“La mia memoria, signore, è come uno scarico di immondizie” dice Ireneo Funes, protagonista del lucente ed omonimo racconto di Borges. Funes ha l’incredibile capacità di ricordare ogni dettaglio, ogni crine della criniera del cavallo, ogni bolla della spuma del mare. Eppure, quella memoria diventa la sua condanna, lo paralizza e lo blocca. Per Borges quell’atto di perenne ricordo rappresenta l’obbligo a dover ininterrottamente pensare e ripensare, senza trovare la pace dell’oblio. Tale maledizione del ricordo viene ripresa anche da Elias Canetti, ne “La tortura delle mosche” in cui identifica tre gradi di disperazione: “Non ricordarsi di nulla, ricordare qualcosa, ricordare tutto”. Per Canetti accumuliamo in ogni vita i debiti di molte esistenze, e scegliamo a quali attingere sulla base di un’unica tonalità emotiva: la gratitudine o l’amarezza, la nostalgia o l’odio.
In un tempo in cui si tende proprio a non ricordarsi di nulla, soprattutto del passato prossimo più tragico e doloroso, a queste parole ho pensato spesso, soprattutto nell’ultimo mese, dopo la scomparsa di Licia Rognini Pinelli, forse una delle persone che più ha saputo fare dell’esercizio della memoria una missione di vita, rendendo la storia privata quasi soltanto (non) sua, quindi politica. A queste parole penso soprattutto oggi, a 55 anni dalla strage di Piazza Fontana, avvenuta il 12 Dicembre 1969.
La longevità di Licia Pinelli ha reso la sua battaglia di verità e giustizia per la morte del marito Pino vitalizia, un lavoro politico che è proseguito per decenni. Tuttavia, quel tempo di vita così largo non è stato comunque sufficiente per vedere affermato (sia in sede giudiziaria, che come memoria condivisa) ciò che lei ha sostenuto sempre: Pino non si è ucciso. Una certezza ormai di senso comune che non ha avuto riscontri processuali. Un nodo nevralgico proprio perché nella simulazione e nei depistaggi della sua morte si trovavano annidate le vere cause della bomba alla Banca dell’Agricoltura.
A differenza dell’elenco di Canetti, nei molti ricordi evocati al suo funerale, c’è una tonalità emotiva che ricorre per descriverla sempre: la fermezza. Si tratta di un sentimento necessario per resistere alle temperie politiche, alle strumentalizzazioni e alle fatiche del tempo materiale; alla difficoltà di reperire testimoni, parti attive, pezzi della storia.
Licia Pinelli solo nel 2009, a 40 anni dalla strage, è stata riconosciuta come “vittima” del terrorismo e invitata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alla giornata della memoria. In quell’occasione, il presidente definì il marito Pino “vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti, e poi di un’improvvisa, assurda fine”.
Una delle ragioni di questa permanenza vittimaria sta nel fatto -ricordato in occasione della morte di Licia dal giudice Guido Salvini- che in questi anni non si è mai celebrato un processo per le responsabilità della morte di suo marito. E finché non c’è giustizia, la vita non può ripartire, si rimane potenziali parti processuali. La verifica giuridica dei fatti è tanto più necessaria laddove lo Stato ha avuto una parte attiva negli eventi. La riflessività delle istituzioni sulle proprie colpe e responsabilità sono alcuni dei cardini propri dei sistemi democratici, laddove compiono delle falle, e nei casi in cui chi dovrebbe proteggere i cittadini ne diventa abusante.
La storia e la memoria nascono dalla stessa urgenza e sono indirizzate allo stesso fine, ossia elaborare il passato. Come scrivono alcuni storici, questi due movimenti non sono alternativi, bensì gerarchici. Se la memoria è una sorta di matrice, la storia è una scienza, un’arte, che cerca di trovare le risposte alle domande poste dalla memoria e prendendone le distanze. Questo vale per la maggior parte degli eventi, ma in qualche modo il meccanismo si inceppa nel momento in cui il legame con la memoria è vivo, ha capacità performativa nel presente, non può essere storicizzato. Finché la memoria è trauma, non può esserci né storia né pacificazione.
Un meccanismo che vale per i lutti privati, ma a maggior ragione per i traumi collettivi e politici, come è stato evidente in questi mesi di conflitti in Medio Oriente.
Sarebbe irrispettoso citare, come fatto fino ad ora, solo la diciottesima e “conseguente” vittima della strage di Piazza Fontana, senza richiamare i morti e gli ottantotto feriti che hanno subito l’esplosione alla Banca dell’Agricoltura, a cui va il cordoglio e il doveroso esercizio di memoria. Andrebbero sempre evocati tutti come alle commemorazioni delle 16.37; come fa Pier Paolo Pasolini in Patmos, in cui ogni nome, ogni storia è seguita dall’inciso: “Presente!”. Il poeta sceglie l’isola che ospita la grotta dell’Apocalisse, incastonata nel crostone di roccia che sorregge la chora bianchissima per parlare del centro di Milano, di quella piazza nascosta all’ombra del Duomo. Nel poema, Pasolini prende le distanze dal dolore della cronaca e della prossimità, per interrogare, da subito, la storia: “la porta della storia è una Porta Stretta/ infilarsi dentro costa una spaventosa fatica/ c’è chi rinuncia e dà in giro il culo/ e chi non ci rinuncia, ma male, e tira fuori il cric dal portabagagli, /e chi vuole entrarci a tutti i costi, a gomitate ma con dignità”. Giorgio Boatti ha usato la felice espressione “giorno dell’innocenza perduta”, ma sono state molte le cose e le questioni smarrite in questi 55 anni. Boatti ci parla di un’innocenza che “riguarda chi, il giorno dei funerali, stava dalla parte delle vittime della strage. E assisteva sgomento, nei giorni e nei mesi successivi, alle menzogne sistematiche, ai depistaggi e alle inchieste deviate”. Il rifuggire da una verità processuale ha -infatti- prodotto nuovi traumi che richiedono forme di ricomposizione sociale e politica.
Dello stesso avviso era Franco Fortini, che nella sua cronaca dei funerali di Pinelli scriveva: “Non so come ma ho la certezza che con la strage di pochi giorni fa, l’orrendo coro dei giornali e questo assassinio del Pinelli, è davvero finita un’età, cominciata ai primi del decennio. È possibile il silenzio degli uomini dell’opinione, i difensori dello stato di diritto? Sì, è possibile. La paura è veloce”.
Mai come in questo secolo, mai come negli ultimi mesi, storia e memoria sono state evocate e intrecciate alle forme e alle strutture della giustizia, ma anche altrettanto silenziate, spesso proprio in quelle aule di tribunale. Eppure una ricostruzione non lontana da quanto raggiunto in questi ultimi 55 anni era già stata prodotta in tempi rapidi, nel giugno del 1970. Strage di Stato, un volume di controinchiesta identificava i neofascisti come autori della strage di Piazza Fontana e gli uomini dello Stato come mandanti. Si trattava di un lavoro attento di controinformazione, frutto di una collaborazione tra militanti, sindacalisti, accademici, magistrati e giornalisti. Questi autori furono i primi a indagare il coinvolgimento dell’estrema destra nella strage della Banca dell’Agricoltura, influenzando il dibattito pubblico dell’epoca e introducendo il termine “strage di Stato”, che sarebbe diventato un riferimento importante nei decenni successivi. Quella verità, subito diffusa, non poteva trovare -allora- una legittimazione istituzionale, e fatica ancora oggi a farsi spazio (ahimè, tanto giuridico quanto politico).
Le strutture amministrative si sono arenate molte volte nel tentativo di ricostruire le vicende, per lungo tempo coperte dal c.d. “segreto funzionale”, e quindi, come tali, non accessibili. Un segreto che per lungo tempo era apparso come “necessario”, per preservare la tenuta dello Stato, evitare l’esarcebarsi del conflitto sociale. Un’urgenza che a distanza di cinquantacinque anni non sembra più così stringente. Abbiamo assistito ad un patto di oblio che ha permesso in questi anni non solo di contenere l’uso pubblico della storia, ma anche di conservare l’esercizio del potere. Come ha scritto Elias Canetti, “Il segreto sta nel nucleo più interno del potere. Il potente che si serve del proprio segreto lo conosce con esattezza, e sa bene apprezzarne l’importanza nelle varie circostanze. […] Egli ha molti segreti, poiché vuole molto, e li combina in un sistema entro il quale si preservano a vicenda. Un segreto confida a questo un altro a quello, e fa in modo che i singoli depositari di segreti non possano unirsi fra loro. Chiunque sappia qualcosa viene controllato da un altro, il quale però ignora quale sia in realtà il segreto del sorvegliato”.
Mentre lo spazio per accedere a quei segreti (ora che sono quasi tutti morti) sembra ipoteticamente aprirsi, allo stesso modo la stanchezza di questi cinquantacinque anni inizia a farsi sentire. Non solo non sembra più centrale far chiarezza, ma spesso sembra faticoso ricordare. Chi va in piazza il 12 dicembre, il 2 agosto, il 28 maggio? Perché ci va ancora? Per la memoria di ieri o per la domanda di giustizia dell’oggi?
I risultati di decenni di inchieste giudiziarie e processi per le stragi e i tentativi di colpo di Stato si sono conclusi con la mancata individuazione dei colpevoli, fatta eccezione per tre casi (Peteano, Questura di Milano e, in tempi più recenti, piazza della Loggia), senza comunque parlare dei mandanti. Questo ha determinato la disallineata sovrapposizione tra verità storica e verità giudiziaria e ha legittimato la nascita e il consolidamento di un senso comune che potremmo definire “confuso”.
Un senso comune che si è costruito su tanti pregevoli lavori di inchiesta che hanno cercato di fornire risposte alle tante domande ancora senza risposta. Penso al ruolo di Camilla Cederna, di Corrado Stajano, di Pietro Scaramucci, di Carlo Smuraglia, di Enrico Deaglio. O ancora alle opere teatrali di Dario Fo e Franca Rame. Al lavoro culturale che ha sopperito l’assenza istituzionale. Così come quello civico, portato avanti dall’Associazione Piazza Fontana, del Comitato permanente antifascista, dall’ANPI.
Come hanno affermato i giornalisti Alberto Nerazzini e Andrea Sceresini, nel loro recente e dettagliatissimo podcast di inchiesta 121269 a cui rimando, “Possiamo solo provare a chiudere dichiarando che nemmeno la giustizia italiana è sempre in grado di prodursi l’alibi. Perché troppo spesso non è dove bisogna essere, non ascolta chi deve ascoltare, non scava dove bisogna scavare”.
Tale ignavia istituzionale è il riverbero della domanda politica, centrale in questo cinquantacinquesimo anniversario: quanto ci interessa oggi sapere cosa è accaduto davvero? Quanto quella verità potrebbe essere utile non solo alla domanda di giustizia, ma anche al rivedere l’oggi, al ripensare il presente? A cosa ci serve, nel 2024, quel passato, quando non riusciamo a farci memoria nemmeno del presente di sterminio? Quali danni ha prodotto quell’assenza di memoria e di giustizia nella nostra incapacità di ricordare e di chiedere il riconoscimento delle responsabilità odierne? Per i parenti, le persone coinvolte direttamente da quegli eventi dolorosi, è chiaro che tutto questo serve a restituire dignità, pace e a permettere loro di ricordare l’affetto privato anche scegliendo di abbandonare finalmente la dimensione pubblica di “testimone”. Ma quest’anno, in cui alcune delle principali protagoniste di quelle battaglie sono venute a mancare, a cosa ci serve ricostruire quelle vicende? Licia Rognini Pinelli l’aveva chiarito nella sua autobiografia: quella storia è QUASI soltanto loro. In quel “Quasi” è custodito il senso di tutto. La storia di piazza Fontana è una storia sempre collettiva. Ci riguarda. Riguarda la storia dell’Italia repubblicana, e di uno dei momenti più oscuri di questa traiettoria. Come ha scritto Vladimir Jankélévitch: “Il passato […] non solamente domanda di essere cercato, ma di essere ancora completato”. Non si tratta soltanto di un completamento conoscitivo. Il passato può essere visto come un repertorio di possibilità non realizzate a cui attingere per ispirare il presente e le azioni da compiere. Fare i conti con il passato permette, oggi più che mai, di non riattivare fantasmi, attribuzioni, depistaggi. Permette di distinguere i fascismi di ieri da quelli attuali. Permette di non incolpare le piazze per le responsabilità istituzionali. Permette di contestare con fonti legittime le forme di revisionismo e disinformazione, i negazionismi dell’oggi. Potrebbe concedere alla democrazia di crescere, di diventare solida, matura, e di avere meno segreti. La cronaca dei funerali di Pinelli, scritta da Franco Fortini si conclude con “chissà cosa ci porta il domani”. é una domanda aperta, che interroga il qui ed ora, da cui dobbiamo partire, se vogliamo che quanto accaduto 55 anni fa diventi un mai più, prima che il passato mai risolto ritorni come presente, senza possedere più gli strumenti culturali e politici indispensabili per poterlo combattere.