Gennaio 2025

Riappropriarsi dell’inappropriabile

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Cos’hanno in comune Carmelo Bene e Alberto Grifi, Giuliano Scabia e Leo De Beradinis, Aldo Braibanti e Luigi Nono? Per quanto possano suonare come nomi ormai affidati alla storia, per quanto recente, e allo studio documentale più tradizionale, questi protagonisti della sperimentazione performativa tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento sembrano parlarci con una sconcertante urgenza e attualità.

Lo fanno – un po’ medianicamente – attraverso un libro, Inappropriabili. Relazioni, opere e lotte nelle arti performative in Italia (1959/1979), eccellente esito di un progetto di ricerca e firmato da Annalisa Sacchi.

Come ben sa chi ha l’onere e l’onore di provare a trasmettere a nuove generazioni la ricchezza dirompente di alcune delle più luminose esperienze creative di quegli anni (e anche di una buona decina di quelli dopo, direi), è sempre un po’ frustrante provare a fare atterrare con la meritata vivacità in un mondo iperconnesso e iperdocumentato una storia sorretta principalmente da fonti secondarie e già mediate dallo sguardo critico di allora o degli anni successivi.

Sacchi qui agisce in modo originale e efficacissimo, grazie a un lavoro di archivio in cui l’affresco viene completato dai corpi e le voci stesse delle protagoniste e protagonisti che si intrecciano costruendo una rete di vicende appassionanti, tra coraggio e impegno, visionarietà e poesia.

Basti pensare che il libro si apre con i giovanissimi Carmelo Bene e Alberto Ruggiero che tendono fuori del Teatro La Fenice di Venezia  una sorta di imboscata a Albert Camus, nell’intento di convincerlo a cedere i diritti di Caligola.

Da qui, come in un romanzo a più voci, entrano e escono le insopprimibili tensioni poetiche di Nono, di Scabia, di Patrizia Vicinelli, di Leo e Perla e il loro percorso di volontario isolamento, in una geografia del performativo che abbraccia pratiche anche molto differenti in nome di una militanza che riflette sul presente, a volte anche con irruenza, e che sembra aprirsi anche a temi che, a distanza di 50 anni, vengono a volte presentati come recente attualità.

E se, con la felice scelta lessicale del titolo, Sacchi definisce queste esperienze “inappropriabili”, è come se fosse un invito sottile a appropriarsene quanto più possibile, non tanto nella reviviscenza un po’ spettrale di quelle pratiche, quanto nella possibilità di immaginare altre alleanze e relazioni per i corpi e il tempo e gli spazi che sono invitati a abitare.  

In questa prospettiva merita una segnalazione, What Can Theatre Do, volume curato da Silvia Bottiroli e Miguel A. Melgares e che esplora in modo originale la stessa idea di libro come dispositivo performativo che, raccogliendo saggi, testi drammaturgici, scambi social e molti altri materiali eterogenei, prova a creare uno spazio ibrido tra realtà e finzione di stimolante fluidità.

Al di là del fascino del format, infatti (con lo stesso indice che suggerisce suddivisioni variabili tra gli interventi), nel rigore total black del concept immaginato dall’editore bruno, troviamo diversi interventi interessanti, a partire proprio da quello sugli archivi scritto dalla stessa Annalisa Sacchi con Ilaria Caleo. Due libri preziosi e da mettere in dialogo.