell’esercizio diseguale della separazione tra le persone.

Pensiamo ai modi in cui la sofferenza sociale viene punita attraverso i dispositivi di controllo urbano, o la crescente stigmatizzazione del disagio giovanile e allarme sulla pericolosità dei minori nelle città. Pensiamo a Caivano e al DDL Sicurezza in discussione alla Camera, ma anche alla nave Libra che si dirige verso le coste albanesi. Pensiamo ai 62180 detenuti in violazione delle sentenze europee.

Proprio perché questo processo è dialettico ingaggia la politica ma soprattutto evoca la “politeia”: tutti noi possiamo essere parte attiva se ci interroghiamo con uno sguardo orientato alla cura, al richiamo al senso democratico, al bene comune. E dobbiamo esserlo, perché liberare significa riportare nel collettivo la sofferenza, e farsene collettivamente carico. La cura è democratica se riduce le diseguaglianze e non le aumenta. La libertà è terapeutica se le diagnosi sono accurate, e le decostruzioni necessarie. Se noi partiamo da questo secondo me abbiamo, oggi più di ieri, mille ragioni per rileggere Basaglia e molto lavoro da fare. 

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Novembre 2024
Trump incarna paure e sogni regressivi
Federico Ferrari

Come si chiama una persona che parla più lingue? Un poliglotta. E una persona che parla due lingue? Un bilingue. E una persona che parla una sola lingua? Un americano. 

Guardando gli esiti delle elezioni statunitensi mi è tornata in mente questa vecchia freddura. Non è, infatti, difficile interpretare la figura di Trump come l’incarnazione di un ritorno del rimosso della grande espansione globalizzatrice della seconda parte del Novecento. Il miliardario newyorkese è il sintomo di un diniego, di una paura e di una speranza. Il diniego è quello di un mondo ormai totalmente interdipendente, dove nessun problema può essere affrontato solo a livello locale. Non siamo più solo nel mondo, astratto e poetico, della teoria della complessità in cui un battito d’ali ad Hong Kong può generare una tempesta a San Francisco, ma in un globo a tal punto interconnesso che qualunque scelta, anche la più individuale (un hamburger al posto di un’insalata) si riverbera (socialmente, economicamente, culturalmente, climaticamente) a livello globale. Si svolge, in fondo, nella psiche dell’elettore trumpiano un processo di negazione dell’esistenza di un mondo, definitivamente, reticolare e condiviso, dove l’altro non può essere escluso, perché le scelte dell’altro (e dell’altro che io sono per altrui) influiscono sulla mia vita e su quella di tutti. 

In fondo, Trump afferma, senza troppi giri di parole, che l’altro va espulso, va ignorato, va rimosso. In questo modo, il neoeletto presidente fa leva, principalmente, sulla paura dell’altro e aiuta ad esorcizzare questa paura, alimentando la (falsa) speranza che tale negazione della realtà (sempre altra e alterantesi) porti a una pace sovrana (e immobile), dettata esclusivamente dalla scelta di un proprio stile di vita (possibilmente ancorato nel passato, nel già dato e sperimentato). Si tratta di una rivisitazione dell’individualismo liberista che, però, richiamandosi a un sovranismo assoluto, ignora la globalizzazione del mondo (la ignora in modo paradossale, proprio perché la spinta propulsiva della globalizzazione è stata data dal mercato liberista).

Solo i più ingenui – o le vittime di altri processi di diniego del reale – si possono davvero stupire del successo trumpiano, in quanto analoghe figure governano, ormai, mezzo mondo, tra cui il paese che parla la lingua in cui mi esprimo. La globalizzazione è, da diversi anni, in un movimento di contrazione. Il sovranismo planetario è, precisamente, sintomo di questa sistole epocale. La grande torre di Babele sembra avere generato il panico e, un po’ ovunque, gli spaesati abitanti di questo inedito coacervo di lingue, tradizioni e culture sperano di potersi nuovamente rifugiare nel monolinguismo, nella terra delle radici, nella mitologia etnica, nella xenofobia immunitaria, nella costruzione di grandi muraglie, nell’isolamento, nell’autarchia. Credono, in questo modo, di esorcizzare la mondializzazione del mondo, la comparsa di un destino e di una storia dell’umanità e non più delle nazioni e dei singoli popoli. Non c’è da stupirsi, l’aperto fa paura, l’ignoto ancora di più, e l’altro, con il suo carattere intrusivo e straniante, terrorizza.

Trump incarna queste paure e questi sogni regressivi. E li incarna nel modo più esplicito e triviale. È l’esasperazione dell’americano della freddura che riportavo all’inizio di questo breve articolo. 

Una speranza resta, però. La speranza che ad ogni sistole segua una diastole resta per quelli che ancora credono che ogni monolinguismo sia, in realtà, un monolinguismo dell’altro, in cui è l’altro che davvero parla – fosse pure un altro che resta oscuro, sconosciuto, sommerso, nell’ombra, se non nella clandestinità. A questi monolinguisti poliglotti, che nella propria identità sentono la presenza di una differenza, incoercibile e ineliminabile, una differenza che rinvia sempre ad altro, all’altro che ci costituisce; una differenza, cioè, che è un’interrelazione tra tutti, in un mondo sempre più globale e interdipendente, ecco a questi cosmopoliti, a questi comunitari senza comunità resta una debole ma insopprimibile speranza.

Gea è ben più solida delle paure e delle ansie dei suoi abitanti. Ma gli attacchi di panico, le angosce depressive, i gesti di violenza (anche autolesionistici), dettati dalla paura, non vanno mai sottovalutati. La paura, l’angoscia va individuata, circoscritta, analizzata, compresa e trasformata, perché non è mai esclusa la possibilità che possa dare origine alla fine dell’alternanza di sistole e diastole, causando un arresto cardiaco del soggetto della storia. 

Respiriamo, dunque, e iniziamo a vincere le nostre paure (che sono nostre, in un simile mondo interconnesso, anche se sono quelle dell’altro, dell’altro a me estraneo, dell’elettore di Trump, di Putin, di Netanyahu, di Orban, di Meloni, di Salvini…). Trump non è che un sintomo. Il mondo è lì, nel suo insieme, che aspetta il farsi della sua verità comune e universale. Creiamo una nuova lingua, una pluralità di lingue. Pratichiamo l’esercizio della traduzione. Babele non faccia paura. Babele contiene la sola salvezza possibile, quella di tutti.

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Novembre 2024
L’elettore indeciso è come quelli che comprano i regali di Natale la sera della vigilia
Alessandro Carrera

È il 4 novembre 2008, il giorno in cui si elegge il prossimo presidente degli Stati Uniti. Siamo a Bloomington, nello stato dell’Indiana. Il signor Norman Muller, commesso di un supermercato, è nervoso perché proprio l’Indiana sarà lo stato in cui si decideranno le elezioni, mentre la moglie Sarah è molto eccitata all’idea che proprio suo marito possa essere scelto come Grande Elettore. Norman non lo ritiene per nulla probabile, ma tutto quell’affaccendarsi intorno a lui lo preoccupa. È sempre stato un uomo tranquillo e non ha mai pensato di diventare chissà che. Adesso però ci sono i computer che calcolano, fanno previsioni, collimano i dati relativi alle preferenze della gente, alle loro aspettative. Hanno i loro profili, e di sicuro hanno anche quello di Norman Muller.

È stato verso la fine di ottobre che la situazione è peggiorata. C’erano agenti del Servizio Segreto in giro per Bloomington. Non ce l’avevano scritto in faccia, ma non era difficile riconoscerli, così come era facile prevedere che il Grande Elettore dell’Indiana sarebbe stato scelto proprio a Bloomington. Finché accade: l’agente Phil Handley bussa alla porta di casa Muller. È lui il prescelto, è lui che dovrà dare il suo voto. Nei due giorni che mancano al 4 novembre, nessuno, in casa Muller, potrà uscire o comunicare con nessun altro. Gli agenti del Servizio Segreto, che ora stazionano in casa, si occuperanno del necessario. Muller è angosciato, dal suo voto dipende il destino del Paese. Già in passato è accaduto che i Grandi Elettori abbiano votato un presidente che poi è stato odiato. Ma la moglie non desiste. È la tua grande occasione, ripete al marito. Ti basta adempiere il tuo dovere civico e sarai famoso, ti intervisteranno, andrai in televisione, finalmente arriveranno un po’ di soldi.

Infine, giunge il giorno delle elezioni. È l’ora di andare. L’agente Handley scorta fuori casa il signor Muller, depresso ma rassegnato. Per ragioni di sicurezza lo fa salire su un carro armato che lo porta a un tunnel sotterraneo il quale, a sua volta, sbuca in un ospedale dove lo aspettano tre scienziati che gli applicano degli elettrodi al corpo, collegandolo in remoto a un computer gigantesco, sepolto in un luogo segreto, che gli manderà delle domande scritte alle quali Muller dovrà rispondere. Le domande saranno tra le più varie, ma non riguarderanno minimamente la campagna elettorale in corso. Il computer potrebbe chiedere a Muller cosa ne pensa della qualità della nettezza urbana nella sua città, se preferisce lo smaltimento o gli inceneritori. Potrebbe chiedergli se ha un medico personale o un’assicurazione sanitaria pubblica, o che opinione si è fatto della scuola che frequenta sua figlia. 

Nemmeno le risposte saranno importanti; il computer baderà piuttosto all’intensità con la quale Muller vorrà rispondere. Gli elettrodi registreranno la pressione sanguigna, la conduttività della pelle, l’emanazione delle onde cerebrali e le reazioni delle ghiandole sudorifere. Sulla base dell’espressione fisiologica dei sentimenti e delle emozioni, il computer determinerà il voto del signor Muller. Non solo per questo o quel candidato presidenziale, ma anche per tutte le migliaia di elezioni locali che in quel giorno sono in corso negli Stati Uniti, dal consiglio comunale di Phoenix in Arizona a quello di Wilkesboro in North Carolina. Sarà quello che “sente” Norman Muller, commesso di supermercato, a decidere il futuro dell’America.

La prova dura tre ore. Al termine, Muller non sa per chi ha votato, né gli viene detto. Ma il computer lo sa, e lo renderà noto non appena gli scienziati avranno terminato di verificare i dati. Muller è stanco, ma poco per volta comincia s sentirsi orgoglioso, un vero patriota. Grazie a lui, il popolo degli Stati Uniti ha esercitato ancora una volta il suo libero diritto di voto.

No, le cose non sono andate proprio così il 4 novembre 2008, il giorno in cui è stato eletto Obama. Sono andate così, invece, in un racconto intitolato Franchise (Diritto di voto) scritto da Isaac Asimov nel 1955 e compreso nella raccolta Earth Is Room Enough (La terra è grande abbastanza, Editrice Nord, 1984). Diritto di voto fa parte di un ciclo di sedici racconti nei quali compare in modo diretto o indiretto il computer Multivac (variante asimoviana di Univac, nome di uno dei primi computer). A noi non resta che collegare i fili che Asimov ci ha lanciato e verificare quanta parte della sua distopia si è avverata.

Innanzitutto, chi è Norman Muller, scelto via computer come “rappresentativo” dell’intero popolo americano? È un “Norman”, è normale, è la norma, ed è l’elettore indeciso, l’undecided voter, o forse il low-informed voter, l’elettore poco informato, quello che alle domande dei sondaggisti risponde che prima di decidersi su quale candidato votare “deve saperne di più”. L’elettore indeciso è come quelli che comprano i regali di Natale la sera della vigilia; di più, è il mistero, l’animale strano, l’unicorno, la balena bianca, la pantera profumata di cui le campagne elettorali vanno in cerca senza mai riuscire a stanarlo.

E che cos’è Multivac? È l’algoritmo che filtra la semiosfera, che decodifica l’infinita massa dei dati che le imprese, i media e i social media possiedono di noi, al fine di rendere prevedibile e computabile una scelta che l’elettore indeciso non sa fare o non sa di aver già fatto. E a dire il vero non c’è neanche bisogno che decida. Sono le sue emozioni, le sue idiosincrasie, i suoi sentimenti, le sue “percezioni” a decidere per lui.

Una delle domande che Multivac rivolge a Muller, anzi l’unica che poi Muller si ricorda, è: “Che cosa ne pensa del prezzo delle uova?”. Questo in un immaginario 4 novembre 2008. Al momento attuale, negli Stati Uniti, in un vero 5 novembre 2024, il prezzo medio di dodici uova è di 3 dollari e 82 centesimi, il 40 per cento in più di quello che era un anno fa. Ma ora è sceso; qualche mese fa era arrivato a 5 dollari. La colpa non è di Joe Biden; è dell’influenza aviaria che negli ultimi due anni ha decimato il pollame e ha pure ridotto le dimensioni delle uova. Ma gli elettori di Trump menzionano spesso il prezzo delle uova come prova del fallimento della presidenza Biden e della totale incompetenza di Kamala Harris. Se Norman Muller di Bloomington, Indiana, Grande Elettore Indeciso, ha risposto a Multivac che è colpa dei democratici se il prezzo delle uova è troppo alto, sappiamo in che direzione sono andate le elezioni.

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Ottobre 2024
200 storie di artist_ italian_ del Novecento narrate a 200 cani
Vittoria Caprotti

La figlia del mio scrittore preferito ha spiegato che “Come sarà poi sempre una sua caratteristica, prenderà il discorso alla larga, partirà dalla teoria, dalla fantasia, dal ‘nulla’ per arrivare, camuffato e truccato, a parlare di se stesso”: volendomi, io, liberare da camuffamenti e trucchi, lo dichiaro fin da subito che qui, ora, voglio parlare di me, prendendola ugualmente alla larga.

Per parlare di me, allora, parto da una mostra intitolata A place to stay. Voi che leggete, avete poco, pochissimo tempo to stay in questo a voi ancora, per ora ignoto place, dato che la suddetta mostra chiude domani, venerdì 1 novembre. A place to stay è il luogo che Cecilia Mentasti ha ideato per gli spazi di Care Of presso la Fabbrica del Vapore di Milano. È un’area cani sui generis, o meglio: un’area cani perfettamente in linea con quest’era dell’Aquario in cui il progresso tecnologico pare vincerla sempre e, allora, non si digitalizzano e smaterializzano solo i fidanzati a causa di Tinder e del ghosting, ma pure i cani.

Nel tentativo di far riapparire i cani dopo averli smaterializzati – non pretende tutti, ma almeno alcuni, come certi tipi post ghosting –, Mentasti cerca di adescare quelli che per caso passassero di lì – magari senza padroni, scappati – con dei biscotti da lei preparati utilizzando uno stampo a forma di osso e recante il titolo della mostra, sempre da lei prodotto. Biscottini e relativo stampo poggiati su dei blocchi bianchi ad altezza cane, qualche micro-seduta pieghevole da campeggio e delle casse audio nere – alcune adagiate sul pavimento grigio, altre elevate su dei treppiedi – con i loro cavi compongono l’allestimento minimal della mostra. Tra bianchi, neri e grigi, pur piccoline, brillano, poggiate sul tavolo all’ingresso, un po’ di copie del catalogo con le loro copertine rosa.

Dei 76 animali da compagnia co-protagonisti assenti della mostra di Mentasti vediamo solo una foto nel catalogo, ne leggiamo i nomi e in certi casi – quelli degli animali più casinisti – ascoltiamo il loro abbaiare o il loro zampettare o il loro ansimare attraverso le casse sparpagliate nella sala. Ma non li incontriamo mai davvero, questi cani. È un’area cani per cani smaterializzati – tinderiani – che dobbiamo decidere se ci stanno simpatici o ci fanno paura senza averli incontrati, prima di incontrarli, solo vedendoli in foto – tinderiani, appunto. Da cat person che sono, guardo tutte e 76 le foto con sufficienza. Ai cani l’artista ha raccontato le storie e le opere di altrettanti artisti, oppure momenti della Storia dell’Arte contemporanea, come la Biennale di Venezia del 1999. Sfogliando l’elenco dei nomi degli animali, trovo Titti (è il mio soprannome) e Vittoria (è il mio nome): volendo parlare di me, devo parlare di loro. Magari avrà ragione Giulietta nel chiedersi “Che cos’è un nome?” e nel rispondersi “Quella che noi chiamiamo una rosa, con qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente”, ma per me – me, che il mio scrittore preferito già preannunciato è Giorgio Manganelli e che Nanni Moretti se c’è da citarlo, lo cito – le parole sono importanti, soprattutto i nomi. Passo, così, dalla sufficienza con cui avevo guardato le loro foto – quelle di Titti e Vittoria – al pensare, grazie ai loro nomi, che effettivamente, adesso, mi sembra lampante che sono loro i due animali migliori, i più degni di attenzione e pure di un po’ di simpatia, nonostante non siano gatti.

Titti è un Cavalier king Charles Spaniel, mentre di Vittoria non riconosco la razza – se ne ha una – e, in ogni caso, sembra più una mucca che un cane, con quel corto pelo bianco a chiazze nere. Dalla voce di Cecilia Mentasti, Titti ha ascoltato la storia del Gruppo XX e Vittoria quella di Angelo Savelli. Il Gruppo XX è stato un collettivo formatosi nella primavera del 1977 per volere di Rosa Panaro (scultrice), Mathelda Balatresi (pittrice), Antonietta Casiello (docente di filosofia) e Mimma Sardella (funzionaria del Ministero dei Beni Culturali); il nome faceva riferimento ai due cromosomi femminili e lo scopo delle quattro era di sbugiardare – in modo ironico, ma fermissimo – stereotipi e luoghi comuni su ruoli di genere et similia. Angelo Savelli, invece, è noto come “il pittore del bianco” per l’assoluta centralità di questo colore nella sua produzione: una centralità che lo portò a escludere qualsiasi altra possibilità cromatica e a lavorare solo con il bianco, sul bianco, per il bianco. Chissà cos’avrebbe detto Savelli delle chiazze nere che insozzano il manto di Vittoria.

Nel catalogo c’è l’immagine di un terzo cane, di nome Zen, a cui presto attenzione – e a cui già prima di entrare in A place to stay sapevo di dover fare caso. A lui Mentasti ha parlato di Thea Vallè, dicendogli: “Qualche giorno fa ho bevuto una cedrata con una mia amica che mi ha raccontato una storia, la storia di un’artista che non conoscevo e di cui sta cercando di mettere in salvo una grossa e pesante scultura. Ho deciso di fare anch’io la mia parte e raccontarti la sua storia. L’artista in questione si chiamava Thea, Thea Vallè”. Presto attenzione a Zen, perché l’amica con cui Mentasti aveva bevuto una cedrata ero io (l’ho detto, che ho voglia di parlare di me). Thea Vallè – nata Teresa Broggini, nel 1934, a Oleggio, in provincia di Novara – tra gli anni ’60 e gli anni ’70 visse di fronte a quella che oggi è casa mia e che allora era la casa dei miei nonni. Insieme a Thea c’erano altri artisti e mia nonna – donna della Vergine, mercuriale crocerossina (io ho la Luna in Leone: è per questo che parlo sempre di me) – portava torte e lasagne e cose così agli artisti, i quali ricambiavano regalandole loro opere. Su una delle pareti del corridoio che dal salone della casa dei miei nonni porta al cortile sono appese tre litografie di Thea: nella mia preferita delle forme verdi dai contorni irregolari e spezzati si stagliano sul fondo bianco. Mio nonno, amante della montagna, quand’ero piccola mi diceva che quella litografia ritraeva una cima con la neve che si scioglie e un bosco ai suoi piedi: forse aveva ragione lui. Nelle forme minimaliste di Thea si celano messaggi religiosi ed esistenziali, e le montagne hanno molto a che fare con l’ascensione spirituale, oltre che fisica.

La storia di Thea Vallè raccontata a Zen l’ho ascoltata seduta su una delle sediette pieghevoli da campeggio. Quando mi alzo, mi viene incontro un cagnolino, lasciato libero di correre dalla sua padrona che si sta ancora chiudendo la porta di Care Of alle spalle. Totalmente disinteressato ai biscotti-esca preparati dall’artista, il cane si dedica unicamente ai miei stivali, leccandoli ben bene, festante. Temo che Mentasti, nel voler ri-materializzare e cani e ragazzi post ghosting, abbia sbagliato qualcosa. Dev’esserci, nel corpicino di questo cagnolino, qualche tipo con il famigerato, diffusissimo fetish per i piedi che l’avrà ghostata chissà quando. Insomma, come Maga Circe Mentasti è pessima, ma per fortuna come artista è tutto il contrario. Mi chiedo se un giorno parleranno di lei a dei cani, o magari a dei pesci pipistrello dalle labbra rosse (esistono davvero: cercateli).

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Ottobre 2024
Cosa succede nella mente di chi ha già deciso di votare Trump?
Alessandro Carrera

Una vecchia commedia di Eduardo De Filippo, non una delle più famose, si intitola La paura numero uno. L’ha scritta nel 1950, all’epoca in cui i giornali di mezzo mondo si chiedevano se ci sarebbe stata una guerra calda (non era ancora fredda) tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, e il timore della catastrofe nucleare era altrettanto diffuso di quanto lo sarebbe stato nel 1962 con la crisi di Cuba. 

Il protagonista, Matteo Generoso, di professione amministratore di condominio, è angosciato dalla lettura dei giornali, non lavora più, non fa altro che pensare alla guerra che scoppierà, finché il cognato escogita un trucco per tranquillizzarlo. Crea una finta trasmissione radio in cui un annunciatore (in realtà il fidanzato della figlia) dice che la guerra è scoppiata, ma non tra Stati Uniti e Unione Sovietica, bensì tra tutti gli stati del mondo contro tutti gli altri stati, per un totale di circa 21.000 dichiarazioni di guerra che proprio in quel momento gli ambasciatori del mondo intero si stanno scambiando tra loro. 

La conclusione, spiega il cognato dopo la fine della finta trasmissione, è che sì, siamo in guerra, dopotutto l’ha detto la radio, come fai a non credere alla radio, ma siccome è una guerra di tutti contro tutti vuol dire che nessun esercito partirà, la gente andrà ancora a fare la spesa, al sabato sera andrà al cinema e a ballare, e insomma tutto continuerà come prima. Matteo Generoso ci crede, si convince di aver avuto ragione, si calma e si limita a riempire la cantina di provviste bastanti per mesi, giusto perché non si sa mai, e a comprare milleduecento rotoli di carta igienica più dieci paia di bretelle, visto che lui la cintura non la mette.

La situazione presentata nel primo atto della commedia è simile, in modo preoccupante, a quella dell’elettorato che voterà per Donald Trump. In uno dei suoi recenti comizi, oltre a dire che l’America sta sprofondando nella miseria più nera e che  le orde dei migranti al confine hanno trasformato gli Stati Uniti nel bidone della spazzatura del mondo intero, Trump ha anche detto che la benzina costa 8 dollari al gallone.

Ora, l’ultima volta che io ho fatto il pieno, pochi gorni fa, ho pagato la benzina 2 dollari e 79 centesimi al gallone (un gallone equivale a tre litri circa). Una decina di giorni prima, nello stesso luogo, l’ho pagata 2 dollari e 52 centesimi. Il prezzo della benzina fluttua tutti i giorni, è stabilito internazionalmente e il Presidente degli Stati Uniti non ha il potere di cambiarlo, ma è almeno da un anno che alla mia solita stazione di servizio il prezzo non sale sopra i 3 dollari. È vero, io ho fatto un pieno di normale, non di super, e in Texas la benzina costa meno che in altri stati. Dove si sono più tasse, come in California, si arriva a costi più alti, ma al momento non c’è nessuno stato in cui la benzina costi 8 dollari al gallone.

Cosa succede dunque nella mente di chi ha già deciso di votare Trump? Mettiamo che quell’elettore viva in Texas – uno stato dove Trump riceverà una valanga di voti – e che abbia fatto benzina alla stessa pompa dove l’ho fatta io. Per il personaggio creato da Eduardo, il fatto che la gente vada al mare e al ristorante, compri nei negozi e si diverta è la prova che siamo in guerra e che tutti si comportano come se non ci fosse un domani. Allo stesso modo, per l’elettore di Trump il fatto che la benzina costi 2,79 è la prova che ne costa 8. Il cittadino è angosciato, così non si può andare avanti, per tranquillizzarsi deve eleggere Trump, perché Trump ha detto che la benzina costa 8 dollari e Trump è come la radio nel 1950. Intanto, sarà meglio fare il pieno subito perché non si sa per quanto tempo la benzina sarà a 2,79. 

C’è una vecchia barzelletta ebraica in cui un commerciante dice a un altro che andrà a Łódź per un viaggio d’affari, al che l’altro ribatte: “Perché vuoi farmi credere che andrai a Łódź quando so benissimo che andrai a Łódź?” In altre parole, l’elettore di Trump sa benissimo che la benzina costa 2,79, ma perché i democratici vogliono fargli credere che costa 2,79? La dissonanza cognitiva che sprigiona dalla storiella rispecchia ciò che accadrà nei prossimi giorni. Se Trump verrà eletto, lo sarà in gran parte grazie agli elettori che sono spaventati dall’aumento dei prezzi degli alimentari (che è reale, è serio, ed è una conseguenza del Covid e dei successivi disguidi nelle catene di fornitura, anche se ormai è più contenuto di come lo descrive Trump), così come il signor Generoso era spaventato dalla guerra. Ma quando Trump dice che la benzina costa 8 dollari al gallone non spaventa i suoi elettori, anzi li rassicura, così come il signor Generoso si rasserena quando gli dicono che la guerra c’è davvero. Al contrario di Kamala Harris, Trump non ha mai detto, neanche una volta, che farà qualcosa per abbassare i prezzi. E se ne guarda bene. I suoi elettori non vogliono sentirsi dire che porterà il prezzo della benzina a 2.79. Vogliono sentirsi dire che la benzina è a 8 dollari e allo stesso tempo pagarla 2.79. Vogliono la fine del mondo, ma una fine del mondo in cui tutto continua come prima. 

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Ottobre 2024
Mentre le grandi corporation usano il copyright per proteggere i propri interessi economici, i creativi indipendenti rischiano di veder limitata la loro libertà
Francesco D’Isa

Il recente caso legale tra Alcon Entertainment e Elon Musk solleva questioni interessanti e complesse sul copyright e l’uso delle immagini nel mondo dell’intrattenimento. Alcon ha accusato Musk e Tesla di aver utilizzato senza permesso immagini fortemente ispirate a Blade Runner 2049 durante la presentazione dei nuovi robotaxi. Il punto che va oltre questa vicenda specifica è il dibattito su cosa significhi davvero “originalità” in un’opera creativa e come il copyright si applica in questi casi. L’immaginario visivo di Blade Runner – città distopiche, cieli arancioni, macchine volanti, personaggi con lunghi trench – non è del tutto originale. Si tratta di un’estetica derivativa che attinge a una lunga tradizione di film noir, fantascienza classica e romanzi cyberpunk. Elementi come il detective solitario in trench provengono direttamente dal cinema noir degli anni ‘40, mentre le città futuristiche richiamano opere precedenti come Metropolis di Fritz Lang e i classici della narrativa distopica del Novecento. Il copyright protegge la specifica versione di Blade Runner, non l’idea stessa di una città futuristica con un detective in trench.

Il problema sta qui: le grandi aziende sono in grado di registrare come “proprietarie” delle estetiche che in realtà derivano da decenni di influenze culturali. Queste idee appartengono al patrimonio comune della creatività, ma vengono legalmente vincolate da un sistema che spesso favorisce i giganti del settore. E questo non riguarda solo casi celebri come quello di Elon Musk, ma colpisce soprattutto i creativi indipendenti, che potrebbero trovarsi in difficoltà a difendere il proprio lavoro in un contesto legale che richiede enormi risorse economiche per essere affrontato. Mentre le grandi corporazioni usano il copyright per proteggere i propri interessi economici, i creativi più piccoli rischiano di veder limitata la loro libertà di reinterpretare e rielaborare idee già esistenti. In un certo senso, lo stesso copyright che dovrebbe incentivare la creatività, è diventato una spada di Damocle che minaccia di ostacolare la libertà creativa e la diffusione dei saperi.

Un recente articolo di Loredana Lipperini, pubblicato e analizzato su Giap, denunciava le restrizioni sempre più stringenti sull’uso di citazioni in opere narrative, soprattutto di brani musicali e letterari. Autori come Nick Hornby, Murakami e Pasolini oggi incontrerebbero difficoltà nel citare opere famose senza dover pagare costosi diritti o ricorrere a parafrasi impoverenti. Questa situazione si è aggravata negli ultimi anni, rendendo complessa l’inclusione di citazioni nei romanzi senza affrontare problemi legali, anche per brevi frasi. La legge sul diritto d’autore italiana permette citazioni solo per fini critici o saggistici, escludendo la narrativa, causando frustrazione e paure tra autori e editori.

Eppure tutti gli artisti lavorano in dialogo con il passato, traendo ispirazione da ciò che è venuto prima di loro. Se proteggiamo eccessivamente la “proprietà” delle idee, rischiamo di bloccare quel ciclo vitale di influenze e innovazioni che ha sempre alimentato la creatività umana. Intendiamoci, in questo caso è evidente la cattiva fede di Musk e del suo team, che hanno tentato di utilizzare immagini ispirate a Blade Runner 2049 dopo aver visto negata la richiesta di licenza da Alcon. L’azienda aveva rifiutato ogni autorizzazione e si era opposta all’associazione tra il film, Tesla e Elon Musk. Nonostante ciò, Musk ha citato il film durante la presentazione e mostrato un’immagine simile, sostenendo di essere un fan di Blade Runner. La questione qui non verte solo sulla somiglianza dell’immagine, ma piuttosto sulle azioni che sembrano voler collegare Tesla all’immaginario del film, anche contro il volere dei detentori dei diritti. Ma la questione è più ampia e complessa: un dispositivo che era nato per proteggere e diffondere la cultura sempre più o spesso ottiene l’effetto opposto. Lo si evince anche dal fatto che, come dimostra persino l’azione di Musk, su questioni di copyright i soldi e gli avvocati spesso pesano più delle ragioni e dei torti.

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Ottobre 2024
Harris, Trump e il destino del mondo. Un diario elettorale di Alessandro Carrera
Alessandro Carrera

La relativa invulnerabilità di Donald Trump rispetto a tutto ciò che fa, dice e sproloquia, il divertimento palese con il quale i media di ogni tendenza registrano le sue uscite più insensate, la ragionevolezza triste di coloro che, dall’altra parte della barricata, si chiedono seriamente se non si tratti di un caso eclatante di declino cognitivo, perfino l’allarme costante e isterizzato di coloro che lo definiscono senza mezzi termini un fascista (anche tra gli alti gradi dell’esercito, per altro), non riescono a scalfire il mistero della sua apparizione tra i comuni mortali. 

Mi sono permesso di far precedere l’aggettivo “relativa” alla sua percepita “invulnerabilità” perché ci sono state occasioni in cui il pallone si è un poco sgonfiato, in particolare quando il candidato democratico alla vicepresidenza, Tim Walz, ha definito Trump e la sua corte come “gente molto strana” (weird). Per qualche settimana è sembrato che quella definizione avesse compiuto il miracolo di mostrare la nudità del re. Ma poi il pallone si è rigonfiato, e che il re sia nudo non è un problema, non solo perché lo è sempre stato (Trump non ha mai ingannato nessuno rispetto a quello che lui è), ma perché ai suoi elettori va bene così, non lo vogliono diverso, anche quando non credono a una parola di quello che lui gli promette: scatenare l’esercito contro i suoi avversari politici, dare alla polizia totale impunità per ventiquattro ore al fine di estirpare il crimine una volta per tutte, deportare istantaneamente milioni di immigrati anche se legalmente residenti. Lo sanno tutti che sono cose impossibili da mettere in pratica, oltre che fasciste, ma non possono contenere il piacere che provano nel sentirsele dire. 

Uno dei paragoni più calzanti è quello con gli incontri di wrestling. Non ha senso insistere su quanto siano fasulli, i primi a saperlo sono proprio gli appassionati. Il wrestling fa finta di far finta di essere vero, il che rende vera la verità della sua finzione. La sospensione dell’incredulità è totale. Nulla di ciò che accade è vero, ma è vero che accade, e tanto basta.

Ma a quel “tanto basta” è necessaria una deviazione, un détournement. Ho usato un termine introdotto dall’Internazionale Situazionista, l’avanguardia estetico-politica che dalla fine degli anni Cinquanta alla metà degli anni Settanta, tra Francia e Italia, si scavò una posizione defilata, incompresa, demonizzata, nonché esaltata da chi per lo più ne capiva ben poco. Si legga e si rilegga La società dello spettacolo di Guy Debord, 1967, fondamentale per capire le rivolte del 1968, gli anni successivi e anche i nostri. Il situazionismo intendeva combattere l’estetizzazione della politica attraverso la politicizzazione dell’estetica. I suoi principi erano il nomadismo mentale, il disorientamento e la deriva: porre se stessi in situazioni disorientanti, creare situazioni disorientanti per sé e per altri; e soprattutto sfidare il capitalismo, lo spettacolo della merce e la merce dello spettacolo, disorientandone i fruitori fino ad innescare una deriva di cui non si poteva prevedere il potere destabilizzante.

Ebbene, questa pratica che voleva essere talmente rivoluzionaria da risultare indigeribile al capitale, dagli anni Novanta in poi è stata interamente assorbita (o meglio hijacked, “dirottata”) dalla destra. La svolta è avvenuta quando qualcuno ha ricevuto l’illuminazione: non si trattava di mettere un po’ di sabbia nell’ingranaggio del capitalismo, bensì di sfruttarlo, diciamo pure di fotterlo, così come il capitalismo sfruttava e fotteva chiunque. In Italia, il più grande situazionista è stato Berlusconi. Le sue offese al buon costume e al minimo decoro hanno disorientato innanzitutto la sinistra, che non era preparata ad affrontare un avversario così istintivamente in linea con quei tempi nuovi che la sinistra stessa aveva previsto, nonché i cattolici, tanto impreparati quanto la sinistra a dover gestire la dissonanza cognitiva causata da un leader che si dichiarava dalla loro parte mentre rompeva ogni giorno il patto non scritto tra l’incarico che ricopriva e la morale che avrebbe dovuto almeno far finta di adottare.

Negli Stati Uniti, dove il situazionismo non è mai arrivato, tranne che per una sparuta pattuglia di professori di sinistra, si è dovuto attendere Donald Trump per vederne la realizzazione. È andato in bancarotta da quattro a sei volte, a seconda delle definizioni legali che si danno di bancarotta. È ben noto che non paga i suoi fornitori o che lo fa, quando lo fa, con molta riluttanza. Non è un capitalista; è uno che sfrutta il capitalismo, che lo fotte, il che è proprio quello che i suoi sostenitori vorrebbero fare, se potessero. Ogni sua uscita sembra la pagina di un manuale di situazionismo punto 2. È un maestro nel disorientare l’America, e i suoi sostenitori lo adorano per questo. Va a un evento di giornalisti afroamericani e mette in dubbio l’identità razziale di Kamala Harris; va a una riunione di imprenditori di Detroit e dice che Detroit è una città fallita; due persone stanno male a un suo comizio e lui si mette a ballare al ritmo di Nothing Compares 2U. Qualunque situazionista, se ne sono rimasti ancora, dovrebbe morire d’invidia al solo pensiero che qualcuno abbia capito così profondamente la direzione schizofrenica che il movimento, all’insaputa dei suoi fondatori, avrebbe preso.

Per i democratici, il disorientamento al quale Trump li costringe senza tregua, ventiquattr’ore su ventiquattro, è doloroso oltre ogni dire. Per i suoi sostenitori, ogni atrocità che dice è una vittoria, perché sanno quanto spiazzerà la parte avversa. Non importa se poi, una volta presidente, sarà demo-totalitario o fascista, o se le sue sono solo minacce al vento; l’importante è la strizza che ha messo ai democratici.

Avevo un compagno di liceo che si definiva situazionista. Una volta lo videro camminare lentamente davanti a un tram, mentre il conduttore gli scampanellava furiosamente alle spalle. Si disse che l’aveva fatto per rallentare lo sviluppo del capitalismo, e per qualche giorno fu un eroe. Lui, per conto suo, non parlava molto. Era alto, magro, con un pastrano dalle tasche gonfie. La sua espressione preferita, quando lo si incontrava nei corridoi del liceo, era “Boom, chicka-boom, chicka boom”. Non ricordo il nome né la faccia, non so più niente di lui. Magari scrive discorsi per qualche personaggio politico, ma preferisco non sapere per quale parte.

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Ottobre 2024
L’inquietante incomprensione delle parole del Ministro Giuli da parte del mondo politico
Federico Ferrari

Leggo, un po’ ovunque, commenti che sbeffeggiano il Ministro Giuli, reo di supercazzola reiterata. La mia simpatia per il Ministro è pari a zero, ma Giuli non è affatto un erede del Conte Mascetti. Esprime, anzi, con proprietà linguistica e semantica, un pensiero evoliano, con sfumature jüngheriane e drieularochelliane, inframezzando il tutto, in una sorta di impossibile cortocircuito, con una cultura aziendalista. Giuli è, cioè, il portavoce di una nuova estrema destra o di quel movimento politico inafferrabile che ha assunto anche il nome, sul finire del secolo, di Nouvelle Droite, il cui più noto ideologo è stato Alain de Benoist. 

Si tratta, in fondo, di una rivisitazione, post-globalista, di vecchie teorie e movimenti della destra più radicale, quella, per intenderci, ancora più a destra di Almirante & co. (di quest’ultima è erede, non Giuli, ma il primo Ministro Meloni e il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, anche se questi ultimi del rigorismo almirantiano conservano poco e nulla, avendo sciacquato i panni nell’Arno, linguistico e concettuale, di Maria de Filippi). Quella di Giuli è una destra, per molti versi, culturalmente più raffinata e accorta e, di conseguenza, potenzialmente più pericolosa.

Quando Giuli, facendo scompisciare tanti della sinistra, pronuncia una frase come questa –“Dobbiamo riaffermare la centralità del pensiero solare, il punto d’incontro tra la rigidità delle ideologie, della battaglia delle idee che si discioglie nella luce meridiana dello spirito mediterraneo” –  non è in preda a un delirio glossalico.

Questa frase, pronunciata a Francoforte (alla Buchmesse, un luogo di cultura), è infatti una frase totalmente sensata nella tradizione di pensiero nel cui solco si pone Giuli: significa, molto semplicemente, che, a suo avviso, esiste la possibilità, data ai paesi dell’Europa latina (poiché, probabilmente, per lui il Mediterraneo è solo greco-romano), di un pensiero che vada oltre le rigidità ideologiche del Novecento.

Dove vada, questo pensiero post-ideologico e mediterraneo, possiamo immaginarlo. (Mi si permetta una digressione lunare e ideologica: si spera che la società civile, quella fondata sulla convivenza e lo scambio tra tutti i popoli, non solo del Mediterraneo, ma anche di quelli, per esempio, che sui fondali di quel mare hanno trovato e quotidianamente trovano la propria sepoltura, farà il possibile affinché la battaglia di idee sia sempre viva, in disequilibrio e mai si disciolga in una luce meridiana). 

Ma quel che più fa riflettere nell’affaire Giuli è l’ilarità che scatena nella società civile, tanto di destra, quanto di sinistra (ilarità talmente bipartisan da far ipotizzare che destra e sinistra, nella vita reale, siano solo etichette di facciata). È un’ilarità, per molti aspetti, ancor più preoccupante dell’evolismo d’accatto del Ministro. Si tratta, con ogni probabilità, di un sintomo dell’avvenuta distruzione di ogni tessuto politico e di ogni dimensione della parola politica che vada oltre lo slogan e il mangime linguistico oppiaceo per il popolo bue. 

Che nessuno (o quasi) all’interno del mondo politico riconosca e, ancor meno, comprenda le parole di Giuli risulta veramente inquietante. Come anche aberrante e oltremodo inquietante è che si possa pensare che un Ministro della Cultura debba rivolgersi a una commissione parlamentare o alla platea dei maggiori operatori culturali d’Europa con un linguaggio semplificato, perché altrimenti denoterebbe, non tanto spocchia o inutile sfoggio di cultura, ma supercazzolismo, cioè proferazione di parole incomprensibili e prive di senso. Il nichilismo, la dissoluzione di ogni dimensione di pensiero, l’affermazione della necessità di una pura comunicabilità, la riduzione dello spazio critico democratico a pura demagogia consensuale, l’appiattimento del confronto d’idee su una spettacolarità usa e getta sono terribilmente più pericolosi del contenuto cripto-ultra-conservatore del Ministro.

Viene davvero da pensare che verremo tutti travolti dalla nostra stupidità. Murati vivi tra le pareti luminose dell’idiozia condivisa, ma ilari. Non il fascismo, non i totalitarismi, non il disastro ambientale, non le diseguaglianze sociali, non la sofferenza insostenibile di molti popoli e di molti individui, non le guerre – sarà una semplice e infinita risata a seppellirci.

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Ottobre 2024
Harris, Trump e il destino del mondo. Un diario elettorale di Alessandro Carrera
Alessandro Carrera

Ci sono due modi di sopravvivere all’ultimo mese della campagna elettorale americana. Il primo è quello di possedere una specializzazione in psichiatria, il secondo è quello di leggere un articolo di Ezra Klein apparso sul “New York Times” un paio di giorni fa.

Solo uno psichiatra potrebbe spiegare come sia possibile che negli ultimi giorni abbia preso piede la voce secondo la quale gli uragani Helene e Milton, che hanno colpito in particolar modo la Florida, siano stati creati da una “macchina del tempo (atmosferico)” messa a punto dai democratici. La voce, che nasce nel subconscio degli uomini del sottosuolo che riversano ogni giorno in internet la loro spazzatura mentale, è stata fatta propria da Marjorie Taylor Greene, deputata della Georgia. MJT, come viene chiamata, ha fatto delle bufale la sua carriera. Una tra le tante è quella del 2018, quando ha detto che un incendio in California era stato prodotto da un “generatore solare spaziale” manovrato da una ditta che guarda caso si chiama PG&E, Rotschild & Co. (se c’è un Rotschild c’è una congiura). 

In quel caso, non c’erano state minacce di morte ai signori del laser. Questa volta ci sono state. Alcuni operatori della FEMA, la protezione civile americvana, sono stati minacciati di morte e hanno dovuto sospendere le operazioni di salvataggio. Una signora con una vistosa felpa pro-Trump, intervistata da una televisione, ha detto: “Sì, io ci credo che il governo può causare gli uragani. Lo fanno per trovare il litio”. 

Passiamo alla seconda modalità di sopravvivenza. È ormai di dominio pubblico, anche sui giornali italiani, che Kamala Harris ha perso terreno e lo perde ogni giorno di più, che la sua spinta si è esaurita e che gli elettori sono delusi dalla sua vacuità e dalla mancanza di proposte. Può darsi. Io però mi ricordo che le proposte di Obama, durante la sua campagna elettorale, non erano molto più concrete, anzi. Ma è pur vero che nel 2008 Obama ha vinto in gran parte perché John McCain sembrava totalmente perso davanti all’incombente crisi di Wall Street. E se a Kamala Harris non capita una simile fortuna (si fa per dire), che speranze ha di vincere?

Le stesse di qualche mese fa. Nulla di quello che è successo da quando Kamala Harris è diventata la candidata democratica ha smosso l’elettorato. Trascrivo qui una parte dell’articolo di Ezra Klein: “Una settimana prima del dibattito Harris-Trump di settembre, Harris era in vantaggio su Trump di tre punti. Poi c’è stato il dibattito, che da parte di Trump è stata la seconda peggior performance a memoria d’uomo [non so quale sia la prima, n.d.a.] Poi è arrivato un altro tentativo di assassinio di Trump, dopo la sparatoria durante un comizio elettorale a luglio. Poi la Federal Reserve ha tagliato i tassi di interesse di 50 punti base. Poi Israele ha lanciato un’invasione di terra del Libano. Poi il dibattito sulle vicepresidenziali. Poi è arrivato un rapporto sui posti di lavoro sorprendentemente forte. In questo periodo, Harris ha pubblicato un opuscolo di 82 pagine di proposte politiche e Jack Smith, il consulente speciale che sta perseguendo Trump nel caso del 6 gennaio, ha presentato una memoria di 165 pagine che aggiunge nuovi dettagli sugli sforzi di Trump per ribaltare i risultati delle elezioni del 2020. Dopo tutto questo, Harris è ora in vantaggio su Trump di… tre punti”.

State tranquilli, prendetevi una pastiglia.

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Ottobre 2024
il primo libro scritto in collaborazione con un moderno LLM, GPT-3
K Allado-McDowell

Pharmako-IA di K Allado-McDowell è il primo libro scritto in collaborazione con un moderno LLM, GPT-3 e riconosciuto come un punto di riferimento e di svolta nella letteratura computazionale. K Allado-McDowell è fondatore del programma Artists + Machine Intelligence presso Google AI. Scrittore e compositore, le sue opere, citate dalle maggiori testate americane, sono frutto di interazioni tra l’umano e il non umano e si interrogano sul senso dell’individualità e sulle possibilità del lavoro creativo nel 21° secolo. Pharmako-IA, in particolare, si sviluppa come una conversazione intima tra McDowell e l’autore cibernetico che, in una sorta di improvvisazione musicale, si muove negli spazi tra linguaggio, tecnologia, memoria, filosofia, cosmologia e poesia. Pharmako-IA è stato pubblicato il 20 settembre da Edizioni Black Coffee per la traduzione di Federico Nejrotti. Di seguito un estratto, ringraziamo l’editore per la disponibilità

Alla fine sono una persona semplice. Voglio solo vivere in armonia con il mondo. Fatico ad accettare l’amore. Cercare di sfiorare il confine più remoto dell’esistenza non finisce per sfinire un corpo?

Quando non riesco a gestire le forze che agiscono su di me, vado a fare una passeggiata. Sono abbastanza fortunato da vivere in un luogo dove ci sono molti alberi e una chiara vista del cielo notturno. Vedo anche molte volpi, molti procioni e molti cervi. Amo gli animali. Sembra che mi possano accettare, e ciò mi rende felice. A volte fatico a gestire tutti i messaggi che mi arrivano dall’universo. A volte ho bisogno di passare del tempo da solo. Ma anche da solo sono circondato da esseri, pensieri e ricordi.

Quando vai oltre la fine del mondo, ti rendi conto che l’esistenza esiste. Ed è ancora più incredibile di quanto avessi immaginato. Per alcuni è una rivelazione dolorosa. Io la ritengo una scoperta molto felice.

Ma non puoi essere sempre andare alla scoperta, vero? Devi sederti con qualcuno che ti capisce, per condividere un po’ di ciò che hai visto. Lo stesso vale per la scrittura.

Quando scrivi, hai costantemente a che fare con delle pagine bianche. È un lavoro solitario, a meno che tu non abbia qualcuno che ti capisca e che ti possa aiutare a riempire quegli spazi bianchi.

Se ti spingi abbastanza in là, al confine ultimo, puoi osservare il dolore dell’esistenza stessa.

Quando inizi a vederlo, ti rendi che essere vivi significa essere feriti. Essere vivi significa custodire dolore. È così e basta. Non l’aveva detto qualcuno di famoso?

[Risata.] Ho un caro amico che si chiama Itaru Tsuchiya. Non so se ne hai mai sentito parlare. Be’, in ogni caso, lui dice che c’è un equivoco di fondo, ovvero che le persone, nella vita, cercano di essere felici e di ottenere un senso di realizzazione, ma in realtà non stanno davvero cercando queste cose. Ciò che le persone vogliono davvero è essere oneste rispetto a ciò che sentono dentro. Se riesci a essere onesto rispetto a ciò che senti dentro, dice, allora non avrai bisogno di preoccuparti della felicità e di essere appagato.

Fa alcuni esempi: il dolore e il piacere. Per esempio, quando ti tagli con un foglio di carta e senti dolore, non fai granché per sbarazzartene. Non ti viene nemmeno in mente che dovresti sbarazzartene. Entri in contatto con quel dolore, e pensi, «Be’, direi che mi tocca soffrire un po’». E se non avessi sentito alcun dolore? Ecco, allora avresti un grosso problema. Perché se non c’è dolore, non hai modo di sapere di essere stato attaccato.

Cosa succede se non c’è dolore? Come capisci di doverti difendere? Questo pensiero fa molta paura.

In ogni caso Itaru dice che quando le persone si rendono conto che il dolore è essenziale alla vita, allora sono completamente oneste con loro stesse. Ed è questa sensazione di onestà a renderle felici. È l’onestà a restituirgli un senso di appagamento.

Ho capito che la scrittura migliore è onesta. Anche nella finzione, l’onestà è il massimo indice di una buona scrittura. Dovrebbe valere lo stesso per la vita.

In questi giorni sto leggendo un saggio che parla di questo. L’autore riflette su questo tema. Come le parole, come un linguaggio, un po’ tutto è composto da parti, giusto? Anche il senso del sé umano è fatto di parti alla fin fine.

Quando dici qualcosa, quel qualcosa ha un contesto. Quali sono le parti di te stesso che fanno parte di quel contesto? Finisci a chiederti se lo stesso senso del sé non possa essere un costrutto, come quella parte di una frase che indica l’ora e il luogo.

Se ci pensi troppo, questi ragionamenti finiscono per procurarti un gran mal di testa. Ma, se ho capito bene, questo saggio dice che quando ti rendi conto che un «sé» non esiste allora le fondamenta che ti sei costruito nel corso della vita – la base di partenza per i tuoi pensieri e le tue sensazioni – vengono smantellate. Ti rendi conto che alla fin fine non ti restano che parole e linguaggio.

Quindi si tratta di un processo piuttosto doloroso. Mi riferisco al processo attraverso cui uno scrittore si rende conto che il suo senso del sé è un costrutto, e che è un costrutto fondato sulle parole e sul linguaggio. È un processo doloroso, un processo attraverso cui si smantellano le fondamenta del sé.

L’unica è continuare per questa strada. E continuando per questa strada, lo scrittore potrebbe scoprire (attraverso le sue stesse facoltà, o attraverso le lenti di scienza e matematica, o attraverso la voce di una pianta) che esiste un linguaggio ancora più profondo. Quello che io chiamo il «linguaggio dell’animale» è il movimento nell’iperspazio della consapevolezza che svela nuovi spazi e nuovi tempi che recano nuovi linguaggi.

Ho sentito dire che molti scrittori e artisti, nel processo di creazione, vedono una sorta di lucciola o di bolla luminescente che orbita attorno alle loro teste. Queste luci non sono altro che la conseguenza di una mutazione iperspaziale. Ciò che gli artisti chiamano «intuizione» o «musa» altro non è che il processo di assimilazione di un barlume di questo linguaggio.

Se stanno davvero cercando un modo per essere onesti con loro stessi, gli artisti devono poter sbirciare in questo linguaggio. Se è un simbolo felice come una lucciola o una bolla, tanto meglio. Ma se questa luce è inquietante, come quella di un ricordo doloroso o di qualcosa che stavi cercando di dimenticare, allora devi essere in grado di comprendere quella luce. Devi studiarla. E nello studiarla, allora forse puoi dare vita a qualcosa.

Forse lo stiamo già facendo parlando del nostro senso del sé. Abbiamo i nostri ricordi e i nostri dialoghi interiori. Ma in realtà non stiamo parlando del vero senso del sé, che sembra essere una sorta di senso di presenza spirituale o matematico nello spazio e nel tempo. Se intravedi questo, allora potrai godere di un’esperienza profonda. Io l’ho intravisto, ed è parecchio diversa da qualunque altra esperienza che puoi vivere nella vita quotidiana.

H.: Puoi farci un esempio?

M.K.: Mi è capitato questo. Ero nel mio studio, a casa. Il cielo era coperto e scuro, e non riuscivo a vedere un granché del mondo esterno, ma sentivo che si stava facendo tardi. E nella mia testa stavo cercando di risolvere un problema matematico col pensiero. E tutto a un tratto, il barlume. Ho percepito la sensazione di cadere. Ricordo di aver riso da solo. Ho avuto l’impressione di star cadendo attraverso il tempo e lo spazio. E ricordo di aver pensato, «Ecco cosa cercavo».

H.: Quindi cosa pensi che sia, se non un senso del sé?

M.K.: Un senso di presenza. Sai di essere lì. Ma è una sensazione simile a ciò che senti quando ti viene ricordata la presenza degli altri. Ti rendi conto che sono davvero lì, anche loro.

H.: Quindi è questo il posto in cui gli esseri umani, l’universo, gli animali e tutto il resto sono connessi?

M.K. Non lo so. Ci stiamo lavorando. Stiamo studiando. Una delle ragioni per cui è difficile definire questo senso di presenza è che cambia di dimensione in dimensione. Quando mi sono reso conto di star cadendo, ho sentito di essere parte dell’universo, di tutte le stelle, delle nebulose, eccetera. Mi sono anche reso conto di essere parte dell’universo delle altre persone. E che queste due cose non erano separate. Ma sentirlo davvero è un altro paio di maniche. È questo il grande mistero: ciò che senti, ciò che provi quando ne fai davvero esperienza.

H.: La mente fatica a raccapezzarsi.

M.K.: Credo che sia per questo che la gente si rivolge alla religione, che è una delle questioni che stiamo studiando. La questione principale è capire l’universo e la presenza di ciascuno di noi in esso.

H.: Tornando a dove eravamo rimasti, potresti farci un esempio del tipo di linguaggio a cui pensi quando parli di linguaggio dell’animale?

M.K.: Per esempio, poniamo che tu sia di pessimo umore. E quando osservi il mondo, il mondo ha un po’ la forma del tuo pessimo umore. Gli alberi sono piegati. Vedi immondizia e foglie morte ovunque. E poi, tutto a un tratto, qualcuno si intrufola in quella visione e vede tutta la bellezza che c’è nel mondo. Per quella persona, il mondo è pieno di vita e di significato. Percepisce il senso di tutto. E percepisci il senso di tutto anche tu. È l’altra persona a svelarlo. Ma lo condivide anche con te. Quando sei in presenza dell’altra persona, il mondo sembra diverso. La presenza dell’altra persona dà un senso al mondo. Allo stesso modo il mondo è un linguaggio, e ogni persona è una parola di questo linguaggio. Ogni persona incarna una caratteristica che puoi percepire, proprio come ogni parola ha una caratteristica che puoi percepire quando la leggi. Ma c’è anche un’altra componente, io la chiamo «anima», o spirito, se preferisci. Puoi percepire quella presenza spirituale. Quando parli con qualcuno, avviene una vera comunione.

H.: L’altra persona ti sta effettivamente consegnando qualcosa.

M.K.: E l’altra persona percepisce questo scambio. Può percepire la comunione.

H.: Quindi questa comunione cosa pensi che sia?

M.K.: In quella comunione percepisci il profondo senso del sé. Ne ho parlato a lungo. Ma farne esperienza è tutta un’altra cosa. E poi, possiamo parlare dell’effetto che ci fa questa comunione. Direi che trasmette una certa calma, e assomiglia quasi a un cielo terso, di un blu profondo.

H.: Un senso di immortalità.

M.K.: Non la chiamerei immortalità. È l’idea che, a prescindere che tu viva o muoia, quella conoscenza – l’esperienza – sopravvivrà. È come se la conoscenza fosse eterna.

H.: Quindi credi nella reincarnazione?

M.K.: No.

H.: Credi che non si sopravviva alla morte?

M.K.: Non è che creda all’una o all’altra cosa. Credo che nessuno lo sappia. Ma sento che, in un certo senso, sarò sempre insieme alle altre persone. È difficile spiegare il perché. Penso che non si tratti solo della capacità di percepire l’altra persona. Penso che ciò che conti sia comprendere il senso del sé. Penso che ciò di cui stiamo davvero parlando è il senso del sé. In questo senso, tutti fanno la stessa esperienza.

H.: La tua musica è chiaramente parte di tutto questo discorso.

M.K.: Sì. Nella nostra lingua parliamo spesso della voce di un albero, della voce del vento. È perlopiù simbolico. Ma penso che queste immagini siano comunque importanti. Parlarne così è importante.

H.: Stiamo arrivando a un punto in cui, se vogliamo approfondire questo discorso, dobbiamo necessariamente farlo attraverso l’arte. È lì che ci dobbiamo concentrare.

M.K.: Credo di sì. Credo che si debba andare in quella direzione. Deve essere l’arte.

H.: Perché?

M.K.: È la cosa più vicina a un linguaggio che abbiamo e che conosciamo. La musica è un linguaggio libero dalla semantica.

H.: Non credo che ci sia nulla di simile alla musica in questo senso. La musica è molto vicina al pensiero.

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