Cristian Raimo è stato sospeso dall’insegnamento per tre mesi, con una decurtazione del 50% dello stipendio. L’impiego, nel corso di una festa di partito, di una citazione cinematografica dal nome evocativo (la “Morte Nera”), di verbi (“colpire”, per esempio) e aggettivi (tra cui, “lurido” e “cialtrone(sco)”) riferiti ai contenuti abitualmente espressi da un soggetto che è incarnazione sia di un ruolo pubblico sia di un’individualità, come nel caso del Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, gli è valso – nel quadro di un particolare contesto politico, giuridico e culturale – la misura disciplinare menzionata sopra.
Le reazioni immediate dell’area di governo alle parole del docente e le istanze punitive che le ha contraddistinte sono state prontamente recepite dall’Ufficio Scolastico Regionale del Lazio. che ha avviato il procedimento approdato alla sospensione del dipendente. Il Ministro interessato ha commentato osservando che: “”Io ho un milione e 200mila dipendenti, figuriamoci se mi devo occupare di tutti i procedimenti disciplinari che sono tanti. È un problema dell’Ufficio scolastico regionale del Lazio, non mi occupo di queste cose”.
Le reazioni politiche e sindacali sono state immediate e si incentrano essenzialmente sull’impiego politico di misure amministrative. Ovvero sulla negazione di fatto della libertà di pensiero ed espressione della critica. Un tratto che appare proprio di questa particolare vicenda, ma che è virtualmente applicabile a chiunque nel quadro di un preciso modo di configurare il rapporto di fedeltà dei dipendenti pubblici con le proprie amministrazioni (ciò che nel caso della scuola, è prescritto dall’articolo 13 del Codice di comportamento dei dipendenti del Ministero dell’istruzione).
Com’è tipico degli episodi eclatanti di “censura”, questa vicenda presenta piani di lettura di ordine politico, giuridico e culturale. Inoltre se è possibile personalizzare la questione incentrandosi sulle particolari identità dell’“offensore” (Raimo) e dell’“offeso” (Valditara), è ugualmente necessario osservare la struttura, le funzioni astratte svolte dai soggetti coinvolti e le possibilità di applicazione analogica dei ragionamenti che compongono tanto la misura amministrativa adottata quanto le reazioni degli attori pubblici (dai singoli politici ai partiti di ogni orientamento, passando per la società civile e i dirigenti delle amministrazioni). È chiaro infatti che la vicenda è esemplare, replicabile e che è politica non tanto perché attenga a un caso particolare, ma perché è parte di un preciso modo di governare i rapporti sociali. Inoltre è il frutto di una serie di trasformazioni sia culturali sia politiche che caratterizzano da decenni la storia nazionale, senza per questo essere indipendenti dalle dinamiche globali che caratterizzano questi stessi ambiti.
La prima ovvia trasformazione attiene all’aziendalizzazione del settore pubblico. Ciò non soltanto nel senso dell’ormai comune adozione di procedure volte a misurare e incrementare le prestazioni individuali o organizzative; ma anche in quello di una depoliticizzazione dei ruoli e delle funzioni pubbliche. Non è un caso che il Ministro dell’Istruzione, chiamato a commentare la sanzione somministrata al docente, possa rispondere osservando che: “io ho un milione e duecentomila dipendenti… è un problema dell’Ufficio Scolastico Regionale del Lazio non mi occupo di queste cose”.
Il tono della risposta è appropriato nella misura in cui mette in scena un disinteresse personale e politico verso l’aggressore (quella terzietà rispetto ai fatti e alle persone che è propria dell’agire burocratico), ma rammenta contemporaneamente quella del delegato amministrativo di una grandissima impresa che ha (in quanto persona) un certo numero di dipendenti.
Nel disinteresse esibito verso l’altra persona coinvolta nel conflitto (che egli stesso aveva riconosciuto a caldo come interlocutore e nei confronti del quale auspicava una risposta istituzionale adeguata) c’è dunque sia la possibilità di fare mostra di stare esercitando una mera e impersonale gestione dei grandi flussi, sia quella di sottrarsi a un dialogo a distanza con la controparte (Raimo). Ossia vi è, come si è già detto, la depoliticizzazione di un provvedimento, che viene fatto passare per tecnico e amministrativo: per l’appunto, un fatto di gestione di una vicenda di indisciplina e nulla più.
A contraddire parzialmente l’enunciato, però, c’è quella personalizzazione del ruolo espressa dalla coniugazione del verbo avere (“ho un milione e duecentomila dipendenti”), che svela in realtà un rapporto comprensibilmente molto personalistico col ruolo e che suggerisce necessariamente una visione complessiva delle cose, specialmente quando queste non sono realmente minute (come nel caso dello scontro con un noto intellettuale).
In tale quadro opporsi a un critico rifiutando di adottare una pratica dialettica e delegando invece al ramo tecnico dell’amministrazione il compito di risolvere autoritariamente uno scontro in atto, è contemporaneamente tanto un’opzione politica (essenzialmente autoritaria) quanto un modo di disconoscimento dell’oppositore (ossia un corso simbolico di azione). Ma anche una possibilità tecnicamente possibile, in ragione di sentenze della Cassazione che, a partire quantomeno dal 2007, sanciscono sostanzialmente che il parlare male del datore di lavoro implica “potenzialità negativa sul futuro adempimento degli obblighi del dipendente”, aprendo così la possibilità a differenti sanzioni che includono anche il licenziamento. Da sottolineare come questo genere di sentenze siano state applicate non solo a dipendenti privati, ma anche a quelli pubblici.
Ne deriva che senza una serie precedente di mutamenti tecnici e ideologici che trasformano il senso del lavoro pubblico, oppure che rinforzano principi in fondo già esistenti e latenti nell’ordinamento, le risposte apparentemente impolitiche sarebbero state meno praticabili. O, forse, sarebbero state sostanzialmente impraticabili dentro la particolare cornice di cui discutiamo: quella di una critica politica che avviene in un contesto politico (una manifestazione di partito) che, come tale, è distinto da quello professionale. Un piano professionale, tuttavia, che viene implicato proprio per impartire una sanzione che atterrebbe invece a quello politico.
Un altro aspetto della vicenda è che dietro misure di questo tipo si rinviene l’idea che il ruolo segua le persone e che i distaccamenti occasionali da esso non siano consentiti. Nell’epoca delle identità “post-convenzionali”, in cui solo raramente un attaccamento totalizzante al ruolo è praticato spontaneamente da chi lo rivesta, questo è curioso. In fondo, proprio a partire dai ruoli politici, i detentori di cariche possono essere sboccati, possono mimare atti sessuali brandendo un microfono, fare le corna nelle foto ufficiali con i colleghi, ritrarsi seduti in un gabinetto e molto altro. Allo stesso modo si può essere avvocati e musicisti, giudici e scrittori e via dicendo con le possibilità. Alla luce di questa occorrenza e, insieme, delle disuguaglianze implicite nel differente grado con cui è accordato ad alcuni di distaccarsi vistosamente dal ruolo, si può anche dire che sentenze, trasformazioni ideologiche e azioni amministrative certificano la natura diseguale e arbitraria dei sistemi di regolazione, così come delle facoltà connesse ai differenti ruoli.
Poiché ci si muove entro un sistema arbitrario, in circostanze tra loro analoghe tutti i ruoli sarebbero potenzialmente esposti ai medesimi rischi. Tuttavia è vero che alcune attività sono più a rischio di altre. L’ambito dell’istruzione è una di quelle particolarmente esposte. Ciò avviene perché, già sul piano del senso comune, questo settore è connesso al tema della riproduzione sociale (ossia del formare generazioni moralmente sane) e perché vi è l’idea che l’esemplarità sia d’obbligo per chi entri in contatto con delle “spugne” quali sarebbero i giovani.
Semplificando di molto, anche in questa rappresentazione del rapporto tra adulti e giovani è possibile intravedere l’importanza di una visione “pedagogica” attraversata da presupposti gerarchici. Si tratta di quei presupposti che postulano l’incapacità giovanile di distinguere i comportamenti e di dipendere dunque dall’esemplarità degli adulti. Quegli stessi adulti che costituiscono da molti secoli – ossia a partire dal processo di formazione di un sistema sociale che prelude al contemporaneo e all’emersione di psicologie connesse – tanto il terreno dell’imitazione quanto del conflitto e del distacco (gli stessi atteggiamenti che nel caso italiano hanno partorito una conflittualità sociale significativa, divenuta chiarissima negli anni Settanta del secolo scorso).
Verosimilmente è proprio in ragione di tali conflitti e distacchi che nel corso degli ultimi decenni la reazione congiunta dei dispositivi istituzionali ha proceduto a riconfigurare la propria immaginazione dei giovani e dei ruoli connessi alla loro formazione. Estendendo di conseguenza l’insieme degli obblighi a cui sono sottoposti i docenti.
Nei fatti questa visione gerarchica e pedagogica è contraddittoria. Per esempio da un lato infantilizza i giovani a lungo; dall’altro si traduce in dispositivi complessi di attivazione precoce nel mondo del lavoro (si pensi agli obblighi di tirocini) o in forme diffuse di patologizzazione (la significatività statistica delle sindromi comportamentali o d’apprendimento tra gli studenti).
Inoltre agisce anche come una giustificazione per neutralizzare la critica politica, il non-conformismo o il radicalismo intellettuale. In ragione di questa logica chi è un insegnante dovrebbe per esempio esimersi dall’adozione di un linguaggio polemico e anche lontanamente allusivo alla violenza. La polemica aspra nei confronti dell’autorità – sembrerebbe dirsi – non è un atteggiamento che si adatti alle responsabilità di chi si occupa dei giovani. Il rischio, infatti, sarebbe quello di dare legittimità alle naturali spinte centrifughe di giovani menti in formazione e, perciò, a loro modo anche labili.
In tale quadro, tuttavia, è altrettanto interessante l’appropriazione che questo mondo, essenzialmente reazionario e latamente incentrato nella ricostituzione di un ordine piccolo-borghese che rammenta molto da vicino i valori deamicisiani di Cuore, fa delle politiche del linguaggio. Attenti a ogni sfumatura, i politici di destra impegnati a commentare le parole del prof. Raimo, vedono per esempio come la critica all’“abilismo” delle politiche del Ministro siano contraddette dai riferimenti a una debolezza del Ministro stesso.
Ribaltano cioè su Raimo una serie di coazioni decostruttiviste che sono state tipiche del modo di procedere della cultura progressista applicata al linguaggio. Non importa che gli esiti possano essere assurdi (come nel caso di chi sostiene di comprendere, che poiché Valditara sarebbe debole, Raimo allora intenda allora colpirlo come un bullo). Nel compiere queste operazioni la nuova cultura di destra mostra che certe tecniche su cui ha fatto molto affidamento la sinistra radicale degli ultimi decenni sono in fondo neutre e, come tali, si prestano a essere impiegate da differenti attori per svolgere compiti diversi. E anche come tali tecniche siano in fondo essenzialmente cosmetiche, fornendo solo una base superficiale applicabile su strutture – ossia dispositivi tecnici e istituzionali – che possono servire benissimo le istanze autoritarie. E che, anzi, sembrano servire queste anche meglio che le altre.
In tal senso la vicenda di cui discutiamo mostra anche come alla formazione di un determinato ordine abbiano inavvertitamente concorso una pluralità di forze sociali e che, per quanto la fase sia prevalentemente reazionaria, essa sia in realtà ibrida. Ossia generata col differente concorso di forze sociali apparentemente schierate nella difesa di valori diversi eppure stranamente compatibili per alcuni aspetti, a partire dalla funzione meramente estetica di parole, atteggiamenti e metodi.
In un quadro che è oggettivamente dominato da forze che amano ritrarsi come primariamente tecnocratiche, oppure politiche nel senso di essere interessate unicamente alla difesa di valori “naturali”, quale spazio rimane per le classiche manifestazioni di presenza intellettuale? Cosa rimane della libertà di parola e dell’uguaglianza? Verosimilmente poco. Giusto il diritto alla parresia, col suo eterno corollario di morte (se non altro simbolica. Una “morte” fatta di allontanamenti, decurtazioni di stipendi e intaccamento di risparmi).
Si tratta allora di mettere in piedi uno strumentario della critica politica che sia adatta ai tempi. Insomma si tratta di pensare – e praticare – una nuova arte del parlare male del potere. Un’“arte”, dunque, che non si limiti a essere estetica, ma egemonica. Che possa insinuarsi e circolare, senza però generare nuove crocifissioni pubbliche. Si tratta, insomma, di riprendere seriamente in mano il tema della cultura e della critica in un’età autoritaria. E di farlo sfuggendo alle tentazioni testimoniali. Se non altro perché – proprio come in età passate – a mancare è un pubblico ampio e sensibile al sacrificio, oltre che alla parola, degli intellettuali.