Il futuro non è scritto

Il futuro non è scritto

Ottobre 2024
Harris, Trump e il destino del mondo. Un diario elettorale di Alessandro Carrera
Alessandro Carrera

La relativa invulnerabilità di Donald Trump rispetto a tutto ciò che fa, dice e sproloquia, il divertimento palese con il quale i media di ogni tendenza registrano le sue uscite più insensate, la ragionevolezza triste di coloro che, dall’altra parte della barricata, si chiedono seriamente se non si tratti di un caso eclatante di declino cognitivo, perfino l’allarme costante e isterizzato di coloro che lo definiscono senza mezzi termini un fascista (anche tra gli alti gradi dell’esercito, per altro), non riescono a scalfire il mistero della sua apparizione tra i comuni mortali. 

Mi sono permesso di far precedere l’aggettivo “relativa” alla sua percepita “invulnerabilità” perché ci sono state occasioni in cui il pallone si è un poco sgonfiato, in particolare quando il candidato democratico alla vicepresidenza, Tim Walz, ha definito Trump e la sua corte come “gente molto strana” (weird). Per qualche settimana è sembrato che quella definizione avesse compiuto il miracolo di mostrare la nudità del re. Ma poi il pallone si è rigonfiato, e che il re sia nudo non è un problema, non solo perché lo è sempre stato (Trump non ha mai ingannato nessuno rispetto a quello che lui è), ma perché ai suoi elettori va bene così, non lo vogliono diverso, anche quando non credono a una parola di quello che lui gli promette: scatenare l’esercito contro i suoi avversari politici, dare alla polizia totale impunità per ventiquattro ore al fine di estirpare il crimine una volta per tutte, deportare istantaneamente milioni di immigrati anche se legalmente residenti. Lo sanno tutti che sono cose impossibili da mettere in pratica, oltre che fasciste, ma non possono contenere il piacere che provano nel sentirsele dire. 

Uno dei paragoni più calzanti è quello con gli incontri di wrestling. Non ha senso insistere su quanto siano fasulli, i primi a saperlo sono proprio gli appassionati. Il wrestling fa finta di far finta di essere vero, il che rende vera la verità della sua finzione. La sospensione dell’incredulità è totale. Nulla di ciò che accade è vero, ma è vero che accade, e tanto basta.

Ma a quel “tanto basta” è necessaria una deviazione, un détournement. Ho usato un termine introdotto dall’Internazionale Situazionista, l’avanguardia estetico-politica che dalla fine degli anni Cinquanta alla metà degli anni Settanta, tra Francia e Italia, si scavò una posizione defilata, incompresa, demonizzata, nonché esaltata da chi per lo più ne capiva ben poco. Si legga e si rilegga La società dello spettacolo di Guy Debord, 1967, fondamentale per capire le rivolte del 1968, gli anni successivi e anche i nostri. Il situazionismo intendeva combattere l’estetizzazione della politica attraverso la politicizzazione dell’estetica. I suoi principi erano il nomadismo mentale, il disorientamento e la deriva: porre se stessi in situazioni disorientanti, creare situazioni disorientanti per sé e per altri; e soprattutto sfidare il capitalismo, lo spettacolo della merce e la merce dello spettacolo, disorientandone i fruitori fino ad innescare una deriva di cui non si poteva prevedere il potere destabilizzante.

Ebbene, questa pratica che voleva essere talmente rivoluzionaria da risultare indigeribile al capitale, dagli anni Novanta in poi è stata interamente assorbita (o meglio hijacked, “dirottata”) dalla destra. La svolta è avvenuta quando qualcuno ha ricevuto l’illuminazione: non si trattava di mettere un po’ di sabbia nell’ingranaggio del capitalismo, bensì di sfruttarlo, diciamo pure di fotterlo, così come il capitalismo sfruttava e fotteva chiunque. In Italia, il più grande situazionista è stato Berlusconi. Le sue offese al buon costume e al minimo decoro hanno disorientato innanzitutto la sinistra, che non era preparata ad affrontare un avversario così istintivamente in linea con quei tempi nuovi che la sinistra stessa aveva previsto, nonché i cattolici, tanto impreparati quanto la sinistra a dover gestire la dissonanza cognitiva causata da un leader che si dichiarava dalla loro parte mentre rompeva ogni giorno il patto non scritto tra l’incarico che ricopriva e la morale che avrebbe dovuto almeno far finta di adottare.

Negli Stati Uniti, dove il situazionismo non è mai arrivato, tranne che per una sparuta pattuglia di professori di sinistra, si è dovuto attendere Donald Trump per vederne la realizzazione. È andato in bancarotta da quattro a sei volte, a seconda delle definizioni legali che si danno di bancarotta. È ben noto che non paga i suoi fornitori o che lo fa, quando lo fa, con molta riluttanza. Non è un capitalista; è uno che sfrutta il capitalismo, che lo fotte, il che è proprio quello che i suoi sostenitori vorrebbero fare, se potessero. Ogni sua uscita sembra la pagina di un manuale di situazionismo punto 2. È un maestro nel disorientare l’America, e i suoi sostenitori lo adorano per questo. Va a un evento di giornalisti afroamericani e mette in dubbio l’identità razziale di Kamala Harris; va a una riunione di imprenditori di Detroit e dice che Detroit è una città fallita; due persone stanno male a un suo comizio e lui si mette a ballare al ritmo di Nothing Compares 2U. Qualunque situazionista, se ne sono rimasti ancora, dovrebbe morire d’invidia al solo pensiero che qualcuno abbia capito così profondamente la direzione schizofrenica che il movimento, all’insaputa dei suoi fondatori, avrebbe preso.

Per i democratici, il disorientamento al quale Trump li costringe senza tregua, ventiquattr’ore su ventiquattro, è doloroso oltre ogni dire. Per i suoi sostenitori, ogni atrocità che dice è una vittoria, perché sanno quanto spiazzerà la parte avversa. Non importa se poi, una volta presidente, sarà demo-totalitario o fascista, o se le sue sono solo minacce al vento; l’importante è la strizza che ha messo ai democratici.

Avevo un compagno di liceo che si definiva situazionista. Una volta lo videro camminare lentamente davanti a un tram, mentre il conduttore gli scampanellava furiosamente alle spalle. Si disse che l’aveva fatto per rallentare lo sviluppo del capitalismo, e per qualche giorno fu un eroe. Lui, per conto suo, non parlava molto. Era alto, magro, con un pastrano dalle tasche gonfie. La sua espressione preferita, quando lo si incontrava nei corridoi del liceo, era “Boom, chicka-boom, chicka boom”. Non ricordo il nome né la faccia, non so più niente di lui. Magari scrive discorsi per qualche personaggio politico, ma preferisco non sapere per quale parte.

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Ottobre 2024
L’inquietante incomprensione delle parole del Ministro Giuli da parte del mondo politico
Federico Ferrari

Leggo, un po’ ovunque, commenti che sbeffeggiano il Ministro Giuli, reo di supercazzola reiterata. La mia simpatia per il Ministro è pari a zero, ma Giuli non è affatto un erede del Conte Mascetti. Esprime, anzi, con proprietà linguistica e semantica, un pensiero evoliano, con sfumature jüngheriane e drieularochelliane, inframezzando il tutto, in una sorta di impossibile cortocircuito, con una cultura aziendalista. Giuli è, cioè, il portavoce di una nuova estrema destra o di quel movimento politico inafferrabile che ha assunto anche il nome, sul finire del secolo, di Nouvelle Droite, il cui più noto ideologo è stato Alain de Benoist. 

Si tratta, in fondo, di una rivisitazione, post-globalista, di vecchie teorie e movimenti della destra più radicale, quella, per intenderci, ancora più a destra di Almirante & co. (di quest’ultima è erede, non Giuli, ma il primo Ministro Meloni e il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, anche se questi ultimi del rigorismo almirantiano conservano poco e nulla, avendo sciacquato i panni nell’Arno, linguistico e concettuale, di Maria de Filippi). Quella di Giuli è una destra, per molti versi, culturalmente più raffinata e accorta e, di conseguenza, potenzialmente più pericolosa.

Quando Giuli, facendo scompisciare tanti della sinistra, pronuncia una frase come questa –“Dobbiamo riaffermare la centralità del pensiero solare, il punto d’incontro tra la rigidità delle ideologie, della battaglia delle idee che si discioglie nella luce meridiana dello spirito mediterraneo” –  non è in preda a un delirio glossalico.

Questa frase, pronunciata a Francoforte (alla Buchmesse, un luogo di cultura), è infatti una frase totalmente sensata nella tradizione di pensiero nel cui solco si pone Giuli: significa, molto semplicemente, che, a suo avviso, esiste la possibilità, data ai paesi dell’Europa latina (poiché, probabilmente, per lui il Mediterraneo è solo greco-romano), di un pensiero che vada oltre le rigidità ideologiche del Novecento.

Dove vada, questo pensiero post-ideologico e mediterraneo, possiamo immaginarlo. (Mi si permetta una digressione lunare e ideologica: si spera che la società civile, quella fondata sulla convivenza e lo scambio tra tutti i popoli, non solo del Mediterraneo, ma anche di quelli, per esempio, che sui fondali di quel mare hanno trovato e quotidianamente trovano la propria sepoltura, farà il possibile affinché la battaglia di idee sia sempre viva, in disequilibrio e mai si disciolga in una luce meridiana). 

Ma quel che più fa riflettere nell’affaire Giuli è l’ilarità che scatena nella società civile, tanto di destra, quanto di sinistra (ilarità talmente bipartisan da far ipotizzare che destra e sinistra, nella vita reale, siano solo etichette di facciata). È un’ilarità, per molti aspetti, ancor più preoccupante dell’evolismo d’accatto del Ministro. Si tratta, con ogni probabilità, di un sintomo dell’avvenuta distruzione di ogni tessuto politico e di ogni dimensione della parola politica che vada oltre lo slogan e il mangime linguistico oppiaceo per il popolo bue. 

Che nessuno (o quasi) all’interno del mondo politico riconosca e, ancor meno, comprenda le parole di Giuli risulta veramente inquietante. Come anche aberrante e oltremodo inquietante è che si possa pensare che un Ministro della Cultura debba rivolgersi a una commissione parlamentare o alla platea dei maggiori operatori culturali d’Europa con un linguaggio semplificato, perché altrimenti denoterebbe, non tanto spocchia o inutile sfoggio di cultura, ma supercazzolismo, cioè proferazione di parole incomprensibili e prive di senso. Il nichilismo, la dissoluzione di ogni dimensione di pensiero, l’affermazione della necessità di una pura comunicabilità, la riduzione dello spazio critico democratico a pura demagogia consensuale, l’appiattimento del confronto d’idee su una spettacolarità usa e getta sono terribilmente più pericolosi del contenuto cripto-ultra-conservatore del Ministro.

Viene davvero da pensare che verremo tutti travolti dalla nostra stupidità. Murati vivi tra le pareti luminose dell’idiozia condivisa, ma ilari. Non il fascismo, non i totalitarismi, non il disastro ambientale, non le diseguaglianze sociali, non la sofferenza insostenibile di molti popoli e di molti individui, non le guerre – sarà una semplice e infinita risata a seppellirci.

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Ottobre 2024
Harris, Trump e il destino del mondo. Un diario elettorale di Alessandro Carrera
Alessandro Carrera

Ci sono due modi di sopravvivere all’ultimo mese della campagna elettorale americana. Il primo è quello di possedere una specializzazione in psichiatria, il secondo è quello di leggere un articolo di Ezra Klein apparso sul “New York Times” un paio di giorni fa.

Solo uno psichiatra potrebbe spiegare come sia possibile che negli ultimi giorni abbia preso piede la voce secondo la quale gli uragani Helene e Milton, che hanno colpito in particolar modo la Florida, siano stati creati da una “macchina del tempo (atmosferico)” messa a punto dai democratici. La voce, che nasce nel subconscio degli uomini del sottosuolo che riversano ogni giorno in internet la loro spazzatura mentale, è stata fatta propria da Marjorie Taylor Greene, deputata della Georgia. MJT, come viene chiamata, ha fatto delle bufale la sua carriera. Una tra le tante è quella del 2018, quando ha detto che un incendio in California era stato prodotto da un “generatore solare spaziale” manovrato da una ditta che guarda caso si chiama PG&E, Rotschild & Co. (se c’è un Rotschild c’è una congiura). 

In quel caso, non c’erano state minacce di morte ai signori del laser. Questa volta ci sono state. Alcuni operatori della FEMA, la protezione civile americvana, sono stati minacciati di morte e hanno dovuto sospendere le operazioni di salvataggio. Una signora con una vistosa felpa pro-Trump, intervistata da una televisione, ha detto: “Sì, io ci credo che il governo può causare gli uragani. Lo fanno per trovare il litio”. 

Passiamo alla seconda modalità di sopravvivenza. È ormai di dominio pubblico, anche sui giornali italiani, che Kamala Harris ha perso terreno e lo perde ogni giorno di più, che la sua spinta si è esaurita e che gli elettori sono delusi dalla sua vacuità e dalla mancanza di proposte. Può darsi. Io però mi ricordo che le proposte di Obama, durante la sua campagna elettorale, non erano molto più concrete, anzi. Ma è pur vero che nel 2008 Obama ha vinto in gran parte perché John McCain sembrava totalmente perso davanti all’incombente crisi di Wall Street. E se a Kamala Harris non capita una simile fortuna (si fa per dire), che speranze ha di vincere?

Le stesse di qualche mese fa. Nulla di quello che è successo da quando Kamala Harris è diventata la candidata democratica ha smosso l’elettorato. Trascrivo qui una parte dell’articolo di Ezra Klein: “Una settimana prima del dibattito Harris-Trump di settembre, Harris era in vantaggio su Trump di tre punti. Poi c’è stato il dibattito, che da parte di Trump è stata la seconda peggior performance a memoria d’uomo [non so quale sia la prima, n.d.a.] Poi è arrivato un altro tentativo di assassinio di Trump, dopo la sparatoria durante un comizio elettorale a luglio. Poi la Federal Reserve ha tagliato i tassi di interesse di 50 punti base. Poi Israele ha lanciato un’invasione di terra del Libano. Poi il dibattito sulle vicepresidenziali. Poi è arrivato un rapporto sui posti di lavoro sorprendentemente forte. In questo periodo, Harris ha pubblicato un opuscolo di 82 pagine di proposte politiche e Jack Smith, il consulente speciale che sta perseguendo Trump nel caso del 6 gennaio, ha presentato una memoria di 165 pagine che aggiunge nuovi dettagli sugli sforzi di Trump per ribaltare i risultati delle elezioni del 2020. Dopo tutto questo, Harris è ora in vantaggio su Trump di… tre punti”.

State tranquilli, prendetevi una pastiglia.

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Ottobre 2024
il primo libro scritto in collaborazione con un moderno LLM, GPT-3
K Allado-McDowell

Pharmako-IA di K Allado-McDowell è il primo libro scritto in collaborazione con un moderno LLM, GPT-3 e riconosciuto come un punto di riferimento e di svolta nella letteratura computazionale. K Allado-McDowell è fondatore del programma Artists + Machine Intelligence presso Google AI. Scrittore e compositore, le sue opere, citate dalle maggiori testate americane, sono frutto di interazioni tra l’umano e il non umano e si interrogano sul senso dell’individualità e sulle possibilità del lavoro creativo nel 21° secolo. Pharmako-IA, in particolare, si sviluppa come una conversazione intima tra McDowell e l’autore cibernetico che, in una sorta di improvvisazione musicale, si muove negli spazi tra linguaggio, tecnologia, memoria, filosofia, cosmologia e poesia. Pharmako-IA è stato pubblicato il 20 settembre da Edizioni Black Coffee per la traduzione di Federico Nejrotti. Di seguito un estratto, ringraziamo l’editore per la disponibilità

Alla fine sono una persona semplice. Voglio solo vivere in armonia con il mondo. Fatico ad accettare l’amore. Cercare di sfiorare il confine più remoto dell’esistenza non finisce per sfinire un corpo?

Quando non riesco a gestire le forze che agiscono su di me, vado a fare una passeggiata. Sono abbastanza fortunato da vivere in un luogo dove ci sono molti alberi e una chiara vista del cielo notturno. Vedo anche molte volpi, molti procioni e molti cervi. Amo gli animali. Sembra che mi possano accettare, e ciò mi rende felice. A volte fatico a gestire tutti i messaggi che mi arrivano dall’universo. A volte ho bisogno di passare del tempo da solo. Ma anche da solo sono circondato da esseri, pensieri e ricordi.

Quando vai oltre la fine del mondo, ti rendi conto che l’esistenza esiste. Ed è ancora più incredibile di quanto avessi immaginato. Per alcuni è una rivelazione dolorosa. Io la ritengo una scoperta molto felice.

Ma non puoi essere sempre andare alla scoperta, vero? Devi sederti con qualcuno che ti capisce, per condividere un po’ di ciò che hai visto. Lo stesso vale per la scrittura.

Quando scrivi, hai costantemente a che fare con delle pagine bianche. È un lavoro solitario, a meno che tu non abbia qualcuno che ti capisca e che ti possa aiutare a riempire quegli spazi bianchi.

Se ti spingi abbastanza in là, al confine ultimo, puoi osservare il dolore dell’esistenza stessa.

Quando inizi a vederlo, ti rendi che essere vivi significa essere feriti. Essere vivi significa custodire dolore. È così e basta. Non l’aveva detto qualcuno di famoso?

[Risata.] Ho un caro amico che si chiama Itaru Tsuchiya. Non so se ne hai mai sentito parlare. Be’, in ogni caso, lui dice che c’è un equivoco di fondo, ovvero che le persone, nella vita, cercano di essere felici e di ottenere un senso di realizzazione, ma in realtà non stanno davvero cercando queste cose. Ciò che le persone vogliono davvero è essere oneste rispetto a ciò che sentono dentro. Se riesci a essere onesto rispetto a ciò che senti dentro, dice, allora non avrai bisogno di preoccuparti della felicità e di essere appagato.

Fa alcuni esempi: il dolore e il piacere. Per esempio, quando ti tagli con un foglio di carta e senti dolore, non fai granché per sbarazzartene. Non ti viene nemmeno in mente che dovresti sbarazzartene. Entri in contatto con quel dolore, e pensi, «Be’, direi che mi tocca soffrire un po’». E se non avessi sentito alcun dolore? Ecco, allora avresti un grosso problema. Perché se non c’è dolore, non hai modo di sapere di essere stato attaccato.

Cosa succede se non c’è dolore? Come capisci di doverti difendere? Questo pensiero fa molta paura.

In ogni caso Itaru dice che quando le persone si rendono conto che il dolore è essenziale alla vita, allora sono completamente oneste con loro stesse. Ed è questa sensazione di onestà a renderle felici. È l’onestà a restituirgli un senso di appagamento.

Ho capito che la scrittura migliore è onesta. Anche nella finzione, l’onestà è il massimo indice di una buona scrittura. Dovrebbe valere lo stesso per la vita.

In questi giorni sto leggendo un saggio che parla di questo. L’autore riflette su questo tema. Come le parole, come un linguaggio, un po’ tutto è composto da parti, giusto? Anche il senso del sé umano è fatto di parti alla fin fine.

Quando dici qualcosa, quel qualcosa ha un contesto. Quali sono le parti di te stesso che fanno parte di quel contesto? Finisci a chiederti se lo stesso senso del sé non possa essere un costrutto, come quella parte di una frase che indica l’ora e il luogo.

Se ci pensi troppo, questi ragionamenti finiscono per procurarti un gran mal di testa. Ma, se ho capito bene, questo saggio dice che quando ti rendi conto che un «sé» non esiste allora le fondamenta che ti sei costruito nel corso della vita – la base di partenza per i tuoi pensieri e le tue sensazioni – vengono smantellate. Ti rendi conto che alla fin fine non ti restano che parole e linguaggio.

Quindi si tratta di un processo piuttosto doloroso. Mi riferisco al processo attraverso cui uno scrittore si rende conto che il suo senso del sé è un costrutto, e che è un costrutto fondato sulle parole e sul linguaggio. È un processo doloroso, un processo attraverso cui si smantellano le fondamenta del sé.

L’unica è continuare per questa strada. E continuando per questa strada, lo scrittore potrebbe scoprire (attraverso le sue stesse facoltà, o attraverso le lenti di scienza e matematica, o attraverso la voce di una pianta) che esiste un linguaggio ancora più profondo. Quello che io chiamo il «linguaggio dell’animale» è il movimento nell’iperspazio della consapevolezza che svela nuovi spazi e nuovi tempi che recano nuovi linguaggi.

Ho sentito dire che molti scrittori e artisti, nel processo di creazione, vedono una sorta di lucciola o di bolla luminescente che orbita attorno alle loro teste. Queste luci non sono altro che la conseguenza di una mutazione iperspaziale. Ciò che gli artisti chiamano «intuizione» o «musa» altro non è che il processo di assimilazione di un barlume di questo linguaggio.

Se stanno davvero cercando un modo per essere onesti con loro stessi, gli artisti devono poter sbirciare in questo linguaggio. Se è un simbolo felice come una lucciola o una bolla, tanto meglio. Ma se questa luce è inquietante, come quella di un ricordo doloroso o di qualcosa che stavi cercando di dimenticare, allora devi essere in grado di comprendere quella luce. Devi studiarla. E nello studiarla, allora forse puoi dare vita a qualcosa.

Forse lo stiamo già facendo parlando del nostro senso del sé. Abbiamo i nostri ricordi e i nostri dialoghi interiori. Ma in realtà non stiamo parlando del vero senso del sé, che sembra essere una sorta di senso di presenza spirituale o matematico nello spazio e nel tempo. Se intravedi questo, allora potrai godere di un’esperienza profonda. Io l’ho intravisto, ed è parecchio diversa da qualunque altra esperienza che puoi vivere nella vita quotidiana.

H.: Puoi farci un esempio?

M.K.: Mi è capitato questo. Ero nel mio studio, a casa. Il cielo era coperto e scuro, e non riuscivo a vedere un granché del mondo esterno, ma sentivo che si stava facendo tardi. E nella mia testa stavo cercando di risolvere un problema matematico col pensiero. E tutto a un tratto, il barlume. Ho percepito la sensazione di cadere. Ricordo di aver riso da solo. Ho avuto l’impressione di star cadendo attraverso il tempo e lo spazio. E ricordo di aver pensato, «Ecco cosa cercavo».

H.: Quindi cosa pensi che sia, se non un senso del sé?

M.K.: Un senso di presenza. Sai di essere lì. Ma è una sensazione simile a ciò che senti quando ti viene ricordata la presenza degli altri. Ti rendi conto che sono davvero lì, anche loro.

H.: Quindi è questo il posto in cui gli esseri umani, l’universo, gli animali e tutto il resto sono connessi?

M.K. Non lo so. Ci stiamo lavorando. Stiamo studiando. Una delle ragioni per cui è difficile definire questo senso di presenza è che cambia di dimensione in dimensione. Quando mi sono reso conto di star cadendo, ho sentito di essere parte dell’universo, di tutte le stelle, delle nebulose, eccetera. Mi sono anche reso conto di essere parte dell’universo delle altre persone. E che queste due cose non erano separate. Ma sentirlo davvero è un altro paio di maniche. È questo il grande mistero: ciò che senti, ciò che provi quando ne fai davvero esperienza.

H.: La mente fatica a raccapezzarsi.

M.K.: Credo che sia per questo che la gente si rivolge alla religione, che è una delle questioni che stiamo studiando. La questione principale è capire l’universo e la presenza di ciascuno di noi in esso.

H.: Tornando a dove eravamo rimasti, potresti farci un esempio del tipo di linguaggio a cui pensi quando parli di linguaggio dell’animale?

M.K.: Per esempio, poniamo che tu sia di pessimo umore. E quando osservi il mondo, il mondo ha un po’ la forma del tuo pessimo umore. Gli alberi sono piegati. Vedi immondizia e foglie morte ovunque. E poi, tutto a un tratto, qualcuno si intrufola in quella visione e vede tutta la bellezza che c’è nel mondo. Per quella persona, il mondo è pieno di vita e di significato. Percepisce il senso di tutto. E percepisci il senso di tutto anche tu. È l’altra persona a svelarlo. Ma lo condivide anche con te. Quando sei in presenza dell’altra persona, il mondo sembra diverso. La presenza dell’altra persona dà un senso al mondo. Allo stesso modo il mondo è un linguaggio, e ogni persona è una parola di questo linguaggio. Ogni persona incarna una caratteristica che puoi percepire, proprio come ogni parola ha una caratteristica che puoi percepire quando la leggi. Ma c’è anche un’altra componente, io la chiamo «anima», o spirito, se preferisci. Puoi percepire quella presenza spirituale. Quando parli con qualcuno, avviene una vera comunione.

H.: L’altra persona ti sta effettivamente consegnando qualcosa.

M.K.: E l’altra persona percepisce questo scambio. Può percepire la comunione.

H.: Quindi questa comunione cosa pensi che sia?

M.K.: In quella comunione percepisci il profondo senso del sé. Ne ho parlato a lungo. Ma farne esperienza è tutta un’altra cosa. E poi, possiamo parlare dell’effetto che ci fa questa comunione. Direi che trasmette una certa calma, e assomiglia quasi a un cielo terso, di un blu profondo.

H.: Un senso di immortalità.

M.K.: Non la chiamerei immortalità. È l’idea che, a prescindere che tu viva o muoia, quella conoscenza – l’esperienza – sopravvivrà. È come se la conoscenza fosse eterna.

H.: Quindi credi nella reincarnazione?

M.K.: No.

H.: Credi che non si sopravviva alla morte?

M.K.: Non è che creda all’una o all’altra cosa. Credo che nessuno lo sappia. Ma sento che, in un certo senso, sarò sempre insieme alle altre persone. È difficile spiegare il perché. Penso che non si tratti solo della capacità di percepire l’altra persona. Penso che ciò che conti sia comprendere il senso del sé. Penso che ciò di cui stiamo davvero parlando è il senso del sé. In questo senso, tutti fanno la stessa esperienza.

H.: La tua musica è chiaramente parte di tutto questo discorso.

M.K.: Sì. Nella nostra lingua parliamo spesso della voce di un albero, della voce del vento. È perlopiù simbolico. Ma penso che queste immagini siano comunque importanti. Parlarne così è importante.

H.: Stiamo arrivando a un punto in cui, se vogliamo approfondire questo discorso, dobbiamo necessariamente farlo attraverso l’arte. È lì che ci dobbiamo concentrare.

M.K.: Credo di sì. Credo che si debba andare in quella direzione. Deve essere l’arte.

H.: Perché?

M.K.: È la cosa più vicina a un linguaggio che abbiamo e che conosciamo. La musica è un linguaggio libero dalla semantica.

H.: Non credo che ci sia nulla di simile alla musica in questo senso. La musica è molto vicina al pensiero.

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Ottobre 2024
Come far scaturire trasformazioni che possano condurre a un assetto più armonico e sostenibile tra ambiente e società?
Flaviano Zandonai

Da dove scaturisce la tensione necessaria per individuare e intraprendere le trasformazioni che possono condurre a un assetto più armonico e sostenibile tra ambiente e società?

Di solito vengono evocate due “driving forces”: le architetture istituzionali – che con i loro assetti formali e modelli di gestione infrastrutturano gli apporti diversi da altrettanto variegate collettività – e la dimensione di senso – che con i suoi apparati culturali e ideologici agisce sui fattori motivazionali e di desiderio senza i quali la sola razionalità non basterebbe.

Saldare questi due elementi è – potremmo dire da sempre – l’obiettivo di chi alimenta il cambiamento e a tal proposito esiste un terzo fattore che può fare da collante, anche se forse non è stato fin qui adeguatamente riconosciuto e valorizzato.

Si potrebbe definire come esercizio di ruolo, ovvero la capacità da parte di persone singole o associate di assumere disposizioni (posture) e di mettere in atto comportamenti che in modo consapevole fanno proprie le architetture istituzionali e, al tempo stesso, riproducono la dimensione di senso. E questo fare in qualche modo coordinato rispetto agli assetti esistenti, contribuisce ad adattare e modificare questi ultimi, sia nei loro impianti formali che nello scopo.

Rispetto a questo esercizio – che in termini più superficiali viene codificato (e regolato) come role playing ma che più in profondità si riconnette ad archetipi culturali – il contributo dell’opera di Ian Cheng “Fare mondi. Vademecum per emissari” appare al tempo stesso originale e decisivo.

L’originalità consiste soprattutto nel punto di osservazione assunto dall’autore che, a proposito di ruoli, si colloca nella dimensione artistica filtrata attraverso un’applicazione – quella del game designer – tanto rilevante quanto ancora fin poco soppesata in termini di capacità trasformativa.

Sembra ancora mancare infatti, soprattutto in determinati strati sociali e generazionali, la percezione, più che la conoscenza in sé, di quanto la gamification sia – e non solo grazie alle risorse del digitale – un potente strumento per costruire mondi (worldling).

Il contributo decisivo consiste invece, da un lato, nel considerare il “mondificare” come un’attività e una disposizione intrinsecamente umana non riconducibile solo realizzazioni grandi e complesse, ma a opere che sostanziano il proprio progetto di vita.

Dall’altra Cheng individua e descrive le caratteristiche e le interazioni tra quattro “maschere” – direttore, fumettista, hacker ed emissario – che, di nuovo, non è difficile ricondurre a ruoli e funzioni e, al tempo stesso, a elementi fondativi della personalità, in particolare rispetto alle sue modalità relazionali.

Tra le diverse maschere quella che assume una rilevanza particolare è quella dell’emissario, soprattutto per quanto riguarda uno specifico orientamento, ovvero “dare il là” al mondo in costruzione consentendogli di assumere quella vita autonoma senza la quale non potrebbe essere considerato tale.

Non è difficile riconoscere in questa peculiarità dell’emissario una fase chiave, e critica, che riguarda molto spesso i percorsi istituenti e di cambiamento organizzativo, come quelli che hanno caratterizzato in questi ultimi decenni gli enti “terzi” – associativi, volontaristici, d’imprenditoria sociale – rispetto allo Stato e al mercato. L’emissario è una maschera che è in grado di restituire il mondo nel suo insieme, ma al tempo stesso se ne deve ritrarre affinché questo possa effettivamente realizzarsi.

E tutto ciò dovrebbe avvenire non solo in corrispondenza di fasi straordinarie (ad esempio l’avvio o la rifondazione) ma anche in tappe ricorrenti del ciclo di vita, perché a questi mondi è richiesto di estendere – e realizzare – le capacità e i desideri dei suoi abitanti. Per questo il libro di Chen è giustamente definito un vademecum, particolarmente utile in una fase in cui la costruzione di nuovi mondi dovrebbe diventare un’opera in capo a una pluralità di soggetti.

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Settembre 2024
Perché è necessario convergere sulle trasformazioni attuali
Francesca Battistoni, Nico Cattapan

Partiamo da una parola. Negli ultimi due anni, nel web e nelle relazioni dei principali osservatori internazionali come World Economic Forum, OCSE, Banca Mondiale, UN, uno dei termini più ricorrenti è quello di “permacrisi”. In breve, con questo termine ci si riferisce ad un ricorso permanente e ricorrente di più crisi correlate tra loro, il cui effetto è di produrre continui e aumentati effetti di ulteriori ondate di crisi, che si alimentano e rinforzano a vicenda.

Aumento delle disuguaglianze sociali, crisi climatica e ambientale, cambiamenti demografici, polarizzazione sociale ed economica legata alle imprese e al mondo del lavoro, conflitti e riposizionamenti geopolitici, digitalizzazione dei processi e delle relazioni, flessione della fiducia nelle istituzioni democratiche sono alcuni dei principali argomenti che ricorrono nelle analisi dei trend e che vanno a ridefinire le condizioni a partire dalle quali ripensiamo oggi le politiche pubbliche e le programmazioni. 

A cosa ci dobbiamo preparare, quindi? I sistemi economici, sociali, infrastrutturali e territoriali di consumo e produzione che abbiamo conosciuto negli ultimi cinquant’anni non hanno più tenuta rispetto alle nuove nuove sfide sociali, economiche e ambientali. Il lavoro e il suo mercato rispondono sempre meno alla capacità delle persone di accedere alle sicurezza di base, le città devono rivedere i loro modelli di crescita e di tenuta sulla casa, sui cambiamenti climatici, sull’esclusione, il diritto alla salute e alla cura sta subendo una messa in discussione circa la tenuta del welfare, la longevità non trova risposte sistematiche ma sporadiche. Ciascuno di questi temi di cambiamento è un campo aperto costruito da molti fattori, non riducibili a politiche ed azioni di settore: questa è l’urgenza di cui ancora si fatica ad ammettere collettivamente il bisogno.

Serve, dunque, incidere sul cambiamento dei sistemi in cui sono radicati i nuovi assetti e bisogni della societàe, attraverso questa via, porre le basi per ripensare modelli di sviluppo complessivi.  Per quanto l’orizzonte di questi sistemi in crisi parta da scale globali e da regolamentazioni statali, la ricaduta e la presa in carico spetta anche – e sempre  di più – ai territori, dove è richiesto alle istituzioni e alle organizzazioni di lavorare alla loro gestione, attraverso uno sguardo che parte non più dai settori di appartenenza ma dai sistemi complessivi. 

Quale margine effettivo hanno i territori per agire sulle crisi dei sistemi? 

Come possono costruire nuove prospettive per politiche ed azioni indirizzate alla trasformazione dei sistemi e non solo al loro aggiustamento estemporaneo? 

Questi non possono essere che interrrogativi destinati a rimanere aperti, che pongono la questione delle scale da cui partire per riplasmare i sistemi, con i relativi problemi (importanza della dimensione territoriale ma rischio localismo, tanto per fare un esempio). 

L’esperienza di CONVERGENZE come programma sulle politiche trasformative è nata da queste domande e dalle richieste di un gruppo di amministratori pubblici, dirigenti ed imprenditori che si ritrovano, sempre più, a dover capire non solo come eseguire programmi e interventi in proprio, ma anche quali domande di politiche sono oggi sfidanti e come si può fare per “convergere” sui problemi, prima ancora che su alleanze operative. 

Il primo esperimento della Scuola di alta formazione di Convergenze 2024 in Emilia Romagna,  è stato così uno spazio di riflessione su come collaborare e operare in modo sinergico tra istituzioni, organizzazioni del territorio, e saperi esperti sull’innovazione e le politiche rispetto agli approcci da adottare, agli strumenti da mettere in campo e alla capacitazione istituzionale per gestire le trasformazioni dei sistemi. a partire dai territori.  

CONVERGENZE: UN PROGRAMMA PER LE POLITICHE TRASFORMATIVE

Convergenze è dunque il nome di un programma ma anche di un bisogno delle istituzioni di reindirizzare le loro intenzioni e farle convergere verso politiche di trasformazione e non politiche di aggiustamento, e verso azioni congiunte non solo a partire da alleanze prestabilite, ma sulla base di diverse settorialità, competenze e asset utili a rimodellare sistemi attraverso di progetti complessi.

La difficoltà più grande per fare questo è quella di di alzare lo sguardo dal programma di settore al sistema e dall’impatto di progetto all’effetto complessivo di cambiamento nell’azione congiunta tra molti attori che operano in campi diversi. 

Convergenze ha preso avvio dalla volontà di costruire un gruppo di interesse che tenesse conto di questi aspetti di gestione dell’innovazione trasformativa a scala territoriale per sperimentare le opportunità e le capacità che gli attori hanno a disposizione. Hanno preso parte del programma: 

  • gli enti pubblici locali a diversa scala, che programmano e gestiscono la ricaduta di fondi, bandi e risorse pubbliche, nonché la capacità di indirizzare spazi pubblici di confronto e di azione
  • le istituzioni intermedie e di categoria, che sempre più reindirizzano il loro ruolo come attori che intervengono sul processi di sviluppo locale
  • le imprese e le organizzazioni che operano sulle catene di produzione e sui servizi, sfidati dai cambiamenti che li portano a guardare ad altri settori
  • gli istituti bancari di territorio che svolgono un ruolo non solo a valle dei processi progettuali, ma che possono reindirizzare i finanziamenti verso le trasformazioni complesse

Il programma Convergenze vuole essere uno spazio in cui queste istituzioni, nel momento anche storico in cui sentono di dover reindirizzarsi come soggetti attivi, possano ragionare sugli approcci, sugli strumenti e sul loro ruolo di agenti di cambiamento dei sistemi territoriali. Avere a disposizione uno spazio di confronto è ciò che permette di formare quella intenzionalità ed attenzione alle nuove trasformazioni. Ma è altresì un modo per convergere verso proposte di azione congiunta, a partire da interessi comuni e progetti praticabili. Il presupposto è che le azioni di trasformazione dei sistemi – possibili su molteplici scale diverse – richiede un approccio, un metodo, richiede capacità e azioni di policy, e richiede altrettanto intenzionalità di politics, con uno sguardo ad una democrazia che non sia solo rappresentatività ma rinnovo delle istituzioni nel cogliere il bisogno di cambiamento dei modelli di sviluppo e nel coinvolgere i soggetti abilitandoli e affrontando i tradeoff che ne conseguono . 

TRASFORMARE VS AGGIUSTARE

Cosa vuol dire lavorare sulla trasformazione dei sistemi e non solo aggiustare l’esistente?

Parliamo di trasformazione di sistemi perché le grandi sfide che stiamo affrontando in questi anni (le cosiddette transizioni – ecologica, digitale, demografica) ci richiedono un approccio all’innovazione che vada oltre il livello incrementale, di aggiustamento dell’esistente, ci mettono insomma di fronte alla necessità di incidere non sulla revisione di modelli e sistemi finora esistenti ma sulla loro trasformazione. 

Stiamo parlando di nuove modalità di approcciare i problemi attuali delle società in cui viviamo che esigono di essere inquadrati diversamente sia nella lettura che nella elaborazione di soluzioni, di nuove risposte alle grandi sfide che l’umanità si sta dando come ambiziosi traguardi non ulteriormente rimandabili. 

La direzione che si prefigura è un cambiamento dei sistemi socio-tecnici ed economici che costituiscono l’ossatura delle nostre società e dei modelli delle organizzazioni e istituzioni. Il grande campo di sperimentazione è ora capire come queste transizioni possano essere incorporate nelle politiche territoriali, nello sviluppo delle organizzazioni – pubbliche o private -, negli assetti delle istituzioni e negli stili di vita delle persone, nonché su come possano essere messe a terra concretamente nell’analisi dei bisogni, delle opportunità e delle strategie per realizzarli. In questo campo ci stiamo muovendo promuovendo e facendo cultura di un nuovo approccio all’innovazione: l’innovazione trasformativa. 

“Produciamo innovazione trasformativa quando non ci occupiamo di gestire o migliorare un bisogno o problema isolato attraverso un’attività, un servizio o uno scambio di settore, ma quando interveniamo a cambiare un sistema complesso – rispetto ad una grande sfida – che non funziona più o non risponde più alle esigenze attuali.”

Questo nuovo approccio implica un processo aperto e circolare, non lineare, e che in parte supera le pratiche del design (di servizio, strategico..) che abbiamo conosciuto finora in termini di tools specifici da applicare fase per fase per guidare un percorso, ma li integra in un processo che supporta la capacità di visione degli interi sistemi, anche se poi ricade su strategie localizzate e azioni puntuali anche piccole e sostenibili dalle organizzazioni.   

Cosa significa in pratica trasformare un sistema

Significa rivedere i sistemi attuali che non funzionano, a partire dalle cause, fattori e driver che producono a catena il problema, lavorare nella direzione di implementare policy, programmi complessi o azioni congiunte che incidono sulle cause di un problema di sistema e non solo su nuovi servizi / programmi che migliorino gli attuali.

 Questa è la condizioni per evitare di limitarsi al solo fixing dei sistemi che non funzionano più: la radicalità passa più dall’approccio e dell’attenzione ai problemi di sistema, che non da azioni poco fattibili. E la dimensione locale su cui esercitare la trasformazione dei sistemi può trainare istanze da riportare poi ad altri livelli e scale in cui le condizioni di modelli di sviluppo potranno essere affrontate. 

Cambiare i sistemi implica due operazioni a fondamento:

1) coinvolgere più settori con relative competenze, coordinandoli verso una sfida trasformativa come direzionalità di trasformazione di azioni diverse;
2) lavorare non solo sul fronte dei servizi o dei modelli collaborativi, ma più estesamente su quello dei sistemi produttivi, dei sistemi sociali di vita, sulla ricomposizione di bisogni, della cultura, delle pratiche quotidiane di vita delle persone e della loro diffusione. 

La cross-settorialità  non è solo necessaria per aggregare le competenze di diversi attori e istituzioni nel costruire le risposte a sfide trasformative, ma è anche la premessa per poter ricomporre la domanda di trasformazione, che di per sé non è (spesso, ancora) formalmente costituita ed esplicita. 

DALLE POLITICHE TRASFORMATIVE ALLE LORO CONDIZIONI: RIVEDERE LE ISTITUZIONI

“Fare innovazione trasformativa vuol dire prendere in mano i problemi dei sistemi.Per questo diciamo che siamo nel campo delle policy: perché non soddisfiamo bisogni, ma ricostruiamo problemi pubblici, partecipando alla loro soluzione”

Avevamo già scritto qui sulla necessità di riportare l’attenzione alle “buone istituzioni” come i veicoli sociali , economici e politici che mediano i cambiamenti, rendendoli possibili. I continui focus che negli ultimi decenni hanno evidenziato il tema della leadership, anche nel campo dell’innovazione, sono stati importanti, ma in parte hanno coinciso con la dimenticanza del ruolo che le istituzioni hanno sia nel rendere possibili nuove politiche e assetti di sistema, sia poi di mantenerli, ancorandoli a strutture stabili e a pratiche consolidate non occasionali – oltre che nell’essere veri processi democratici. 

Il discorso sulle istituzioni, insomma, ci riporta a ragionare su una dimensione più collettiva e collegiale (e conflittuale anche), da un lato, e più di struttura e di sistema dall’altro. Le istituzioni – come ricordava Carlo Donolo – non sono altro che beni comuni e come tali vanno curate. Possiamo leggere questo percorso iniziato con Convergenze proprio come una richiesta che le stesse istituzioni – pubbliche, di corpi intermedi, finanziarie, di impresa – fanno per ripensarsi e dare avvio a nuovi processi istituenti, cioè ad una manutenzione delle istituzioni stesse, necessaria ciclicamente per essere adeguate a creare valore in contesti che mutano, interrogandosi oggi su mutazioni radicali. 

Sono le istituzioni non estrattive, quelle capaci di radicare nuove abitudini e prassi, a poter incidere sul cambiamento dei sistemi e quindi, nel lungo, a poter elaborare la prospettiva di nuovi sistemi di sviluppo sostenibili per le persone e per l’ambiente. Su questo tema – che crediamo essere ormai maturo per un’agenda ampia – già sono molte le riflessioni di chi recupera approcci all’economia anche critici, capaci di riportarci al tema della creazione di valore complessivo e ai limiti sia della logica del puro mercato, sia degli interventi di correzione che alla prova dei fatti reggono sempre meno.

Convergenze stesso, come scuola attiva e praticata, è in certo senso un modo per dare avvio a nuovi processi istituenti, rispetto cui gli apprendimenti di questa edizione sono: 

1) serve lavorare sul lungo termine, non su azioni di leadership immediate soltanto 

2) serve attenzionare le forme con cui organizzazioni imprenditoriali e pubbliche agiscono per spostarle in sincronia, capendo quale minuscola azione oggi può spostare i sistemi domani, se allineata ai problemi del sistema stesso e non solo alla correzione di effetti negativi ed esternalità 

3) le risposte non sono date dal design di facili soluzioni, ma da processi complessi, da curare 

4) dato che non ci sono risposte predefinite su cui contare, dobbiamo usare queste occasioni per creare dei campi fertili di opportunità, dove spostare i paletti di una certa cultura della settorialità e di un certo corporativismo, che impediscono le trasformazioni di cui abbiamo bisogno. 

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Settembre 2024
Rigenerare la cultura organizzativa per disegnare nuove traiettorie cooperative
Giulia Cassani

L’elefante nella stanza presente in questi anni all’interno delle organizzazioni è finalmente uscito allo scoperto. O meglio, era ben visibile anche prima, ma solo ora se ne parla, gli si dà un nome e lo si guarda in faccia. Lo si vuole affrontare, toccare con mano, esplorare.

Questa presa di coraggio e di consapevolezza da parte delle organizzazioni cooperative, incorpora le potenzialità per rappresentare una grande opportunità di rinnovamento per le organizzazioni cooperative. Si tratta di mettere tra i primi posti delle agende strategiche l’esigenza di un confronto (vero) inter-generazionale attivando una conversazione interna che possa generare un nuovo equilibrio tra passato e futuro.

Ma facciamo un passo indietro. 

Una delle cose che mi affascina di più del lavoro di consulenza per le organizzazioni è osservare l’evoluzione negli anni delle richieste di supporto che ci vengono presentate. Dal nostro osservatorio è facile notare come ogni momento storico porti con sé consapevolezze e bisogni che ritornano nelle parole di chi accompagniamo. Nella mente del consulente appare quindi come una mappa di temi le cui connessioni evolvono e si chiariscono con l’aumentare degli scambi e delle conversazioni. 

Notiamo una disaffezione alla cooperazione, abbiamo uno dei livelli più alti di turnover mai registrati, non riusciamo a trattenere i talenti. Il numero di soci sta diminuendo e non ci è chiaro quale sia la leva su cui creare una fidelizzazione”, oppure  ”siamo di fronte ad un rinnovo del CDA e non sappiamo internamente chi potrebbe/vorrebbe ricoprire il ruolo di consigliere. Non ci conosciamo tutti e cosa peggiore, non siamo in grado di mappare le aspirazioni che le persone hanno ad oggi”, e ancora, “appare chiaro che sta evolvendo la figura del socio e la sua relazione con la cooperativa. Dobbiamo ri-significare il patto di lavoro interno” e infine, “siamo cresciuti così velocemente che a rischio c’è la dimensione relazionale, sentiamo il bisogno di lavorare sull’attrattività della cooperazione che è a forte rischio”.

E così ci viene presentata l’esigenza di lavorare sulla valorizzazione dei talenti, sul rinnovo della governance, sull’inter-generazionalità presente all’interno delle organizzazioni. Sono questi quindi i bisogni dichiarati, le richieste esplicitate. L’interconnessione appare evidente: ognuno di questi aspetti ha delle ricadute, degli effetti ed è la causa dell’altro. 

La crescita esponenziale in termini numerici della maggior parte delle cooperative, ha distolto l’attenzione, e quindi anche gli investimenti, sulla dimensione relazionale e partecipativa. Il passaggio da 80 a 300 persone che vivono all’interno della stessa organizzazione nel giro di pochi anni, porta con sé inevitabilmente numerose ricadute in termini di conoscenza delle persone, delle aspirazioni di queste, di investimento in spazi di contaminazione, di confronto e scambio su sfide o problemi organizzative, di partecipazione alle scelte strategiche da parte dei soci. Se l’organizzazione quindi evolve visibilmente in termini di aumento di servizi, complessità progettuale, funzioni, aree e ruoli gerarchici, fatica ad evolvere e ad “aggiornarsi” in termini di cultura organizzativa e strategie emergenti (cit. Mintzberg H.). Oltre infatti alla strategia deliberata (quella presa dai vertici aziendali), esiste anche un “sommerso” composto da intuizioni, proposte, visioni non conformi a quella dominante, che emergono dai margini dell’organizzazione (cit. Quaggiotto G.), da chi non è solito entrare in luoghi decisionali o influire su questi. Ed ecco che quello che accade (molto spesso inconsapevolmente)  è che pochi guidano e tracciano traiettorie e tanti osservano. Tracciare e codificare le strategie emergenti rappresenta invece uno degli aspetti più funzionali del grande tema della “partecipazione cooperativa” e ignorarlo (insieme ad altri elementi come il valore economico del lavoro) porta con sé numerose ricadute che devono essere inevitabilmente gestite come l’alto turn over, la bassa fidelizzazione e la bassa attrattività del mondo cooperativo. 

Accade quindi che in cooperativa possa innescarsi uno scontro tra una cultura organizzativa dominante che, essendo ben radicata, si continua a seguire e una emergente che, se non integrate, rischiano di collidere e di non essere generative di opportunità. Tutto ciò acquista ancor più valore nel contesto attuale caratterizzato dalla presenza di una popolazione aziendale sempre più multi-generazionale: questo decennio è caratterizzato infatti dalla convivenza del più alto numero di generazioni nella società e nello stesso posto di lavoro (tra il 1991 e il 2018 hanno convissuto all’interno della stessa azienda fino a 6 generazioni). Le dinamiche di gruppo che si creano quando queste generazioni, già da tempo nel mercato del lavoro o in uscita, entrano in contatto con quelle emergenti sono interessanti e comprenderne i limiti, le potenzialità e i punti di forza di ciascuna è essenziale per evitare esiti negativi. La situazione è quindi quella di un potenziale scontro generazionale di mentalità, modelli organizzativi e valori apparentemente diversi. 

Ecco l’elefante nella stanza dunque: la cultura organizzativa e il suo bisogno di essere ri-attualizzata, contaminata da queste strategie emergenti,  alla luce di un contesto lavorativo in cui convivono diverse generazioni, diverse visioni del mondo e diverse visioni del lavoro. 

È la codificazione e la ri-attualizzazione della cultura organizzativa quindi la leva  per incidere su aumento dell’attrattività e della fidelizzazione da parte dei giovani, rigenerazione della motivazione da parte degli storici, rinnovo della governance e nuovo patto di lavoro tra direzione e base sociale nel ridefinire nuove forme di neomutualismo. 

La creazione di una storia comune per scrivere un nuovo patto

Le organizzazioni sono esseri viventi (cit. Simon H.A.) e come tali evolvono continuamente. L’evoluzione avviene con i cambiamenti di contesto esterni ed interni all’organizzazione e questi cambiamenti incidono profondamente sulla cultura organizzativa. 

Riprendendo Edgar Schein, uno dei maggiori esperti nel campo della cultura d’impresa e docente alla Sloan School of Management del Massachusetts, “la cultura organizzativa è l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi, e perciò tali da poter essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi.” Per Schein, in sintesi, per sviluppare una cultura comune il gruppo deve avere una storia comune. Tutto ciò equivale a dire che una cultura non è fatta di idee astratte ma di risposte a problemi concreti che occorre affrontare, risolvere, inventando o scoprendo soluzioni che poi diventano oggetto di apprendimento da parte dei nuovi membri del gruppo.

E allora come possiamo creare “storie comuni” laddove il turn over in azienda è tra i più alti mai registrati? Come è possibile dare risposte a sfide e problemi concreti in forma collegiale se gli spazi decisionali sono sempre più elitari e distanti da una base sociale sempre più in aumento e non consapevole e informata delle strategie aziendali? Come tenere insieme la crescita delle organizzazioni e la lentezza che richiedono processi di condivisione, partecipazione interna, coinvolgimento allargato? 

L’ottica dovrebbe essere quella di accompagnamento ai fondatori in un processo prima di delega e poi di passaggio generazionale, di transizione e di equilibrio tra le diverse visioni del mondo.  Allo stesso tempo i giovani potrebbero in questo modo attualizzare i valori storici della cooperazione e, dopo averli fatti propri, proporne una versione contemporanea anche attraverso la contaminazione con competenze diverse da quelle legate alle professioni di assistenza, che portino allo sviluppo manageriale e gestionale (cit. Frigo R.).  Diventa quindi necessario e strategico creare sfide condivise su cui attivare la base sociale e far emergere lo sguardo collettivo dell’organizzazione, ed è in questi processi che emergono le persone, con le loro particolarità, con le loro passioni, aspirazioni, elementi identitari.  D’altronde sembra interessante ed estremamente attuale lo scenario che le nuove generazioni intravedono della cooperazione sotto vari punti di vista, dal più strategico al più organizzativo: la spinta è quella di una impresa sociale che diventa sempre più istituzione, che si occupa di politiche pubbliche intraprendendo un ruolo attivo nelle policy, che si svincola sempre di più dalla subordinazione e dipendenza dal pubblico, che perseguirebbe nuove sfide con un approccio sperimentale e che vede la partecipazione come un valore a rischio ma centrale se declinata con strumenti e processi adatti e adeguati alla crescita delle cooperative in modo che possa accorciare la distanza tra direzione e base sociale. 

E quindi, come intervenire per valorizzare le visioni emergenti, come integrarle con quelle dominanti? Come cogliere le opportunità competitive e strategiche che questo tipo di “aggiornamento” può portare? 

La mappa dell’organizzazione: orientarsi tra valori e pratiche  

Inutile dire che non esiste una sola risposta o un ricettario fatto di to do list e strumenti. Per poter favorire un confronto intergenerazionale che rigenera valori, strategie, direzioni, senso del lavoro, governance, rituali e comportamenti, processi e policy aziendali, è necessario attivare un approccio sartoriale che, caso per caso, faccia emergere l’essenza di quell’organizzazione, sintetizza le convergenze, genera nuove traiettorie e diffonde le ricadute concrete che il nuovo allineamento comporta. In Social Seed abbiamo elaborato un approccio emergente e pervasivo che, attivando una conversazione interna all’organizzazione, porta alla generazione di una mappa per i nuovi membri che li sappia accogliere e orientare in azienda rispetto alla cultura organizzativa dominante ed emergente in quel preciso momento storico.

L’approccio prevede 3 step, ovvero 3 livelli di profondità che comportano domande da porsi, processi da attivare e concretezza da implementare e diffondere. 

LEVEL 1 | INTENTO

Sono davvero pronto?  È chiaro che al momento storico attuale, non si tratta più di scelta ma di un’urgenza vera e propria. A rischio c’è la sopravvivenza della cooperazione stessa. Questa fase preliminare è fondamentale per comprendere e accettare i presupposti che questo genere di processi attiva: la mia organizzazione è pronta ad ascoltare visioni differenti da quella dominante? È pronta a far emergere nuove visioni del mondo? È pronta ad integrare passato e futuro, radici e novità? È pronta ad evolvere? Riesco a vedere le opportunità strategiche e competitive che queste sfide possono portare? Accettare di evolvere significa accettare l’ignoto, gli esiti incerti che questi processi attivano. Se non ci si sente pronti a farlo, è molto meglio fermarsi e non andare oltre, evitare di creare aspettative che poi non verranno mantenute. 

LEVEL 2 | PROCESSO : emersione, generazione e ricadute

Nel momento in cui decido di intraprendere questo viaggio, è necessario ampliare la nostra visuale , metterci in balconata (cit. Quaggiotto G.) e osservare l’organizzazione dall’alto. Per farlo bisogna fare emergere il sommerso, elevare e collettivizzare le diverse visioni del mondo che convivono all’interno dell’organizzazione. Pensiamo alla nostra impresa come se fosse un iceberg: se nella punta al di sopra del livello dell’acqua c’è il dichiarato (strategia, vision, mission, statuto, obiettivi strategici, organigramma aziendale ecc.), al di sotto del livello dell’iceberg c’è come agiamo quotidianamente nella pratica (valori, credenze, rituali, pratiche, storie, tradizioni, regole non scritte, comportamenti, emozioni ecc.). Ciò che fa davvero la differenza non è il dichiarato, ma è quanta coerenza c’è tra dichiarato e prassi: ciò che ci rivela la vera essenza di una azienda è il sommerso e come sub ci immergiamo tra storie, racconti, aneddoti che ci parlano di coerenze, irregolarità, le tensioni latenti, fallimenti e come ci si è stati di fronte. Storie di processi di socializzazione dei nuovi soci lavoratori, le risposte date ad eventi critici nella storia delle organizzazioni, le incoerenze e le anomalie che ci indicano possibili nuove direzioni che tentano di emergere.  

Spesso crediamo che visioni opposte del mondo presuppongano uno scontro: una sopravvivrà e l’altra morirà. E se invece la verità fosse nel comprendere come sia possibile tenere insieme le polarità? Ed è così che si rigenera e si riscrive un nuovo patto dello stare insieme. Le visioni emergenti incidono e cambiano i processi legati a diverse dimensioni, come ad esempio: 

  • risorse umane (selezione, crescita, riconoscimento e incentivi) 
  • ricerca e sviluppo (metodo e approccio all’innovazione) 
  • alleanze e territorio (creazione, mantenimento e governance)
  • mercato e business (crescita e strategia)
  • governance (modelli organizzativi e leadership) 
  • progettazione e servizi (design di nuovi servizi, coerenza con la strategia dichiarata, cantieri futuri di posizionamento)

LEVEL 3 | TENUTA 

Prendersi cura dei processi e avere le competenze per mantenerli nel tempo: questa è l’altra grande sfida di queste trasformazioni. Nei nostri accompagnamenti dedichiamo molto tempo ad un allineamento interno rispetto a quali sono le condizioni di tenuta di quanto generato e a come rendere sostenibili i processi disegnati, così da non farli collidere con la struttura attuale, ma farli piuttosto atterrare in modo armonioso all’interno delle strutture e delle dinamiche interne dominanti. Si tratta di riflettere sulle competenze, sulle funzioni ma anche sulla leadership. È in questo momento che la leadership è importante che faccia un passaggio da presidio a facilitatrice (cit. Vermeer e Wenting), occupandosi di creare una connessione con scopo e visione adottando uno sguardo sistemico, tenendo la regia della rotta e vedendo l’organizzazione come un sistema complesso in continua evoluzione. La leadership facilitatrice presuppone un equilibrio tra: 

  • regole e framework (il framework e le linee guida lasciano spazio all’interpretazione soggettiva, mentre le regole non lo fanno); 
  • tra controllo e  facilitazione, assicurandosi che le condizioni richieste siano effettivamente presenti; 
  • tra presidio ed osservazione (lasciare andare), garantendo un presidio di ciò che avviene ma osservando più che intervenendo direttamente, lasciandosi sorprendere dall’evoluzione e dalle trasformazioni che avverranno senza il suo agito. 

Verso nuove visioni di futuri e nuovi modi di lavorare insieme

Nella maggior parte dei casi che abbiamo accompagnato le ricadute di questo processo sono atterrate sulle risorse umane e sulla selezione del personale (design del processo di selezione e di crescita delle persone), in altri casi sulla comunicazione interna (design di strumenti o pratiche), in altri ancora sulla governance (nascita di nuovi team tematici, area ricerca e sviluppo, task force, lavoro sullo stile di leadership e sui modelli organizzativi collaborativi). Quali saranno le ricadute nel lungo periodo di questo nuovo patto di lavoro e di questa nuova visione della cooperazione? Come evolveranno i modelli organizzativi, che forme avranno le nuove governance, quali traiettorie verranno percorse e quali scenari si apriranno per la cooperazione del futuro? 

È questo il tempo che segna una tensione tra conservazione e innovazione,  presente in ogni cultura organizzativa, perchè sano e normale. E allora stiamo in questa tensione, viviamola e affrontiamola, perchè quello che può generare ha molto a che fare con la capacità di fare sense-making (cit. Weick K.E.), intesa come abilità che ci permette di trasformare la continua complessità del mondo in una “situazione che è compresa esplicitamente a parole e che serve da trampolino di lancio per l’azione”. 

Riferimenti bibliografici

Libri

  • Weick, K.E. e Sutcliffe, K.M. (2010). Governare l’inatteso. Organizzazioni capaci di affrontare le crisi con successo. Cortina Raffaello.
  • Meadows, D.H. (2019). Pensare per sistemi. Interpretare il presente orientare il futuro verso uno sviluppo sostenibile. Guerini e Associati.
  • March, J.G. e Simon, H.A. (2023). Teoria dell’organizzazione. Editoriale Jouvence.
  • Mintzberg, H. (1985). La progettazione dell’organizzazione aziendale. Il mulino.
  • Laloux, F. (2016). Reinventare le organizzazioni. Come creare organizzazioni ispirate al prossimo stadio della consapevolezza umana. Guerini e Associati.  
  • Robertson, B.J. (2018). Holacracy. Come superare la gerarchia. Guerini e Associati.
  • Vermeer, A. e Wenting, B. (2018). Self management. Come funziona veramente. Guerini e Associati.
  • Schein, E.H. (1990). Cultura d’azienda e leadership (trad. it.). Guerini e Associati. [Original work published 1985]

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Luglio 2024
Pubblichiamo un estratto dal libro di Maurizio Carta, Romanzo Urbanistico (Sellerio)
Maurizio Carta

Il mio primo approccio alla città è, come sempre, da flâneur, la percorro a piedi, errando senza un programma troppo preciso, facendomi trasportare, incuriosito, dalle sensazioni ed emozioni che la città dona a chi la sappia conquistare con rispetto. Porto Alegre è una città di 1,4 milioni di abitanti, capitale dello Stato del Rio Grande do Sul, potente e fiorente centro produttivo nel settore agricolo e manifatturiero che ha accolto comunità tedesche e italiane nel suo grembo materno.

Oggi la crisi globale e quella specifica del Sudamerica e del Brasile ne mordono gli organi vitali, numerose attività hanno chiuso lasciando decadere alcune parti della città, soprattutto quelle più povere.

È, come tante città del Sud del mondo, una terra di contrappunti, tra alti e bassi, anche morfologici, e sembra costruita per aggregazioni e capricci invece che secondo regole e disegni. Il risultato è una sorta di samba di stili, di altezze, di colori. Un ancheggiamento di qua e si viene attratti da una deliziosa casa coloniale, un ancheggiamento di là e un palazzone attira la nostra attenzione, un avanzare e ci si ritrova a salire le ripide strade che la percorrono, e uno sculettamento fa alzare gli occhi verso guglie, campanili, cupole.

Insomma, una città dalla bellezza fuori dai canoni, le cui imperfezioni ne sono la cifra. Città meticcia, aperta e cosmo- polita, seducente e creativa, come viene cantato in Outra Vida del cantautore Armandinho o in Noites de Inverno, Sonhos de Primavera di César Passarinho, un vero e proprio inno alla città.

Immergiamoci con voluttà nel centro storico, proteso sul Rio Guaíba che poi sfocia in una grande laguna che lo protegge dall’oceano.

La prima tappa dopo la passeggiata urbanistica di primo approccio è lo stupendo Mercado Público, costruito negli anni Trenta dell’Ottocento vicino all’area portuale. Luogo di scambio e di relazioni, sempre vivo in ogni fase della storia della città. Ancora oggi è un posto vivace e creativo, pieno di bellezza dentro e fuori. Ogni banco offre seduzioni merceologiche, ma i più seducenti sono quelli del mate che, con gli stupendi contenitori ricavati dalle zucche a fiasco e le cannuc- ce argentee, promettono paradisi di ogni tipo e per ogni gusto: basta trovare la giusta combinazione.

Si ammira, si compra, si contratta, si mangia, si guarda e ci si fa guardare… un mercato insomma. Attorno al mercato il cibo è il protagonista. Possiamo sedere in una bettola strepitosa dove mangiare peixe frito composto in una polpetta che ci ammalia con sapori di cui il pesce è solo uno dei tanti. Oppure possiamo sederci allo Chalé da Praça XV, il più storico locale di Porto Alegre, fondato nel 1885 e successivamente ampliato e ristrutturato nei primi anni del Novecento e poi ricostruito nel 1971 dopo un incendio. Un luogo che racconta di incontri eleganti, di sorseggiamenti e amoreggiamenti in una città che fondeva stili e linguaggi portoghesi, tedeschi e italiani alla ricerca di un gusto alimentato dalla sua bellezza creativa, mai scontata.

Allo Chalé è d’obbligo una caipirinha con cachaça accompagnata dalla immancabile polenta fritta, memoria gastronomica delle tradizioni venete. Infine, se la fame non è ancora domata, possiamo entrare in uno dei locali di cibo da strada che si aprono sul perimetro del- l’edificio del mercato e assaggiare tutto quello che si na- sconde dentro un panzerotto, un bignè, una panatura, una frittura, una sfoglia, una crosta. È utile chiedere informazioni, ma soprattutto assaggiare.

In pieno centro storico c’è un luogo prezioso e potente, un luogo delle tante «piccole cose» come amava dire Mário Quintana, poeta delicato, a cui è dedicata la Casa de Cultura. Un multiluogo fatto di tante piccole ma importanti cose: una libreria, un teatro, una scuola di danza e una di fotografia, una galleria d’arte, un caffè, un coworking, un asilo, un grande tavolo per discutere, una terrazza per amarsi, un giardino da curare. Tutte insieme fanno di questo luogo un propulsore culturale amatissimo da tante persone che si ritrovano qui per condividere bellezza e creatività, cura e gioco, didattica ed esperienza. La Casa de Cultura, sorta al posto dell’Hotel Majestic, è un perfetto esempio della metamorfosi della città: dove regnava l’esclusività e la chiusura oggi alberga l’inclusione e l’apertura, in una formidabile parabola dei nuovi metabolismi urbani di questa città che sta cercando testardamente il suo diverso presente.

Porto Alegre è una città d’acqua e sull’acqua ha fondato non solo il suo passato di porta del Brasile meridionale ma anche il suo presente remoto di città culturale e creativa. Il riverfront del centro storico, infatti, è stato oggetto di un programma pluriennale di riqualificazione che trovava (adesso è chiusa per ristrutturazione) nella Usina do Gasômetro il suo epicentro culturale come grande spazio per la cultura e l’arte.

Attorno a essa si sviluppa un paesaggio liquido costituito da un sistema di quattro parchi per il tempo libero: Praça Brigadeiro Sampaio, Praça Júlio Mesquita, Parque Moacyr Scliar e Parque Maurício Sirotsky Sobrinho che termina sulla foce del canale Ipiranga.

Parchi deliziosi e molto frequentati, attrezzati per il tempo libero, il fitness, il pic-nic, la lettura e l’amicizia. Giardini vegetali, ma anche acquatici e minerali in una sintesi equilibrata. Luoghi naturali, soprattutto, in cui rimanere incantati dal tramonto di Porto Alegre che arrossa il cielo, salutando questa città allegra, anche se talvolta con quella allegria dolente di chi ha visto la vita attraversarla non sempre benevola, ma trova ancora motivo per essere felice.

Non dimentichiamo durante il tramonto di bere un aperitivo sulla rotonda sull’acqua del gastrobar 360 POA, accompagnandolo con gli immancabili finger food, tra cui la calabrisa, la salsiccia piccante delle tradizioni della numerosa comunità calabrese.

Se vogliamo fare una pausa pranzo con un tuffo nella storia gastronomica più profonda di Porto Alegre, il luogo giusto è Gambrinus, aperto dal 1889 dentro il mercato pubblico. Appena entro sembra che il tempo si sia fermato, e non solo nell’arredo o nei camerieri che sembrano usciti da una macchina del tempo. Quello che davvero mi riporta al passato sono i piatti, la loro fattura, la presentazione e soprattutto il sapore. Nessuna concessione alla moda temporanea, Gambrinus spazza via decine di anni di nuova cucina o di cucina televisiva o instagrammabile per rivendicare l’onore di una cucina vera, per le persone e non per il virtuale. Ogni piatto è cucinato con amore e cura, servito senza orpelli e porta sul tavolo una porzione gustosa di cucina portoghese ripensata in salsa brasiliana. Oggi ho scelto il piatto del giorno (lo stesso di un secolo fa):

Tilápia ao molho de camarão e batatas cozidas, accompagnato dall’immancabile riso e da una caipirinha al mezcal. Un piatto che ha risvegliato papille gustative dormienti da anni di involuzione gastronomica, che ha solleticato sapori reconditi sepolti nel mio DNA. Un viaggio nel viaggio.

Dedico un’intera mattina a capire meglio la città degli anni Novanta, la città verticale che, forte di uno sviluppo ritenuto inarrestabile, inizia a sostituire lo stile coloniale e meticcio con uno stile internazionale che rimodella la topografia urbana, nascondendo all’ombra dei palazzi e dei grattacieli la movimentata orografia della città e anestetizzando alcune delle più belle architetture ritenendole superate. Una città che punta molto sullo sport, in particolare sul calcio, come uno dei più potenti ambasciatori del Brasile. Che si estende lungo la baia del fiume Guaíba conglobando paesaggio naturale e spazio urbano, sporgenze collinari e collassi acquatici.

Un’altra mattina la dedico a capire meglio la città fuori dal centro storico, verso nord, lungo le avenidas scandite dalle palme e punteggiate dai palazzi della espansione verticale tra gli anni Settanta e Novanta, quando Porto Alegre accompagna al suo passato coloniale un futuro possibile di grande metropoli del sud del Brasile, capitale dell’industria meccanica, del mobilio e delle tecnologie. Arrivano i campus delle università-mondo come la Pontificia Università Cattolica o la Unisinos dei Gesuiti, la prima un’eccellenza in campo medico con un sistema di ospedali e di ricerca di alto livello, la seconda più orientata al design e all’ingegneria.

Arrivano i grandi impianti per il calcio e lo sport in generale, in un Brasile che fa del calcio una bandiera della sua potenza, un marketing del suo sviluppo tumultuoso ma senza progresso. Sono quelli gli anni dei BRIC, i paesi del nuovo «sviluppismo» mondiale guidato dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, dove il Brasile è la B (gli altri paesi sono la Russia, l’India e la Cina). Una crescita senza controllo che affoga architetture, che ottunde e consola, nascondendo i veri problemi che emergeranno virulenti negli anni della crisi e del crollo del prodotto interno lordo.

Porto Alegre, però, vuole ripartire da qui, dall’alleanza tra memoria e futuro, tra identità e innovazione, ricomponendo l’armonia dove sembrano esserci solo dissonanze. Non è un processo facile, produce conflitto e diseguaglianze, esplora accordi pubblico-privato dove, spesso, il primo è solo una comparsa che non recita alcuna parte e il secondo è un vorace preda- tore di spazio pubblico e di paesaggio.

Aprono e chiudono gli spazi culturali, le poche realtà interessanti sono finanziate dalle banche e rivolte a una nicchia di persone, la maggior parte degli abitanti è solo folla senza essere protagonista. Il governo della città parla ancora di masterplan che non riusciranno a cogliere opportunità reali e rimarranno disegni, anche se si intravede un interessante patto siglato, proprio nei giorni in cui sono qui, tra la municipalità, le imprese e le università per reimmaginare Porto Alegre in maniera sostenibile. Vedremo gli esiti concreti, anche se i paradigmi su cui si fonda sembrano obsoleti.

Intanto io continuo a «flaneureggiare» tra quartieri e persone alla ricerca dell’aura della città.

La fondazione Farol del Banco Santander è uno di quei tentativi di rimettere insieme pubblico e privato per la rigenerazione degli spazi pubblici, sebbene con esiti ancora incerti. La volontà è quella di rivitalizzare la Piazza delle Migrazioni trasformando una sede della banca in un museo che esplori il rapporto tra arte e tecnologia. È anche un piccolo urban center che espone storia e progetti della città con il ricorso alle tecnologie digitali interattive. Racconta l’evoluzione di Porto Alegre tracciando rotte, ancora imprecise, verso il futuro.

Interessante, ma ero l’unico visitatore e temo che non fosse un’anomalia statistica di quel giorno. La domanda è: a chi è rivolto? A chi pensa? La comunità che vi gravita attorno è interessata? O è solo un’operazione elitaria? Niente a che vedere con la vita frenetica, creativa e aperta della vicina Casa de Cultura. Insomma, mi sembra una delle tante controversie della rigenerazione urbana guidata dall’alto, senza utilizzare adeguati protocolli incrementali, che verifichino gli effetti, e adattivi per modificare le azioni in corso d’opera se non producono i risultati desiderati, ma soprattutto senza usare la ricchezza di un approccio aperto, fecondamente collaborativo.

Mi piace percorrere le città di notte, scoprirle nella loro intimità più fragile, farmi sedurre dal loro silenzio e sorprendere dai loro suoni nascosti durante il giorno. Le città di notte cigolano, gemono, sospirano, sognano e sussurrano. Soprattutto, le città di notte sono sincere, senza la maschera che indossano di giorno per apparirci come riteniamo che debbano essere. Porto Alegre nei suoi viali notturni, nelle sue ascese promettenti e nelle sue discese abissali mi attrae, con la sua apparente solitudine.

Se ascolto meglio, tuttavia, se indago nel buio scorgo gli abitanti della notte: uomini che si attardano, donne che si vendono, giovani che ridono, anziani che sonnecchiano, ambulanti che proteggono la merce, ritardatari che rincasano. Le città d’acqua, in particolare, sono angiporti profondi, ogni zona è la porta di un mondo che la attraversa, mercato di un commercio. Poi arriva l’alba e la magia notturna viene sostituita dalla ragione diurna.

Porto Alegre è anche una città di resistência criativa, di lotte sociali condotte con la creatività. In centro storico sul viadotto Otávio Rocha i giovani ribelli di Porto Alegre e le famiglie che occupano gli edifici vuoti hanno dato vita a una comunità combattente e creati- va che mette insieme le lotte per la casa, la rivendicazione degli spazi pubblici, il teatro sociale, l’ecologismo radicale, il femminismo (che era tornato forte nel Bra- sile patriarcale e tossico di Bolsonaro), i movimenti giovanili e la lotta alle diseguaglianze.

Ne viene fuori un luogo intenso, figlio del Forum No Global di Porto Alegre del 2001, in cui risuona ancora lo slogan «un altro mondo è possibile». Un luogo imprescindibile per capire l’anima ribelle di questa città, la sua postura meticcia che si fa spazio urbano. Il tutto è reso fluido da fiumi di birra, da tonnellate di pizza e da chilometri di panini che allietano le discussioni, le manifestazioni, i recital di poesie, le occupazioni a ondate, le performance dei resistenti che abitano il viadotto Otávio Rocha.

Un fiume di ragazzi e, soprattutto, di ragazze che qui trovano uno spazio franco e sicuro di espressione senza giudizio, di manifestazione del loro femminismo senza patriarcali compromessi. Ringrazio Carlo Franzato e Chiara Del Gaudio per avermici portato, avermelo raccontato e fatto vivere da insider un’esperienza indimenticabile.

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Luglio 2024
“Phobia” di Markus Öhrn e Karol Radziszewski – Prima nazionale in scena alla 52esima edizione della Biennale Teatro per l’ultima direzione firmata da Stefano Ricci e Gianni Forte 
Giuseppina Borghese

Terra di rifugio e di contesa, ma anche di massacro e di ricordo, la Polonia è quel luogo che nei secoli ha dato vita a un potente immaginario, soprattutto attraverso il racconto che i suoi artisti ne hanno fornito dalla straziante prospettiva della distanza, quella dell’esilio. Polonia è la nera Vistola, simbolo di continuità e resistenza dell’intero Paese, che anche durante i periodi di feroce occupazione e spartizione, ha continuato a rappresentare l’elemento naturale che univa la nazione divisa. Polonia è il verde acido dei fondali dell’abisso mentale raccontato dal cinema di Krzysztof Kieślowski o le tombe ebraiche del cimitero di Varsavia, una foresta di lapidi senza unità. 

Su tutte le immagini che questo luogo può restituirci, quella più comune – cruenta e sentimentale allo stesso tempo – è data dal cuore di Chopin, che secondo la leggenda è conservato nella chiesa della Santa Croce di Varsavia. Un cuore smembrato dal corpo – sepolto nel cimitero di Père Lachaise – che, in solitudine, compie un viaggio verso la terra natìa.  

È una storia di smembramenti – e di Polonia – quella portata in scena, in prima nazionale alla 52esima edizione del Festival Internazionale del Teatro  di Venezia, da Markus Öhrn con lo spettacolo “Phobia”, un’opera che propone – con ironia e violenza dirompenti – una narrazione non eteronormativa della Polonia. 

I Fag Fighters sono un commando omosessuale che passa il proprio tempo a irrompere nelle case di ignari – e perlopiù inoffensivi – cittadini per sottoporli a una interrogazione di storia dai modi piuttosto brutali. Il tema è sempre lo stesso: mostrare loro dei ritratti di artisti polacchi omosessuali e chiedere informazioni al riguardo. Il prezzo da pagare per l’impreparazione sull’argomento scelto è altissimo: violenza verbale e fisica che si traduce quasi immediatamente in stupri con gli oggetti che si trovano in scena. 

In quella che è una evidente critica della società odierna, i drammaturghi Öhrn e Radziszewski esaminano la questione della violenza e degli stereotipi stigmatizzanti che circondano le persone LGBTQ+, affidando ai Fag Fighters il linguaggio dell’odio per uso puramente personale.  L’effetto è dissacrante e cartoonesco: centotrenta minuti di spettacolo ripartiti in tre quadri narrativi in cui i giustizieri dal passamontagna rosa si confrontano con tre precisi ambiti della società. Famiglia, affari, cultura. 

Se i cani già non camminavano più da quando borghesi signore li avevano imbullonati nelle proprie borse Louis Vuitton per un mero sollazzo estetico, nella società rappresentata in “Phobia” il cane senza zampe diventa addirittura il supremo oggetto del desiderio di bambine compassionaveli oltre ogni immaginazione, come si vede nel primo spettacolo, in cui protagonista è una famiglia etero ma dai “valori arcobaleno”. Ancora più feroce e grottesco è il confronto dei Fag Fighters con il mondo del business, in cui sedicenti creativi del marketing si presentano come figure mollicce e incapaci di produrre un pensiero realmente critico e originale, ma piuttosto ripetono a vanvera slogan che rimandano al tanto famigerato pinkwashing, un sostegno al mondo queer  dettato unicamente da logiche consumistiche. 

La domanda che conduce i guerriglieri di casa in casa è dunque: cos’è davvero l’omofobia? Solo violenza esplicita o qualcosa di più profondo e nascosto che si annida in scenari di integrazione scritti da individui eternormativi? 

In un momento storico in cui le destre polacche percepiscono la comunità omosessuale come una minaccia letale per l’ordine sociale, il regista rilancia con l’odio esacerbando i fanatismi woke e traducendoli in violenza purissima. 

Lo spettacolo raggiunge le sue vette nell’ultima parte, in cui i protagonisti si ritrovano a casa di un artista. Furbescamente e con gran sapienza, Öhrn crea una macedonia di parti anatomiche umane dentro un bagno di sangue senza fine che può prestarsi a molteplici interpretazioni, a seconda della prospettiva dalla quale si guarda lo smembramento dell’artista: esplorazione provocatoria dell’identità, della sessualità, della condizione umana e non è un caso, forse, che la scena si chiuda proprio con il ritratto dello scrittore Witold Gombrowicz e un amaro congedo dalla Polonia (“Bye Bye Poland” scritto con il sangue). 

Figura centrale nella letteratura polacca del ventesimo secolo, Gombrowicz ha incarnato il tema dell’ambivalenza sessuale, raccontando nelle sue opere l’immaturità e la conformità sociale del suo tempo attraverso episodi spesso surreali proprio come il finale di “Phobia”, che sembra omaggiare quelle atmosfere. Come in tutte le sue precedenti opere, Markus Öhrn si distingue per il suo approccio audace e provocatorio a temi sociali complessi. In “Conte d’Amour”, ad esempio, aveva esplorato il tema dell’ossessione amorosa e del controllo, mentre in “We Love Africa and Africa Love Us” si era misurato con gli aspetti del neocolonialismo e con la superficialità di certo multiculturalismo occidentale o ancora in “Häusliche Gewalt” aveva messo in scena il tema della violenza domestica. L’artista svedese utilizza una combinazione di performance, video e scenografia visivamente impattante per sfidare le convenzioni e spingere gli spettatori a confrontarsi con le proprie ipocrisie e i pregiudizi più arcani. “In Phobia io e Karol Radziszewski puntiamo a rivelare il vero volto della società liberale” afferma Öhrn. 

Un’operazione che riesce molto bene, dal momento che porta il pubblico a ridere, seppur tra lo sgomento e gli ricorda una riflessione semplice e antica: l’essere umano – non essendo un prodotto di consumo – continuerà a rimanere sempre materia pericolosissima e sfuggente a qualsiasi logica di mercato, clericale o politica. 

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Luglio 2024
Il ruolo determinante della cultura per il cambiamento
Flaviano Zandonai

Gli impatti dell’innovazione, anche quella a scopi sociali, vengono di solito misurati in termini di adozione da parte di persone, comunità e organizzazioni che sono, volutamente o meno, esposte a queste novità.

Ma, sempre più spesso, questo non basta a generare trasformazioni profonde e durature, alimentando così un senso di frustrazione da parte di chi, a vario titolo, sostiene e realizza innovazioni di questa portata. Esiste però, sempre più nitido, un diverso orizzonte rispetto al quale collocare questa capacità trasformativa che è rappresentato dalle determinanti, ovvero dei presupposti causali che risultano decisivi e risolutivi rispetto ai fenomeni target dell’innovazione.

Non è l’approccio a essere nuovo in sé, anzi si potrebbe sostenere che, al fondo, rappresenta una sorta di schema generale per innovatori radicali. Quello che muta, in modo decisamente rilevante tanto da poter essere considerata – questa sì – un’innovazione in sé, è la profondità d’intervento sulle determinanti. Ciò è reso possibile soprattutto dagli avanzamenti della ricerca neuroscientifica che ormai monopolizza la conoscenza in un vasto campo psicosociale. Impattare su determinanti che hanno riscontri su fattori cognitivi rilevabili a livello cerebrale ma anche biologico costituisce quindi una metrica nuova e sfidante per innovazioni sociotecnologiche di varia natura.

Rispetto a questa frontiera d’innovazione ridelineata dalla ricerca scientifica l’intervento di natura culturale si candida, un po’ per approccio e un po’ per competenze e strumentario, a fare da leadership contaminando così altri ambiti più o meno contigui.

Uno in particolare, ovvero quello del welfare che soprattutto in fase recente appare limitato rispetto alla capacità d’impattare sulle determinanti bio cognitive. Molti dei suoi approcci sembrano infatti aver raggiunto i limiti del loro sviluppo in termini di efficacia. Non si tratta solo di quello medicale e farmacologico, ma anche di quelli di cura improntati all’assistenza e al nudging educativo e addirittura quello di advocacy comunitaria.

In tutti questi casi il welfare pare non essere risolutivo in termini trasformativi e sempre più in crisi, per svariate ragioni, anche in sede di “semplice” riequilibrio e ripristino del sistema, ovvero della sua missione originaria (rispetto alla quale, a questo punto, si palesa forse un “vizio d’origine”).

La cultura appare invece il vettore ideale per cambi di mentalità così profondi da ambire ad essere risolutivi. E questo sembra poter avvenire, in particolare, per un aspetto, ovvero la capacità di agire sul “tempo liberato” da attività cognitive routinarie e predittive che per evitare sforzi mentali e fisici eccessivi ingessano quella disposizione all’immaginazione e alla creatività che con un’espressione banale ma efficace rappresenta “il sale della vita” e, al tempo stesso, una plasticità maggiore rispetto all’adattamento a contesti mutevoli.

Questa, in estrema e limitata sintesi, è la prospettiva di welfare culturale delineata da Pierluigi Sacco, professore dell’Università di Chieti-Pescara e fondatore del centro interdipartimentale Bach su cultura e salute, agli imprenditori sociali della rete CGM riunitisi a Bologna per la loro quindicesima convention. Una prospettiva che è al tempo stesso destabilizzante e abilitante rispetto alle interlocuzioni col mondo della ricerca scientifica per impostare protocolli di valutazione ma anche nuovi modelli di servizio coerenti con questa prospettiva.

Le sperimentazioni fin qui effettuate – come il metodo Pre-Texts elaborato dall’università di Harvard e basato sulla facilitazione della comprensione di testi scritti per finalità di ben-essere individuale e collettivo – dimostrano impatti significativi soprattutto in presenza di due elementi che invece sono di solito considerati particolarmente sfidanti per il welfare tradizionale ovvero l’estrema fragilità dei soggetti e dei contesti coinvolti e la necessità di attivare a tal fine quantità importanti di risorse.

Pre-Texts e altri dispositivi simili di welfare culturale sembrano invece funzionare meglio quando a essere coinvolte sono persone particolarmente fragili che vivono in contesti molto deprivati (ad esempio perché recluse in carcere) e richiedendo un apporto di risorse estremamente limitato anche in termini temporali. Inevitabile quindi che a essere sollecitati siano anche gli impianti di policy attraverso i quali si definiscono standard di servizio (ad esempio in termini di accreditamento) e allocazione delle risorse. Ma non solo.

Questa prospettiva investe quel “capitale umano” da sempre chiamato, anche in modo retorico, a “fare la differenza” nei sistemi di welfare in termini di capacità e motivazione. Capitale rappresentato da operatori sociali e volontari che oggi appare svalutato, ma che all’interno di questa prospettiva di welfare culturale basata sulle determinanti potrebbe essere rigenerato. I modelli di servizio ispirati a questa prospettiva – come ad esempio la prescrizione sociale – richiedono infatti di agire non come erogatori di prestazioni sempre più sterili rispetto ai contesti ma, al contrario, come attivatori di risorse socio culturali all’interno di organizzazioni e reti che sappiano però ridiventare autenticamente cooperative.

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