Febbraio 2025

La partecipazione è l’uso che se ne fa

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Come usare i processi di partecipazione nelle politiche? La partecipazione serve a produrre conoscenza utilizzabile, come risultato dello scambio tra diversi tipi di sapere; a ridefinire i problemi, modificare le poste in gioco nei processi decisionali e, in definitiva, alterare gli schemi di interazione degli attori; a favorire un incremento della razionalità degli attori e generare apprendimento sociale.

È questa, in sintesi, l’interpretazione della partecipazione proposta da Paolo Fareri, ricercatore, analista e progettista di policy, in un saggio del 1998 dal titolo “Rallentare”, un testo riferimento per chi si occupa di politiche urbane1. La sua tesi è che la partecipazione è uno strumento per la costruzione di politiche efficaci, cioè adeguate al problema pubblico che intendono trattare. La partecipazione – secondo Fareri – non va intesa come mezzo per costruire il consenso tra gli attori e raggiungere una decisione condivisa. Ciò corrisponderebbe a ridurre le sue potenzialità a obiettivi di efficienza decisionale. È piuttosto uno strumento per far emergere punti di vista non considerati, cornici di senso non previste, mettendo al lavoro l’«intelligenza della democrazia». La partecipazione è una strategia di apertura dei processi decisionali per sostenere la costruzione di soluzioni capaci di comprendere la complessità e l’articolazione delle posizioni degli attori. Non prova a comporre interessi e preferenze diversi, ma serve a far emergere, nell’interazione, nuove definizioni del problema. Il passaggio è da problem solving a problem setting; da obiettivi di raggiungimento dell’accordo tra gli attori a obiettivi di generazione di innovazione. 

In questo senso, la partecipazione è un “evento locale”, una rottura nel corso standard dei processi decisionali, un dispositivo per la costruzione di soluzioni che privilegiano la sperimentazione più che la convergenza. È condizione per il cambiamento, perché corrisponde a una sorpresa; è fonte di anomalia e dunque promessa di innovazione. 

Gli anni in cui usciva il saggio erano caratterizzati da una ripresa di interesse verso la partecipazione nei piani e nei progetti urbanistici. Era la fase che Fareri definì della «partecipazione progettata», quell’insieme di metodiche e pratiche professionali per il coinvolgimento degli stakeholder. La partecipazione, progettata da nuove figure tecniche che si presentavano come “facilitatori”, era un’offerta di apertura dei processi decisionali da parte del sistema politico alla società. Con il consueto acume, Pierluigi Crosta vi lesse un effetto (solo a prima vista paradossale) di de-politicizzazione. Le pratiche sociali di produzione del “pubblico” garantite dai professionisti della partecipazione erano state rese controllabili e prevedibili, diminuendo la loro capacità di produrre apprendimento, che è sempre eventuale. In questo senso, avevano smarrito il loro valore politico. 

Siamo oggi in una nuova fase. Sono infatti numerosissime le iniziative, promosse da cittadini, gruppi informali, associazioni, che affrontano problemi (o opportunità di intervento) di natura collettiva. Sono politiche pubbliche “di fatto” e i loro protagonisti sono attori di policy. In questo scenario, la partecipazione progettata mostra la corda, perché a spingere alla mobilitazione è soprattutto realizzare cose, più che contribuire al miglioramento della decisione pubblica.

Dunque, quale dovrebbe essere oggi la posizione utile da assumere? In che modo rendere efficaci queste politiche pubbliche implicite? È un passaggio stretto, sul crinale tra accompagnamento e abilitazione, tra sostegno e rimozione dei disincentivi e delle barriere che bloccano l’esercizio del protagonismo. È bene saper progettare, anche «per evitare di essere progettati», ma neppure progettare oltre il necessario. Occorre invece dare agio all’imprevisto e non ridurre l’interazione a tecnica di design. La soluzione non è un canvas ben fatto: bisogna conquistare spazio, fornendo qualche attrezzo per coltivarlo e magari espanderlo. È necessario accompagnare gestendo la prossimità, disponendosi alla giusta distanza, sollecitando «riflessione nel corso dell’azione», reframing e auto-sovversione. Non più facilitatori, ma knowledge broker o amici critici. 

Essere a fianco, favorendo circuiti virtuosi tra education e advocacy, nelle città, nelle periferie difficili, nelle aree di margine. Fornire riconoscimento, lavorare nel e con il conflitto, garantire cura del presente e protezione sul futuro, consapevoli che il modello emergente è il decreto Caivano. 

Di questi argomenti, discuteremo martedì 11 febbraio, h.18, presso Avanzi, in via Ampere 61/A, a Milano in un confronto tra chi scrive e Gabriele Pasqui, docente di Politiche Urbane al Politecnico di Milano, che al saggio di Paolo Fareri ha dedicato di recente un commento profondo e suggestivo. 


  1. Il saggio è poi uscito all’interno di una raccolta, pubblicata postuma, con lo stesso titolo: P. Fareri (2009), Rallentare, Franco Angeli, Milano. ↩︎