Novembre 2024

Salvare la cosa pubblica. Intervista a Francesco Stoppa

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Fresco di stampa, e quanto mai attuale, Salviamo la cosa pubblica. L’anima smarrita delle nostre istituzioni nasce da felice passo a due tra Paolo Gomarasca, professore universitario di filosofia morale, e Francesco Stoppa, analista lacaniano, docente alla scuola di filosofia di Trieste. Accomunati da un’attività di insegnamento e allo stesso tempo anche da un forte impegno civico, hanno dato vita a un intreccio di riflessioni sulla “cosa pubblica”. Il senso del lavoro sta già nel titolo: “salviamo” è un appello, e le istituzioni sono “nostre”. Niente di più lontano, dunque, dalle dissertazioni teoriche sulle istituzioni, quanto la consapevolezza della loro importanza per fare comunità, e la necessità di un dialogo costruttivo con cittadine e cittadini, con chi ci lavora e con chi vi si rivolge, affrontando le tentazioni dell’arrocco per tenere vive le condizioni necessarie alla loro esistenza.

Leggere i testi di Gomarasca e Stoppa, che si alternano cuciti insieme da un dialogo epistolare, ha subito un effetto, pagina dopo pagina, quello di levare la polvere da parole pronunciate così spesso da avere perso il loro splendore originario, e la fatica della loro costituzione. Da lettrice che più volte si è confrontata con Francesco Stoppa, ho sentito la necessità di approfittare della sua consueta disponibilità per sciogliere alcuni nodi.

GB: L’apertura del capitolo “Rianimare l’istituzione” si apre facendo uso di una metafora medica, legata a un’operazione vitale per ridare vita, o ripristinare equilibrio, mentre l’ultimo capitolo a tua firma, “Spazio al comune”, si chiude con una famosa pala di Lorenzo Lotto in cui, in un’apertura sul paesaggio, un angelo di schiena scrive su un grande quaderno le preghiere dei fedeli, per farne mediazione e memoria, a una umanissima Madonna con Bambino. Nella tua scrittura fai spesso uso di paragoni artistici, testimonianze letterarie, riferimenti biblici, lessici altri rispetto a quello piano e aderente al tema, ma al tempo stesso è così che riesci a dare corpo e calore a temi in questi tempi incandescenti. Mi sono chiesta se questo modo di scrivere possa essere in qualche modo legato anche al tema, un tema che andando in profondità e levandosi al cielo, in una rete che unisce speranze e frustrazioni, chiedeva questo approccio.

In fondo vale per le istituzioni quello che Heidegger dice del linguaggio, e cioè che sono la casa dell’uomo. È grazie ad esse che stabiliamo un certo modo di abitare il mondo e ne diveniamo i custodi, ma tutto questo, da sempre, si compie appunto nell’ordine della Parola, che è accoglienza, ascolto, confronto e anche conflitto. Il nostro percorso di umanizzazione (da pensarsi come una sorta di cantiere aperto) si realizza dunque nell’attraversamento di una serie di istituzioni, in primis la famiglia, poi la Scuola e da qui i luoghi deputati alla cura, alla dimensione politica dell’esistenza, alla spiritualità, alla cultura etc. È tuttavia evidente che le cose non vanno da sé, perché le istituzioni necessitano di una buona manutenzione, dobbiamo prendercene cura e medicarne le congenite malattie, in particolare la loro tendenza all’autoreferenzialità, il loro irrigidimento. Ciò che ci è richiesto è un’opera di continua riflessione sui nostri ideali e modelli di sviluppo, bisogna saper spezzare gli automatismi e la routinarietà nel governo delle cose per favorire il benefico generarsi di scansioni, pause, spazi lasciati vuoti affinché possano accogliere i reali bisogni delle persone e le istanze provenienti dal territorio. Per chiunque – insegnante, medico o amministratore – eserciti questa funzione, dare ospitalità alle molteplici espressioni dell’umano significa saper sospendere il proprio potere e i propri saperi, le proprie stesse aspettative, per lasciare spazio alla domanda o alla soggettività di chi si rivolge all’istituzione.

GB: Istituzionalizzazione: è in questo termine che tu individui la deriva delle istituzioni; si tratta di un irrigidimento, di una chiusura agli scarti che i binari dell’esistenza e della storia pongono come elementi di sabotaggio alla presunta efficienza delle prassi consolidate. Non cerchi però un colpevole, ma piuttosto lavori all’individuazione di crepe, che si incardinano spesso nelle relazioni: tra il dentro e il fuori, ma anche tra politiche e marginalità, tra “ordine” e “disordine”, per usare due termini cari ad Alighiero Boetti, artista dal pensiero divergente e spiazzante. Qual è stata la ragione prima della scelta di affrontare questo tema? Viene da vissuti personali e professionali o da uno sguardo dall’alto?

Credo che la questione della marginalità, delle pietre di scarto – come si legge nei testi biblici -, mi abbia affascinato fin dall’infanzia: persone, circostanze, ritagli di vita in cui coglievo l’insostenibile, struggente precarietà delle cose, e in cui, in un misto di turbamento e tenerezza, specchiavo la consapevolezza della mia stessa condizione di precarietà. La scelta del mestiere che faccio viene in buona parte da lì. Non è tanto il soccorrere l’altro quanto lo stare in prossimità – e talvolta l’immergersi – nel mistero della ferita che ci rende umani. 

GB: Le istituzioni hanno un’architettura, non solo al loro interno, ma anche nel loro apparire spaziale, di qui la differenza tra spazio pubblico, strutturato, e comune, aperto, ma anche i riferimenti a quanto uno spazio possa essere accogliente, come in Frank Lloyd Wright, o prevaricante, come in Le Corbusier. D’altronde istituire vuol dire fondare, ed è proprio in strutture come ospedali, carceri, scuole, che si sentono in maniera più dolorosa le ferite dell’istituzionalizzazione, insieme al desiderio di lavorare a una trasformazione. Tu che frequenti molti luoghi di questo tipo, di cura o formazione, quanto credi che sia utile riflettere anche sugli spazi e su come pensarli o ripensarli, a partire dalla citazione che fai di Louis Khan, per il quale l’architettura doveva dare corpo all’incommensurabile, ma essere anche espressione delle istituzioni umane?

C’è una frase del già citato Heidegger che cito quasi sempre ai colleghi per i quali svolgo una funzione di formatore, aggiungendo che dovremmo porla all’entrata delle nostre comunità di cura. Recita così: “Il limite non è il punto in cui una cosa finisce, ma, come sapevano i Greci, il punto in cui inizia la sua essenza”. È un’idea del limite non come restrizione ma come misura, cornice, argine; linea che separa per unire senza confondere, e che perciò crea le giuste vicinanze. Ciò che insomma dobbiamo fare è per certi versi un lavoro di ossigenazione dei legami umani. È questa la dimensione che ci abita e che dobbiamo rispettare e saper valorizzare nei percorsi di cura. La formazione degli operatori passa inevitabilmente per una continua riflessione e per il continuo rilancio di questo che è un punto di civiltà, e che nel campo delle cure ha un valore a un tempo clinico e etico. Spesso si tratta di mettere in luce i pericoli insiti nella relazione terapeutica e, nella fattispecie, di saper porre limiti a quel furor sanandi che non consente all’altro di accedere al suo desiderio o di esprimere la sua domanda.

GB: nell’anno che ricorda Basaglia, il suo nome torna più volte come un faro luminoso, in grado di indicare una rotta che all’epoca fu rivoluzionaria, ma che anche oggi avrebbe strade malcerte da percorrere. Basaglia parlava dell’alienazione del personale, riuscì a rovesciare lo sguardo, ed è quanto si sta facendo oggi in molti contesti aggiornati, ovvero formare i formatori, curare i curanti, ricreare condizioni sane di relazioni, istituire l’ascolto come pratica fondante del benessere. Quanto nel tuo lavoro trovi disagi acuti nei luoghi di lavoro legati alle istituzioni? E quanto pensi che sia diffusa la capacità di accorgersi che non è definendo le procedure ma accogliendo l’incertezza, che si possa trovare l ‘anima smarrita di cui parli nel titolo?

Quando abbiamo iniziato a concepire il libro, per Paolo come per me salvare la Cosa pubblica significava in buona parte pensare alla sofferenza di chi oggi lavora nelle istituzioni e si ritrova ad essere, più che ascoltato e valorizzato, misurato, valutato, costretto a spendere un’enormità di tempo nell’adempimento di incombenze di ordine burocratico. 

Salvare le istituzioni, riconsegnarle alla loro funzione di presìdi di civiltà e di pensiero critico, è oggi possibile alla sola condizione di rilanciare la motivazione degli addetti ai lavori. Il primo pensiero di Basaglia all’inizio della sua avventura di deistituzionalizzazione aveva come oggetto lo stato di alienazione non dei degenti ma degli operatori. In particolare si trattava, come scrive, di “entrare nel rischio”, di lavorare senza la rete protettiva o il miraggio di ruoli, camici, carriere. Oggi significa ritrovare l’importanza e il valore del lavoro di squadra per uscire dagli individualismi e dal senso di sconforto personale; bisogna rilanciare il senso di partecipazione e responsabilità di tutti i membri di un’équipe, quella reciprocità creativa, quel legame non speculare ma aperto al proprio compito che Lacan chiama “fraternità discreta”. Dobbiamo guardare le cose per come stanno: non possiamo più fare ricorso a figure carismatiche o normative illuminate. È necessario che gli operatori della salute e gli insegnanti riscoprano l’importanza, la dignità e il piacere del loro lavoro senza aspettare soluzioni dall’alto. In questo senso è assai più utile e appagante adoperarsi per costruire dei collettivi di lavoro e pensiero che sappiano interrogare il proprio mestiere interrogando le contingenze del loro tempo. Sono questi piccoli insiemi, motivati e responsabili, capaci di stringere alleanze al proprio interno e fuori dai propri confini, sono loro che, giorno per giorno, possono fare la differenza. Non la rivoluzione, ma la quotidiana custodia e cura dell’umano nelle sue molteplici forme ed espressioni.