A Taranto a fine aprile c’era un sole forte, vivo, ma anche un vento traditore che ti sferzava nei vicoli stretti e ombreggiati del centro storico. Siamo andati lì coi miei per pranzare e per vedere la città, che non avevo mai visitato davvero (non in età di coscienza e consapevolezza, quantomeno); mio padre invece è cresciuto lì e quindi ha fatto un po’ da cicerone. Camminando per le bianche stradine del borgo vecchio, fra le case in pietra e tufo, a ogni angolo puoi trovare schegge di mare infinito sullo sfondo: il centro storico di Taranto si erge su un’isoletta, collegata al resto della città da due ponti, e i panorami marittimi da cartolina non si contano. “Da cartolina” tipo i momenti di vita quotidiana a cui puoi assistere in quei vicoli: l’anziano nel circolo che esulta mentre sbatte sul tavolo un cinque di coppe, le donne che parlano da una finestra all’altra mentre se ne stanno affacciate a prendere il sole, fruttivendoli e bottegaie che chiacchierano in strada coi passanti in ciabatte; qua e là, vedi addirittura qualche ragazzino survivor che gioca a pallone, con le classiche magliette taroccate delle loro squadre del cuore. Tracce di identità locale che divengono a modo loro motivo di curiosità per i turisti, che da qualche anno vanno facendosi sempre più numerosi.
Il turista a Taranto può ricercare la bellezza in tante cose e una di queste è la sua cattedrale. All’esterno si presenta umile ma è l’interno che ti rapisce: io di chiese non ne capisco granché ma dimmi tu se il “Cappellone di San Cataldo” non è fighissimo con tutti quei ghirigori in nero – acceso come se li avessero disegnati ieri col pennarello – sugli sfondi rosa e pesca delle pareti in marmo. La Cattedrale di San Cataldo in pratica è uno di quei luoghi sacri che, anche se di solito l’arte di matrice religiosa non ti dice nulla, quello ti parla lo stesso. C’è anche un’altra forma d’arte che ti parla lo stesso, a Taranto Vecchia: la street art. In uno dei suoi vicoli – non lontano dalla cattedrale peraltro – ho trovato questo graffito, disegnato su una finestra murata, raffigurante una nube azzurra a forma di teschio (un teschio piuttosto malato e malmesso) che fuoriesce da una ciminiera. In calce al disegno, due parole: “Seminiamo morte”. Verbo e complemento oggetto. L’Ilva da quel punto della città non la vedi ma il graffito ti ricorda che lei c’è sempre, piovra immensa e onnipresente.
Abbiamo mangiato pesce nella città moderna (anche se forse avrebbe più senso definirla “meno vecchia”): degli spaghetti alle cozze così buoni che potresti iniziare a credere, magari in San Cataldo. Andandocene abbiamo costeggiato in auto il lungomare, una distesa di blu calmo che ti irrora con lo sciabordio delle sue onde gentili; dall’altra parte, l’aura di decadenza che avvolge le zone meno turistiche e più periferiche, palazzi e strade abbandonate al sole e a sé stesse. Un ultimo saluto all’(ex) Ilva (inevitabile passarci accanto se vuoi entrare o uscire da Taranto) e via, verso la provincia di Bari.
La provincia di Bari è dove sono nato e cresciuto, prima di trasferirmi altrove; negli anni, gran parte dei suoi comuni s’è trasformata nei luoghi da visitare se vuoi capire meglio il concetto di desertificazione.
Ricordo che quando facevo il liceo, diciamo una quindicina d’anni fa, il mio Comune contava circa ventiquattromila persone; tuttora dico quella cifra quando mi capita di descriverlo a qualcuno, per dargli un’idea delle dimensioni del paese, ma la verità è che secondo l’ISTAT ad oggi la popolazione è di circa diciannovemila persone. Io ormai lo so, solo che, al momento di dirlo, istintivamente dico comunque ventiquattromila; forse faccio fatica ad accettare che in quindici anni un paese possa perdere cinquemila anime, e forse mi sento pure un po’ in difetto perché io sono uno di quelli che se n’è andato.
Chissà, vai a capire come funziona la mente; fatto sta che, in quei quattro giorni di fine aprile che ho passato a casa dei miei, sono uscito un paio di sere coi miei amici per andare a farci qualche birra al bar e in giro non c’era nessuno. Ma nessuno davvero, mica tanto per dire: c’eravamo solo noi, i baristi, le panchine, qualche auto stanca che passava ogni tanto, la luna e il solito vento traditore. Fine. Cinquemila diviso quindici fa trecentotrentatré persone in meno all’anno: quante di queste sono i giovani mai nati o quelli già emigrati in un altro posto o un’altra regione? Cioè, coloro che sarebbero maggiormente inclini a indagare la sera, ad abitare la notte; ma soprattutto, a prefigurare un’idea di futuro per una comunità? Non so dirlo, ma ad occhio e croce direi parecchi. In ogni caso la mattina resta ancora una dimensione piuttosto popolosa al mio paese, tra chi esce a fare una passeggiata in piazza, chi a godersi un caffè al sole e chi invece va ad affollare il centro scommesse; l’età media di questo eterogeneo popolo giornaliero è su per giù il doppio della mia. (Survivor anche loro, come i ragazzini di Taranto).
Sai quale città pugliese ti dà l’impressione di contenere ancora un sacco di gente di tutte le età? Bari, era facile. Ci sono andato con amici un tardo pomeriggio, di sabato, e le sue vie più dense di negozi, locali e attrazioni scoppiavano di gente. Anche Bari sta vivendo, come se non più di Taranto, una fase di boom turistico. Anche a Bari, del resto, puoi scovare la bellezza in una molteplicità di luoghi e fattori: il suo lungomare essenziale e in qualche modo malinconico (soprattutto di sera, quando il mare diventa un abisso di nero puntellato dalle luci dei lampioni); la bontà e la varietà del suo cibo; il carattere ridanciano ed espansivo di chi ci vive. Per me, ogni volta la bellezza è specialmente – come per Taranto – nelle passeggiate per il suo centro storico: al crepuscolo, il contrasto fra il cielo violetto e le luci calde delle sue stradine affollate produce un’atmosfera surreale e palpitante al tempo stesso.
Un tempo nei centri storici di Bari e Taranto non si poteva entrare. Era cosa risaputa: o ci nascevi oppure era meglio girare al largo, a meno che non volessi rischiare di venire imbruttito da qualcuno e, non di rado, rapinato. Quando facevo le elementari, ci portarono in gita a vedere la Basilica di San Nicola – a proposito di architetture religiose che non lasciano indifferenti e di chiese fighissime –, nel cuore di Bari Vecchia; non ricordo granché oltre l’imponenza e il biancore della Basilica, se non il fatto che noi e le nostre maestre venissimo scortati da due o tre carabinieri. Questo disagio nasceva, come sempre, da un altro disagio: quello economico e sociale di molte famiglie rimaste indietro nei processi di scolarizzazione, industrializzazione e imborghesimento che avevano coinvolto il resto della città nel corso dei decenni. Povertà ed emarginazione hanno favorito l’insorgenza della criminalità (micro e non), di cui questi borghi sono diventati vere e proprie fortezze; apparentemente inespugnabili, almeno finché – grossomodo con l’arrivo degli anni duemila e soprattutto gli anni dieci – pubblico e privato non si sono accorti del potenziale artistico, storico e culturale racchiuso in quei luoghi. Il turismo può essere un piede di porco tremendamente efficace: fiutato l’affare sono arrivati gli investimenti, le iniziative di riqualificazione, i restauri e le camionette dell’esercito nei punti nevralgici. Le fortezze sono state espugnate e la gente “brutta” laddove possibile è stata spinta fuori, in quartieri e case popolari lontane. (È stata scolarizzata, professionalizzata, imborghesita? No, è solo stata spinta fuori). La gente “bella”, invece, compra spazi e apre cose. «Sembra che ogni giorno cambi qualcosa, qui» m’ha detto un amico che a Bari ci vive. La città vecchia adesso è uno spettacolo per chi la visita, una festa di colori e suoni e sapori; ma mi chiedo se il cambiamento – la gentrificazione, per chiamarlo col suo nome – venga vissuto con lo stesso entusiasmo da coloro che sono rimasti.
Una delle conseguenze negative dei processi di gentrificazione è la progressiva erosione delle routine e dei costumi delle comunità locali. A Bari però vale lo stesso che scrivevo sopra per Taranto: sarà perché in questi posti la turistificazione è ancora relativamente giovane, ma alcune tracce resistono. A un certo punto della serata abbiamo imboccato una viuzza a caso nei paraggi del Castello Svevo ed è stato come scoprire un varco su un’altra epoca: le luci illuminavano a giorno la stradina rivelando tutto un susseguirsi di signore che stendevano la pasta su lunghi tavoli davanti ai loro appartamenti al piano terra (quelli che a Napoli chiamano i “vasci”), o vi lasciavano a raffreddare i taralli fatti sempre da loro. C’era un clima di spensieratezza su questa schiera di donne che parlavano e scherzavano fra loro come chi si conosce da una vita; la maggior parte delle abitazioni aveva la porta aperta, gli interni accessibili agli sguardi di chi passava. (In fondo alla via ho spiato uno di questi appartamenti, da bravo turista guardone: era un piccolo soggiorno dove una piccola signora, molto anziana, se ne stava avvinghiata allo schienale della sua sedia a guardare il TG1 in tv; sola eppur connessa alla comunità e alla vita esterna, attraverso quella semplice porta aperta).
Ecco, bastano pochi giorni al sud per farsi colpire dai suoi momenti, dalle sue atmosfere, dalle sue anime, senza separazioni nette fra le cose belle e quelle desolanti; viverci può essere un’esperienza tipo episodio di Atlanta, la serie di Donald Glover dove il contesto sfuma dalla commedia all’inquietante senza che te ne renda conto.
Uno allora finisce per domandarsi come mai si parli sempre così poco del Sud Italia e delle sue questioni. Anzi, uno si chiede se c’è mai stata almeno una qualche forma di volontà politica nei confronti del meridione: la volontà di governare i cambiamenti delle sue città, così come quella di comprendere e supportare davvero coloro che rimangono indietro; la volontà di ragionare sul grave spopolamento che affligge le sue province ormai da diversi anni a questa parte; la volontà di fare realmente qualcosa riguardo l’Ilva e altri ecodisastri, invece di limitarsi a qualche inutile slogan in fase di campagna elettorale.
Si tratta di domande retoriche, naturalmente; chi vive in queste terre ha smesso da tempo di sperare in un’azione politica efficace dall’alto e sa bene che la soluzione a questi, come a mille altri problemi annosi e ben noti, è quasi totalmente demandata ad associazioni e interpreti locali – laddove in grado di organizzarsi e di incidere. Nonostante tutto, questi luoghi in qualche modo sopravvivono ai paradossi che dovrebbero piegarli; la speranza è che possano farcela per quanto più tempo possibile, anche lasciati a sé stessi come sono da sempre.