Dicembre 2024

Plurifonie e godimento vocale. Una conversazione con Adriana Cavarero

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Nella sala Thierry Salmon dell’Arena del Sole di Bologna, la studiosa e curatrice di arti performative Piersandra Di Matteo, da anni interessata al rapporto tra scena contemporanea e ricerca vocale, incontra Adriana Cavarero, una delle più influenti interpreti del pensiero filosofico contemporaneo, capace di intrecciare teoria politica, pensiero femminista e filosofia della voce, fondatrice del Centro di Studi Politici “Hannah Arendt”.  

Con slancio e passione, Cavarero intreccia le sue riflessioni sul ruolo della voce come espressione incarnata della singolarità umana e della relazionalità, evidenziando come la vocalità, in particolare il canto corale, sveli nella “plurifonià” un potente strumento per un agire di concerto, come sintonizzazione delle singolarità sul fondamento dell’emozione. 

La conversazione ha avuto luogo a margine della lectio magistralis Potere e godimento della vocalità, tenuta all’Arena del Sole nell’ambito del ciclo Ecosistemi della complessità – PAROLA, curato da Enrico Pitozzi. 

Piersandra Di Matteo: La sua prospettiva filosofica sulla voce ha rivoluzionato gli studi sulla performance, riannodando il legame tra vocalità e incarnazione. E ha influenzato in modo radicale le pratiche artistiche. Criticando la tradizione logocentrica del pensiero occidentale, che ha privilegiato il logos attraverso un processo di devocalizzazione, la sua riflessione riposiziona la voce nel corpo, nella sua materialità pulsionale, nella logica dei sensi, riconoscendo valore all’unicità irriducibile e singolare di ogni soggetto. Vorrei partire da qui: dalla voce come marca del corporeo che rivela l’unicità in opera nella sfera relazionale…

Adriana Cavarero: La voce, in quanto suono e non parola, né semplice funzione della parola, trova nella sfera acustica il proprio spazio d’azione privilegiato. La tradizione filosofica, che le ha attribuito un ruolo strumentale, ha ignorato la voce proprio a causa della sua natura di emanazione corporea, effetto dei movimenti di laringe, polmoni, bocca… È necessario, invece, riconoscere a ogni voce la sua unicità incarnata, che può manifestarsi anche sul piano visivo ma si esprime principalmente attraverso il suono. L’immaginario occidentale, e con esso la tradizione del pensiero, fatica ad accettare l’irriducibilità della singolarità corporea, perché sfugge a categorizzazioni e logiche universalizzanti, resistendo alla disciplina e al controllo.

Un altro elemento cruciale nel processo di devocalizzazione del logos è certamente la dimensione relazionale della voce. Certo, si può cantare nel deserto, ma la voce, quando è ascoltata, convoca sempre un incontro che si inscrive in una fisicità condivisa. Chi fa teatro lo comprende profondamente: la performatività vocale coincide con una materialità fatta di vibrazioni, risonanze, riverberi tra i corpi. È, inoltre, essenziale evidenziare l’aspetto emozionale. L’emozione, insieme alle dimensioni affettive che si rivelano nel tono, nel colore e nelle inflessioni della voce, rappresenta un’ulteriore sfida per il pensiero filosofico, perché anch’essa è difficilmente contenibile entro parametri razionali e disciplinari.

PDM: Vorrei riflettere sulla capacità della phoné ditimbrare la lexis. Accade quando la vocalità, l’insieme delle attività e dei valori della voce indipendenti dal linguaggio, agiscono e modellano la scrittura con valori pulsionali. Ciò che mi interessa dell’uso della voce nelle pratiche performative di ieri e di oggi, è la capacità di contraddire il detto, di penetrare, bucare e far sgocciolare le parole, spingendo il linguaggio articolato verso un limite asintattico e agrammaticale che celebra la parola nel dire, nella materialità dell’emissione, nel suo corpo sonico…

AC: La voce risuona nella lingua, in tutte le lingue, in primis nella lingua di per sé. Prova ne è che riconosciamo le lingue straniere più dal suono che dalle parole. È un elemento perturbante che ci dice della dimensione particolare della lingua. Ogni lingua ha la sua musica, potremmo dire la sua canzone. Pensiamo all’italiano e ai suoi dialetti: ci sono tante lingue diverse in Italia, con le proprie canzoni, accenti e inflessioni. L’aspetto interessante è ciò che sfugge al controllo della macchina della significazione. Il fatto di non comprendere una parola è proprio ciò che potenzia al massimo grado la dimensione sonora e musicale della lingua. E come sappiamo, la voce che penetra il testo si manifesta nella poesia. Non c’è poesia senza voce. Se ogni lingua ha la sua canzone, ogni poesia è una canzone. Per essere poeti non basta scrivere e andare a capo, alludendo al verso. Senz’altro la poesia è una forma particolare di musicalità in cui agisce la vocalità. 

Global Climate Strike a Bologna (22 settembre 2023) Foto @Margherita Caprilli

Ma pensiamo all’Opera. Lì è esplicito il prevalere della vocalità sul contenuto delle parole. L’elemento sfidante sta nell’eccesso, nel godimento dell’eccesso che riguarda sia chi dà voce sia chi ascolta. C’è un legame etimologico tra “eccesso” e “accesso”: l’eccesso vocalico può essere inteso come l’accesso a una comunicazione non canonica, corporea, emotiva, trascinante. Non si tratta di raffinata filosofia, ma di riconoscere valore al realismo del nostro essere corpo. Qual è la sfida della grande vocalità operistica? È quella di eccedere il libretto: prenderlo, veicolarlo, ed eccederlo. Pensiamo alla famosa aria “Der Hölle Rache” della Regina della Notte del Flauto Magico di Mozart. Inizialmente si distinguono le parole, ma presto la vocalità, spinta ai suoi limiti estremi, si trasforma in puro vocalizzo. In Mozart riconosco una grandezza ma anche una crudeltà che si rivela nel risvolto del godimento della cantante ma anche del pubblico. Questo trionfo della vocalità sulla significazione si ritrova nelle opere di performer straordinari come Carmelo Bene, Demetrio Stratos o Cathy Berberian, dove la voce supera e talvolta contraddice il contenuto del discorso, come dicevi. La voce, con la sua carica affettiva, non solo attacca la significazione ma arriva persino a divorarne la forma.

PDM: Di recente mi sono occupata dell’interesse della scena contemporanea per la ventriloquia, impiegata come una peculiare tecnica vocale che, anche senza pupazzi, in chiasmo con la dimensione visiva, produce inganni acustici nel rilancio del suono altrove. È l’effetto della topologia paradossale di una voce pienamente corporea deviata da un parlante che nega l’affermazione “io parlo”. La voce non è qui il perno della prestazione scenica, parendosi a configurazioni che mettono in crisi la pertinenza univoca della pronuncia, restituendola come qualcosa che non è possibile intendere come propria. In questo quadro, è necessario porre l’accento anche sul corpo ventriloquizzato, la voce attribuita, incistata, l’azione coattiva del parlare “al posto di”…

AC: Ti rispondo con il Simposio di Platone. Questo dialogo è una drammatizzazione del pensiero, attraverso cui Platone presenta la sua teoria della filosofia. Lo fa costruendo un gioco a tre livelli di ventriloquia, che rappresenta l’aspetto più originale della sua dottrina: la teoria delle idee come percorso erotico verso la filosofia. Platone non esprime questa visione in prima persona. Affida il discorso a Socrate: il primo livello di ventriloquia. Attraverso la finzione della voce di Socrate, Platone comunica il suo pensiero. Ma Socrate, a sua volta, non dice ai compagni: “Ora vi spiego cosa sia la via erotica alla filosofia”; afferma di poter raccontare cosa sia l’amore e il filosofare a partire da quello che ha detto Diotima, sacerdotessa di Mantinea. È la voce di una donna a incarnare il terzo livello di ventriloquia. 

Platone era un genio teatrale. Il Simposio non è un’opera teatrale, ma se lo si mettesse in scena ci sarebbe un quarto livello. Questi quattro veicoli, che sono anche quattro passaggi, sono di fatto quattro livelli di spersonalizzazione. L’origine di questo gioco risiede nella figura della pizia, che, invasata da fumi mefitici attraverso l’orifizio vaginale e la bocca, dà espressione alla voce del Dio. È facile pensare che fosse il Dio a parlare, ma ciò che resta ineludibile è che questa voce transita inevitabilmente attraverso il corpo, un corpo femminile, ed è manifestazione tangibile di quella unicità.

PDM: In questo momento sto nutrendo un passaggio concettuale dalla voce all’ascolto. Negli anni recenti, le pratiche performative hanno rivelato un interesse crescente per l’ascolto, come istanza critica e creativa dotata di propria agency. È un ascolto che si rivela nell’interfaccia tra i livelli profondi della percezione intercorporea (inner sound) e quelli panoramici del mondo esterno (soundscape). Mi interessa esaminare le condizioni materiali, istituzionali e sociali che plasmano le condizioni dell’ascolto, spingendosi oltre il suono e la fisiologia dell’orecchio. Si tratta di pensare la sfera acustica come un campo relazionale, tattile e affettivo, oltre l’udibile; un’energia multimodale e incarnata che, sorpassato l’approccio cocleare, si rivela plasma di intra-azioni, medium intercorporeo che alimenta sintonizzazioni consonanti/dissonanti, terreno di identificazioni basate sulla risonanza, ritmi comunitari tra e attraverso i corpi. Cosa pensa di una concezione dell’ascolto in questi termini?

AC: Capisco molto bene quello che intendi per un ascolto oltre l’udibile, inteso come un’esperienza sensibile che opera attraverso la dimensione vibrazionale, il coinvolgimento del corpo, del torace, della pelle, e non solo dell’orecchio. In questa prospettiva, mi sono occupata della sonorità delle piazze. Potremmo chiamarla “musica della democrazia”, per fare una formuletta. Ma non basta guardare alla fenomenologia materiale della piazza, per parlare di democrazia.

Manifestazione Nazionale NUDM (Roma, 25 novembre 2023) Foto @Margherita Caprilli

PDM: È l’alleanza dei corpi che si radunano e s’intonano, attivano dinamiche di sintonizzazione in quanto pluralità interagente, complicità che riverberano…

AC: Sì, esatto. Parlare assieme, cantare insieme. Mi riferisco a quando il soggetto collettivo entra e opera nello spazio pubblico. Ho affrontato questa problematica dalla prospettiva dell’elemento reciproco dell’emettere e dell’ascoltare. È una relazionalità diffusa, sonora e acustica, un luogo segnato da un’intensa emotività che parla di comunità, che preferisco definire pluralità. Ho distinto tra la voce della massa, un conglomerato indifferenziato di individui che si fondono in un sol corpo, e la voce della pluralità, che in chiave arendtiana, si riferisce a una voce che non agglutina gli individui ma esalta l’unità incarnata di coloro che la compongono. Parlo di “democrazia sorgiva” quando è incarnata da voci uniche che recitano coralmente, dov’è in gioco cacofonia, armonia, un brusio, possiamo dire con Barthes. Una plurifonia, appunto. 

Nella fonosfera della massa, il canto è una delle espressioni più tipiche e coinvolgenti.  Pensiamo alla simultaneità di voce e gesto nell’estetica fascista, dove gli individui si fondono in una voce deindividualizzata che ingloba il singolo in una dimensione intrisa di valori arcani, sinistri, e non per questo meno seducenti nella loro terribile ambiguità. Nella fenomenologia del totalitarismo la sonorità della piazza mette in gioco la performatività dell’essere uno, un sangue, un corpo. Poi ci sono piazze diverse, penso alle piazze femministe perché questa è la mia esperienza. Dove c’è lo stare assieme, laddove l’ascolto implica il riconoscimento della pluralità, della differenza, delle differenze che sottraggono l’agire politico alla morsa di dinamiche spersonalizzanti e fusionali. 

PDM: È uno stare insieme, una prossimità dei corpi, che si è allenato nel riverbero complice tra voce-ascolto nella pratica dell’autocoscienza…

AC: Assolutamente. Ma vorrei tornare alla questione che ponevi sull’ascolto. Ho la sensazione che sto facendo un percorso inverso al tuo. Da tempo studio il mito delle sirene, la sua ricezione. È un vecchio interesse che sto approfondendo, nella letteratura e nella storia della filosofia, a partire da Omero, ma dialogando anche con Kafka, Adorno, Saramago. Tutta una continua elaborazione del mito con diverse versioni che prendono le mosse da un nucleo irriducibile. L’episodio delle Sirene è sempre stato visto e analizzato dalla prospettiva dell’ascoltatore: Ulisse, il protagonista del mito, che ascolta senza morire per via di un trucco della ragione. Si narra spesso dei poveri marinai che hanno ascoltato e, sedotti, giacciono esangui sugli scogli. Trovo interessante capovolgere il plot del mito e raccontarlo dal punto di vista del godimento delle Sirene a partire dall’emissione polifonica, che preferisco definire “plurifonica”. Con questo neologismo pongo l’accento sulla pluralità sincronica di voci distinte, un insieme di singolarità che cantano per il proprio godimento collettivo. 

Manifestazione per Giulia Cecchettin – NUDM (Bologna 22 -11 – 2023) Foto Margherita Caprilli.

C’è un verso in una poesia di Eliot, pubblicata in Collected Poems del 1963, che recita: “I have heard the mermaids singing, each to each. / I do not think that they will sing to me”. In italiano suona: “Ho sentito cantare le sirene l’una all’altra ./ Non credo che canteranno per me”. Non mi interessa approfondire cosa intenda esattamente Eliot in questo passaggio; preferisco concentrarmi su ciò che emerge dalla lettura. È istruttivo affrontarlo con uno sguardo ingenuo: il testo sembra suggerire che l’intera trama, il piacere e il significato del racconto risiedano nel fatto che le Sirene cantano insieme, l’una per l’altra, attraverso il loro narrare. Sorprendentemente, il loro canto non è rivolto a Ulisse né ai marinai. Ulisse, simbolo di astuzia e razionalità, sfida le Sirene trovando l’inganno per ascoltarle senza perire. Le Sirene rappresentano l’animalità, sono esseri ibridi, metà uccello e metà donna. Con l’evolversi del mito – ad esempio in Andersen, nella cui versione viene loro cavata la voce, fino alle reinterpretazioni di Disney – le Sirene si trasformano in creature metà donna e metà pesce, assumendo i tratti di un ideale desiderio maschile: un corpo molle, iridescente. Il mio interesse sta nel ribaltare questa dinamica di oggettificazione in soggettivazione, in un processo che, attraverso il “cantare insieme”, pone valore all’esperienza del godimento condiviso. Non solo nel senso fisico del canto, nella vibrazione della gola, ma nel piacere di creare un’armonia collettiva, una plurifonia, appunto.

[Ringraziamo Margherita Caprilli per la concessione delle immagini]