Novembre 2024

Trump, Babele e la lingua dell’altro

Trump incarna paure e sogni regressivi

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Come si chiama una persona che parla più lingue? Un poliglotta. E una persona che parla due lingue? Un bilingue. E una persona che parla una sola lingua? Un americano. 

Guardando gli esiti delle elezioni statunitensi mi è tornata in mente questa vecchia freddura. Non è, infatti, difficile interpretare la figura di Trump come l’incarnazione di un ritorno del rimosso della grande espansione globalizzatrice della seconda parte del Novecento. Il miliardario newyorkese è il sintomo di un diniego, di una paura e di una speranza. Il diniego è quello di un mondo ormai totalmente interdipendente, dove nessun problema può essere affrontato solo a livello locale. Non siamo più solo nel mondo, astratto e poetico, della teoria della complessità in cui un battito d’ali ad Hong Kong può generare una tempesta a San Francisco, ma in un globo a tal punto interconnesso che qualunque scelta, anche la più individuale (un hamburger al posto di un’insalata) si riverbera (socialmente, economicamente, culturalmente, climaticamente) a livello globale. Si svolge, in fondo, nella psiche dell’elettore trumpiano un processo di negazione dell’esistenza di un mondo, definitivamente, reticolare e condiviso, dove l’altro non può essere escluso, perché le scelte dell’altro (e dell’altro che io sono per altrui) influiscono sulla mia vita e su quella di tutti. 

In fondo, Trump afferma, senza troppi giri di parole, che l’altro va espulso, va ignorato, va rimosso. In questo modo, il neoeletto presidente fa leva, principalmente, sulla paura dell’altro e aiuta ad esorcizzare questa paura, alimentando la (falsa) speranza che tale negazione della realtà (sempre altra e alterantesi) porti a una pace sovrana (e immobile), dettata esclusivamente dalla scelta di un proprio stile di vita (possibilmente ancorato nel passato, nel già dato e sperimentato). Si tratta di una rivisitazione dell’individualismo liberista che, però, richiamandosi a un sovranismo assoluto, ignora la globalizzazione del mondo (la ignora in modo paradossale, proprio perché la spinta propulsiva della globalizzazione è stata data dal mercato liberista).

Solo i più ingenui – o le vittime di altri processi di diniego del reale – si possono davvero stupire del successo trumpiano, in quanto analoghe figure governano, ormai, mezzo mondo, tra cui il paese che parla la lingua in cui mi esprimo. La globalizzazione è, da diversi anni, in un movimento di contrazione. Il sovranismo planetario è, precisamente, sintomo di questa sistole epocale. La grande torre di Babele sembra avere generato il panico e, un po’ ovunque, gli spaesati abitanti di questo inedito coacervo di lingue, tradizioni e culture sperano di potersi nuovamente rifugiare nel monolinguismo, nella terra delle radici, nella mitologia etnica, nella xenofobia immunitaria, nella costruzione di grandi muraglie, nell’isolamento, nell’autarchia. Credono, in questo modo, di esorcizzare la mondializzazione del mondo, la comparsa di un destino e di una storia dell’umanità e non più delle nazioni e dei singoli popoli. Non c’è da stupirsi, l’aperto fa paura, l’ignoto ancora di più, e l’altro, con il suo carattere intrusivo e straniante, terrorizza.

Trump incarna queste paure e questi sogni regressivi. E li incarna nel modo più esplicito e triviale. È l’esasperazione dell’americano della freddura che riportavo all’inizio di questo breve articolo. 

Una speranza resta, però. La speranza che ad ogni sistole segua una diastole resta per quelli che ancora credono che ogni monolinguismo sia, in realtà, un monolinguismo dell’altro, in cui è l’altro che davvero parla – fosse pure un altro che resta oscuro, sconosciuto, sommerso, nell’ombra, se non nella clandestinità. A questi monolinguisti poliglotti, che nella propria identità sentono la presenza di una differenza, incoercibile e ineliminabile, una differenza che rinvia sempre ad altro, all’altro che ci costituisce; una differenza, cioè, che è un’interrelazione tra tutti, in un mondo sempre più globale e interdipendente, ecco a questi cosmopoliti, a questi comunitari senza comunità resta una debole ma insopprimibile speranza.

Gea è ben più solida delle paure e delle ansie dei suoi abitanti. Ma gli attacchi di panico, le angosce depressive, i gesti di violenza (anche autolesionistici), dettati dalla paura, non vanno mai sottovalutati. La paura, l’angoscia va individuata, circoscritta, analizzata, compresa e trasformata, perché non è mai esclusa la possibilità che possa dare origine alla fine dell’alternanza di sistole e diastole, causando un arresto cardiaco del soggetto della storia. 

Respiriamo, dunque, e iniziamo a vincere le nostre paure (che sono nostre, in un simile mondo interconnesso, anche se sono quelle dell’altro, dell’altro a me estraneo, dell’elettore di Trump, di Putin, di Netanyahu, di Orban, di Meloni, di Salvini…). Trump non è che un sintomo. Il mondo è lì, nel suo insieme, che aspetta il farsi della sua verità comune e universale. Creiamo una nuova lingua, una pluralità di lingue. Pratichiamo l’esercizio della traduzione. Babele non faccia paura. Babele contiene la sola salvezza possibile, quella di tutti.