La cosiddetta “spagnola” ebbe una caratteristica che la distingue ancora oggi da molte altre epidemie e pandemie: colpì in maniera drammatica la fascia di età tra i 20 e i 40 anni, con un picco statistico di mortalità, sia per gli uomini che per le donne, intorno ai 27 anni. Mercoledì 12 febbraio sarà disponibile in libreria L’influenza della guerra (Luca Sossella editore) un volume del laboratorio Soldado de Nápoles a cura di Gabriele Frasca. Qui una sezione di approfondimento con audio e immagini. Di seguito un testo di Gabriele Frasca.

Da quando ne ho memoria, e dunque per intenderci dagl’inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, non c’è stata Vigilia di Natale della mia infanzia che non prevedesse lo stesso copione. In realtà a seguirlo puntualmente ci pensava mio padre, il cui umore, appena tornato da lavoro, restava tutto sommato buono, fin quando continuava ad armeggiare con l’albero che secondo i piani avrebbe dovuto completare da minimo una settimana. Era metodico nell’allestimento dell’abete, pur continuando a preferire il più tradizionale presepe, e un vero virtuoso della sincronizzazione delle luci e degli addobbi luminosi, ma tendeva comunque di natura a procrastinare ogni impegno. Finiva così al solito col ridursi all’ultimo momento, per il divertimento mio e di mia sorella, che sulla carta avremmo dovuto aiutarlo ma che eravamo neanche a dirlo solo d’intralcio. Comunque, pur con qualche maledizione fra i denti, si arrivava finalmente a ergere il pinnacolo, entravano in azione le luci intermittenti, e – sissignore! – era proprio Natale. Quando poi stavamo per cominciare il cenone, coi pochi parenti che si univano a noi in quelle occasioni, il clima era decisamente allegro. Ma durava poco. Nemmeno si metteva a tavola, e mio padre s’incupiva, senza che ci fosse alcun bisogno di sollecitarlo per rivelarne la ragione. «In questo stesso giorno, e quasi a questa stessa ora», diceva ogni volta come sprofondando di nuovo in un dolore irrisarcibile, «tanti anni fa, è morta mia mamma, lasciandomi orfano a soli 15 mesi». E poi, con un tono di voce tutto particolare – una sorta di sussurro inorridito che negli anni ho sentito spesso risuonare in persone più vecchie di lui quando evocavano lo stesso aggettivo sostantivato –, aggiungeva: «La “spagnola”».
Mio padre era nato nell’ottobre del 1917, tre giorni prima di Caporetto, e sua madre, mia nonna, ancora molto giovane, sarebbe morta il 24 dicembre dell’anno dopo. Non ebbi mai modo di chiederglielo, né credo che mio padre fosse o meno a conoscenza di un’eventuale nuova gravidanza di sua madre, circostanza che l’avrebbe resa più esposta alle conseguenze estreme dell’infezione, se la “spagnola” risultava letale come poche cose al mondo per le donne incinte, come se «la natura», per dirla con le parole di Alberto Lutrario, il Direttore Generale della Sanità Pubblica di quegli anni remoti, avesse «scelto questa via per attenuare lo squilibrio dei sessi determinato dalla guerra». Come che sia, l’atmosfera natalizia spariva di un sùbito, mentre mio padre si perdeva nelle sue memorie e un’ombra di tristezza ci avvolgeva tutti. Sarà ovviamente per questo che anche per me – testimone di un testimone, e dunque l’ultimo in grado d’intestarsi un po’ di storia orale – il termine “spagnola” ha significato qualcosa, ha fatto parte della mia vita, come il ricordo di quella terribile epidemia che nell’ultimo anno della cosiddetta Grande Guerra, e anche nell’immediato dopoguerra, più dello stesso conflitto aveva portato il lutto praticamente in ogni famiglia.
La conta delle vittime, il cui numero apparve comunque da sùbito spropositato, non potrà mai raggiungere una cifra che possa essere ritenuta ufficiale; e non soltanto perché i dati proposti per l’Africa e l’Asia risultano inficiati dall’inadeguatezza dei sistemi di rilevazione e archiviazione del tempo, ma anche perché persino in società ordinate con servizi medici e statistici ben consolidati, come l’Europa e l’America settentrionale, tutto dipendeva dalle diagnosi mediche individuali, che potevano ascrivere i decessi a cause diverse. I morti di polmonite del periodo, innanzitutto, ma anche quelli di tubercolosi, risultano ovviamente indiziati di nascondere da qualche parte il volto violetto del virus. Senza dimenticare che l’influenza all’epoca non rientrava fra le malattie sottoposte all’obbligo di denuncia, e quindi il più delle volte spariva dalle schede necrologiche. Sta di fatto che però proprio in Italia i numeri cominciarono a circolare assai per tempo, forse persino prima che in altre nazioni, grazie all’economista e statistico mantovano, ma di formazione universitaria napoletana, Giorgio Mortara, che pubblicò già nel 1925 per la crociana Laterza il saggio La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra. Le cifre lì ci sono tutte, persino più alte di quelle che successivamente sarebbero state fornite su scala internazionale; anche se in qualche modo si districano a fatica, non tanto dal numero dei caduti nel conflitto, quanto piuttosto in àmbito civile da una mortalità complessiva che l’ovvio propagarsi della cosiddetta “triplice endemia” (tubercolosi, sifilide e malaria), e soprattutto gli stenti dovuti a una politica alimentare da parte del Regno d’Italia a dir poco avventata, aveva incrementato non poco. Comunque per Mortara, che a lume di statistica si basava sulla stima dell’eccedenza di decessi tra i civili negli anni in questione, le vittime di “spagnola” nella nostra penisola fra l’ottobre del ’18 e la primavera del ’19 sarebbero state addirittura 530.000, che diventavano facilmente 600.000 aggiungendovi i morti nei comuni invasi dagli austriaci dopo Caporetto (da cui non erano giunti conteggi affidabili) e naturalmente i prigionieri di guerra. Erano cifre spaventose – e lo sono anche quelle più contenute proposte attualmente, che oscillano fra le 350.000 e le 410.000 unità –; ma erano se non altro qui da noi alla luce del sole, sia pure nella penombra di un volume per molti versi innovativo. E se la guerra, nelle parole di Benedetto XV, era già stata definita il 1° agosto del 1917 un’«inutile strage», quale espressione, con quelle cifre, avrebbe dovuto rendere conto della ”spagnola” a conflitto ultimato? Massacro? Genocidio? Olocausto? E soprattutto, se nelle parole del papa non si può che leggere un rimprovero a tutte le classi dirigenti delle nazioni coinvolte, chi avrebbe dovuto mai essere ritenuto responsabile di quella vera e propria sconsiderata ecatombe che faceva impallidire la stessa «inutile strage»? Il fato? L’ignoranza? Dio?
I numeri, si diceva, altrove ci hanno messo del tempo per divenire pubblici, rimanendo per lo più a disposizione della consorteria – in ascesa durante tutto il Novecento – degli epidemiologi. In America il primo, e per molto tempo l’unico, a provare a fornirne, fu il batteriologo Edwin Oakes Jordan, che nel suo volume del 1927 Epidemic Influenza, apparso per l’American Medical Association, avrebbe proposto un numero complessivo di decessi su scala mondiale di 21 milioni e seicentomila morti – anzi, per l’esattezza, per ripetere i suoi calcoli chissà in base a quali informazioni tanto puntuali: 21.642.283 – , una cifra alla luce dei fatti decisamente al ribasso, che sarebbe stata però ritenuta attendibile per circa sessantacinque anni. Il che voleva dire che pur non essendoci in America, come altrove, famiglia che non aveva i propri lutti, nessuno chissà perché era in grado di fare due più due. Va anche detto che persino nel 1991 gli epidemiologi americani Patterson e Pyle si limitarono in verità solo a ritoccare la cifra totale, portandola a 30 milioni, e continuando a sottostimare il numero delle possibili vittime nelle varie parti del mondo.
È stato dunque solo a ottant’anni esatti dall’evento che la vera portata della pandemia si è manifestata per quello che era, in virtù dei nuovi conteggi a opera di Niall Johnson e Jürgen Müller, che portarono il numero delle vittime a 50 milioni, sebbene il geografo australiano e lo storico tedesco si sentissero immediatamente in dovere di avvertire che anche quel dato poteva risultare sottostimato, addirittura del cento per cento. E finanche di più, a tenere dietro alla caute proposte dei loro interventi successivi. Il che faceva intravedere un numero di morti inimmaginabile. Solo in America erano decedute almeno 675.000 persone, col rischio che tante altre fossero sfuggite alle registrazioni. Secondo una tale stima al ribasso, il numero delle vittime della “spagnola” negli Stai Uniti sarebbe comunque più alto dell’insieme dei soldati americani caduti nelle due guerre mondiali, in Corea e in Vietnam. E se per davvero ci si limita a raddoppiare la cifra minima proposta da Johnson e Müller, un simile raffronto lo si può facilmente portare a livello globale. Com’era stato possibile allora che una tale ecatombe fosse per tanti anni finita nelle pieghe della storia, e sotto il tappeto della storiografia?
Ora: sarà pure vero che «la simbiosi fra storia e memoria è delicata in tutte le società», come ha recentemente puntualizzato Jay Winter; ma resta comunque sospetto che l’emozione della “spagnola” sia rimasta viva nelle storie familiari, per lo meno per tre generazioni, mentre gli archivi, che sono sempre lì a disposizione, sono stati invece a bella posta disertati, e sin da sùbito. Mortara era un economista che credeva nel metodo statistico, e lo ha applicato nel corso del tempo a tanti argomenti anche scabrosi, come l’uso dell’alcol o le unioni al di là del matrimonio, senza temere eventuali ricadute politiche o reprimende moralistiche; Jordan invece un epidemiologo, che in quanto tale non aveva paura di affermare che, a fronte dell’origine ignota dell’infezione, era stato sicuramente l’affollamento dei campi militari a propagarla e a renderla tanto mortale. E se è per questo, un esame ravvicinato dell’intera questione potrà riservare non poche sorprese. Non ultima la constatazione che nell’ambiente medico tutto si può dire tranne che l’argomento sia stato calcellato. Anzi: come ebbe a dichiarare nelle sue memorie “atipiche” Frank Macfarlane Burnet – il microbiologo australiano che fu insignito del Nobel nel 1960 per i suoi rivoluzionari studi sull’immunizzazione, e che nell’agosto del 1919 era stato colpito da una forma lieve dell’influenza –, per lui e per molti altri ricercatori l’obiettivo di isolare la causa della “spagnola” fu lo stimolo principale per lo meno per un quindicennio. Senza dimenticare quanto la pandemia del 1918-1919 spicchi nelle storie mediche dedicate all’influenza, a partire da quella del 1942 che si deve proprio a Burnet e ad Ellen Clark. Tutto ciò contribuisce a creare il grande paradosso della “spagnola”, quello di essere cioè un evento scientificamente ben documentato, ossessivamente presente nelle memorie familiari, come mostra il mio aneddoto, e comunque per molto tempo dimenticato dalla società, dalla storiografia ufficiale e apparentemente persino dalle espressioni artistiche, a meno di non tornare a frequentarne il rimosso, cui quasi per suo stesso statuto l’arte dà forma.
Perché allora questa congiura del silenzio? La nascita del Laboratorio, cui alla fine abbiamo dato il nome di “Soldado de Nápoles”, e che in circa tre anni di ricerche e cadenzate riunioni ha prodotto i saggi contenuti ne L’influenza della guerra, è stato il tentativo di dare una risposta a questa domanda.