Il ruolo determinante della cultura per il cambiamento
Flaviano Zandonai
Gli impatti dell’innovazione, anche quella a scopi sociali, vengono di solito misurati in termini di adozione da parte di persone, comunità e organizzazioni che sono, volutamente o meno, esposte a queste novità.
Ma, sempre più spesso, questo non basta a generare trasformazioni profonde e durature, alimentando così un senso di frustrazione da parte di chi, a vario titolo, sostiene e realizza innovazioni di questa portata. Esiste però, sempre più nitido, un diverso orizzonte rispetto al quale collocare questa capacità trasformativa che è rappresentato dalle determinanti, ovvero dei presupposti causali che risultano decisivi e risolutivi rispetto ai fenomeni target dell’innovazione.
Non è l’approccio a essere nuovo in sé, anzi si potrebbe sostenere che, al fondo, rappresenta una sorta di schema generale per innovatori radicali. Quello che muta, in modo decisamente rilevante tanto da poter essere considerata – questa sì – un’innovazione in sé, è la profondità d’intervento sulle determinanti. Ciò è reso possibile soprattutto dagli avanzamenti della ricerca neuroscientifica che ormai monopolizza la conoscenza in un vasto campo psicosociale. Impattare su determinanti che hanno riscontri su fattori cognitivi rilevabili a livello cerebrale ma anche biologico costituisce quindi una metrica nuova e sfidante per innovazioni sociotecnologiche di varia natura.
Rispetto a questa frontiera d’innovazione ridelineata dalla ricerca scientifica l’intervento di natura culturale si candida, un po’ per approccio e un po’ per competenze e strumentario, a fare da leadership contaminando così altri ambiti più o meno contigui.
Uno in particolare, ovvero quello del welfare che soprattutto in fase recente appare limitato rispetto alla capacità d’impattare sulle determinanti bio cognitive. Molti dei suoi approcci sembrano infatti aver raggiunto i limiti del loro sviluppo in termini di efficacia. Non si tratta solo di quello medicale e farmacologico, ma anche di quelli di cura improntati all’assistenza e al nudging educativo e addirittura quello di advocacy comunitaria.
In tutti questi casi il welfare pare non essere risolutivo in termini trasformativi e sempre più in crisi, per svariate ragioni, anche in sede di “semplice” riequilibrio e ripristino del sistema, ovvero della sua missione originaria (rispetto alla quale, a questo punto, si palesa forse un “vizio d’origine”).
La cultura appare invece il vettore ideale per cambi di mentalità così profondi da ambire ad essere risolutivi. E questo sembra poter avvenire, in particolare, per un aspetto, ovvero la capacità di agire sul “tempo liberato” da attività cognitive routinarie e predittive che per evitare sforzi mentali e fisici eccessivi ingessano quella disposizione all’immaginazione e alla creatività che con un’espressione banale ma efficace rappresenta “il sale della vita” e, al tempo stesso, una plasticità maggiore rispetto all’adattamento a contesti mutevoli.
Questa, in estrema e limitata sintesi, è la prospettiva di welfare culturale delineata da Pierluigi Sacco, professore dell’Università di Chieti-Pescara e fondatore del centro interdipartimentale Bach su cultura e salute, agli imprenditori sociali della rete CGM riunitisi a Bologna per la loro quindicesima convention. Una prospettiva che è al tempo stesso destabilizzante e abilitante rispetto alle interlocuzioni col mondo della ricerca scientifica per impostare protocolli di valutazione ma anche nuovi modelli di servizio coerenti con questa prospettiva.
Le sperimentazioni fin qui effettuate – come il metodo Pre-Texts elaborato dall’università di Harvard e basato sulla facilitazione della comprensione di testi scritti per finalità di ben-essere individuale e collettivo – dimostrano impatti significativi soprattutto in presenza di due elementi che invece sono di solito considerati particolarmente sfidanti per il welfare tradizionale ovvero l’estrema fragilità dei soggetti e dei contesti coinvolti e la necessità di attivare a tal fine quantità importanti di risorse.
Pre-Texts e altri dispositivi simili di welfare culturale sembrano invece funzionare meglio quando a essere coinvolte sono persone particolarmente fragili che vivono in contesti molto deprivati (ad esempio perché recluse in carcere) e richiedendo un apporto di risorse estremamente limitato anche in termini temporali. Inevitabile quindi che a essere sollecitati siano anche gli impianti di policy attraverso i quali si definiscono standard di servizio (ad esempio in termini di accreditamento) e allocazione delle risorse. Ma non solo.
Questa prospettiva investe quel “capitale umano” da sempre chiamato, anche in modo retorico, a “fare la differenza” nei sistemi di welfare in termini di capacità e motivazione. Capitale rappresentato da operatori sociali e volontari che oggi appare svalutato, ma che all’interno di questa prospettiva di welfare culturale basata sulle determinanti potrebbe essere rigenerato. I modelli di servizio ispirati a questa prospettiva – come ad esempio la prescrizione sociale – richiedono infatti di agire non come erogatori di prestazioni sempre più sterili rispetto ai contesti ma, al contrario, come attivatori di risorse socio culturali all’interno di organizzazioni e reti che sappiano però ridiventare autenticamente cooperative.
Pubblichiamo un estratto dal saggio di Alessandro Bollo contenuto in La partecipazione alla gestione del patrimonio culturale
Alessandro Bollo
Nell’ambito del più generale tema sulla partecipazione alla gestione del patrimonio culturale e sul ruolo delle comunità si intende qui portare un contributo che parte da una prospettiva molto specifica, ovvero quella delle istituzioni culturali (penso ai musei, ma anche alle biblioteche e ai diversi centri culturali ibridi e multifunzionali) che sempre di più interpretano il loro mandato anche come “luoghi” (fisici, relazionali e digitali) a cui è richiesto di attivare e strutturare patti e processi di natura partecipativa, collaborativa e dialogica nei confronti di specifiche comunità di riferimento.
Si tratta di un cambiamento significativo che è il risultato di processi strutturali che si sono stratificati e interconnessi negli ultimi decenni e che riguardano la diversificazione del ruolo delle istituzioni culturali, la loro collocazione nell’ambito delle politiche socio-culturali e urbane, e una ritrovata rilevanza delle comunità (la cui definizione ha subito nelle ultime due decadi un processo di problematizzazione e riaggiornamento rispetto alla lettura sociologica classica) nell’ambito dei processi partecipativi, dell’attivismo civico e all’interno di quell’ampia fenomenologia della sussidiarietà orizzontale che ha toccato anche il mondo della cultura e dei beni culturali. Per quanto riguarda il primo aspetto non si può, ovviamente, non segnalare il valore emblematico della recente definizione di Museo prodotta dall’ICOM nell’agosto del 2022 dopo un lungo e travagliato processo che ha visto coinvolti 126 comitati a livello mondiale e che così recita:
Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze.
Tra i molti elementi di novità, qui rileva evidenziare il riferimento esplicito ai concetti di accessibilità e inclusione, la promozione della diversità e della sostenibilità e il ruolo delle comunità cui viene chiesto di partecipare, condividere conoscenze e competenze e collaborare per favorire l’operato dei musei e per migliorare l’esperienza che essi offrono. Si tratta di aspetti peculiari che non trovavano accoglienza nelle precedenti definizioni e che testimoniano della volontà di richiamare il ruolo sempre più attivo dell’istituzione museo nei confronti dei grandi cambiamenti e delle grandi sfide del tempo presente.
Colpisce, nell’economia di un processo definitorio che ha la- vorato per riduzione all’essenziale e per negoziazione tra le diverse sensibilità a livello mondiale (forse, non sorprendentemente, si parla di promozione della diversità e sostenibilità e non di promozione della democrazia), il riferimento esplicito alla partecipazione delle comunità nel contributo al perseguimento del mandato istituzionale che indirettamente sembra rafforzare il portato della Convenzione di Faro e il ruolo delle comunità di patrimonio.
In questo percorso di risemantizzazione la parola museo rimanda, pertanto, all’idea di un organismo plurale e collettivo che si alimenta anche delle comunità che lo sostengono e che a sua a volta contribuisce ad alimentare. Si caratterizza per essere anche un luogo di costruzione e di abilitazione di comunità in cui “il valore proprio viene misurato sulla base della quantità e della qualità delle relazioni instaurate” (Symbola 2019, p. 9). Per completezza di riflessione occorre ricordare come l’approccio partecipativo e comunitario non sia una novità nella storia recente dei musei – si pensi in particolar modo alla riflessione teorica della Nouvelle Muséologie, alla nascita dei musei comunitari e degli ecomusei nel corso degli anni sessanta e all’esperienza paradigmatica dell’Anacostia Neighborhood Museum di Washington come prototipo del “museo di quartiere” che, secondo le parole del suo direttore John Kinard, doveva ripensarsi come “uno spazio privo di collezione ma animato dal dialogo costante con la comunità, coinvolta a pieno titolo nelle attività espositive e didattiche” (Bollo 2011).
A distanza di diversi decenni il tema della partecipazione comunitaria ritorna di attualità nell’ambito di una situazione generale (diventata ormai globalizzata) che è però radicalmente mutata a partire dalla messa in discussione di quella consumer culture che proprio in quegli anni si stava imponendo come egemonica e dal protagonismo di culture partecipative emergenti caratterizzate da propensione all’attivazione individuale e collettiva e da barriere all’espressione artistica e al coinvolgimento civico relativamente basse.
Nel 2006 Henry Jenkins parlando di “cultura convergente” e del portato trasformativo delle intelligenze plurali e collettive affermava che era importante garantire contesti e situazioni in cui “non tutti devono contribuire, ma in cui tutti credono di essere liberi di contribuire e confidano che il loro contributo verrà preso in considerazione” (Jenkins 2007). Pochi anni dopo, la grande crisi economico-finanziaria avrebbe steso una patina di disillusione e di revisione critica rispetto alla grande euforia nei confronti di quei nuovi modelli a driver digitale in cui lo sharing era per forza anche caring e sarebbero emersi con evidenza i pericoli derivanti da logiche di sviluppo basate su ineguali e sperequate forme di estrazione e ripartizione del valore tra i soggetti implicati nella filiera della condivisione collettiva. Rimane, cionondimeno, una casistica molto ampia e articolata di esperienze di natura collettiva e comunitaria che nell’ultimo decennio si sono occupate di conservazione, cura e gestione del patrimonio materiale e immateriale e che hanno sperimentato modelli inediti di innovazione sociale a base culturale su cui si tornerà in seguito.
Per le biblioteche si può rinvenire un percorso ana- logo a quello dei musei in quanto a revisione e problematizzazione del loro ruolo e delle loro funzioni istituzionali, a una maggiore centralità rispetto alle diverse istanze di sviluppo socio-culturale e territoriale e a forme di interazione più strutturate e consapevoli con le comunità territoriali. Nel documento programmatico dell’AIB Disegnare il futuro della biblioteca. Linee guida per la redazione dei piani strate- gici per le biblioteche pubbliche si fa esplicito riferimento alla Convenzione di Faro laddove si richiama al concetto di patrimonio (inteso qui come patrimo- nio di documenti e di comunità) che è centrale sia con riferimento alle collezioni sia alla comunità di persone che con esse interagiscono evidenziando come “il diritto al patrimonio culturale sia inerente al diritto di partecipare alla vita culturale, così come definito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”. Nello stesso documento si richiama alla necessità che le biblioteche operino per attivare le comunità: “le comunità al plurale rappresentano un mezzo e un fine per la biblioteca pubblica e danno senso all’azione quotidiana del servizio bibliotecario”.
Chiara Faggiolani ha evidenziato come le biblioteche, in relazione alla prospettiva della Convenzione di Faro, possano rappresentare luoghi in grado di generare processi di reciproco riconoscimento fra persone, beni e territorio e di rafforzamento dei processi identitari (Faggiolani 2022), nel senso auspicato da Luca Dal Pozzolo di identità fluide e aperte perché “il patrimonio non serve più la retorica nazionale, ma partecipa alle costruzioni sociali e identitarie contemporanee” (Dal Pozzolo 2020, p. 72).
Non è, infine, un caso che Ezio Manzini e Michele D’Alena parlando di servizi pubblici collaborativi si riferiscano alle biblioteche come luoghi dinamici che “sono diventati punti di riferimento per le associazioni culturali del quartiere e, allo stesso tempo, essendo connesse con altre biblioteche, luoghi in cui le reti corte della cultura locale si intrecciano con quelle lunghe, delle iniziative cittadine e internazionali” (Manzini e D’Alena 2023). Coerentemente con queste posizioni diventa pertanto importante dare visibilità al ruolo che i servizi bibliotecari possono e debbono svolgere per garantire la tutela e la valorizzazione dei beni culturali e ambientali, sottolineando quanto sia importante far crescere la consapevolezza e il riconoscimento delle responsabilità individuali e collettive nei confronti dell’eredità culturale, per garantire lo sviluppo umano e la qualità della vita, come recita appunto la Convenzione di Faro.
Il sistema moda, ritorna il capolavoro di Roland Barthes
Roland Barthes
Scritto tra il 1957 e il 1963, Sistema della moda di Roland Barthes ha dato il via alla ricerca scientifica sul tema non solo in semiotica, ambito di cui il volume rappresenta un pilastro, ma praticamente in tutte le scienze sociali. Basandosi sulle principali riviste di settore, tra cui le edizioni francesi di “Vogue” ed “Elle”, Barthes lavora sull’indumento scritto o de-scritto per ricostruire le argomentazioni della giurisprudenza della Moda, un mito creato per convincere le persone della necessarietà della rotazione del guardaroba, associando capi e accessori a tratti della personalità e a eventi mondani. Pubblichiamo un estratto dall’edizione appena tornata in libreria per le edizioni Mimesis per la cura di Bianca Terracciano.
Apro una rivista di Moda: vedo che vi si tratta di due indumenti diversi. Il primo è quello che mi viene presentato in fotografia o in disegno, è un indumento-immagine. Il secondo è ancora questo indumento, ma descritto, trasformato in linguaggio; questo abito fotografato a destra, a sinistra diventa: cintura di cuoio al di sopra della vita, con una rosa appuntata, su un abito morbido in shetland; questo indumento è l’indumento scritto.
Questi due indumenti, benché rimandino alla stessa realtà (l’abito portato quel dato giorno da questa donna), non hanno la stessa struttura, perché non sono fatti degli stessi materiali e di conseguenza questi materiali non hanno fra loro gli stessi rapporti: nel primo i materiali sono forme, linee, superfici, colori, e il rapporto è spaziale; nel secondo sono parole, e il rapporto se non logico è almeno sintattico; la prima struttura è plastica, la seconda è verbale. Forse questo significa che ogni struttura si confonde interamente con il sistema generale da cui emana, l’indumento-immagine con la fotografia, e l’indumento scritto con il linguaggio?
No: la fotografia di Moda non è una qualsiasi fotografia, per esempio ha poco a che fare con la fotografia di stampa o con la fotografia del dilettante; comporta unità e regole specifiche; all’interno della comunicazione fotografica, essa forma un linguaggio particolare che ha indubbiamente il suo lessico e la sua sintassi, le sue “astuzie”, vietate o raccomandate.
Allo stesso modo, la struttura dell’indumento scritto non può confondersi con la struttura della frase; perché se l’indumento coincidesse con il discorso, basterebbe cambiare un termine di questo discorso per cambiare con ciò stesso l’identità dell’indumento descritto; ora non è questo che accade; il giornale può scrivere indifferentemente: d’estate portate del tussor, o il tussor si addice molto bene all’estate, senza mutare niente di essenziale nell’informazione che trasmette alle sue lettrici: l’indumento scritto è portato dal linguaggio, ma anche gli resiste, e si fa appunto in questo gioco. Siamo quindi di fronte a due strutture originali, benché derivate da sistemi più comuni, in un caso la lingua, nell’altro l’immagine.
Si potrebbe almeno pensare che questi due indumenti ritrovino una identità al livello dell’indumento reale che sono chiamati a rappresentare, che l’abito descritto e l’abito fotografato siano identici attraverso quell’abito reale a cui rimandano l’uno e l’altro.
Equivalenti senza dubbio, ma identici no; come infatti fra l’indumento-immagine e l’indumento scritto c’è una differenza di materiali e di rapporti, e quindi una differenza di struttura, così, da questi due indumenti all’indumento reale, si ha un passaggio ad altri materiali e altri rapporti; l’indumento reale forma dunque una terza struttura, diversa dalle prime due, anche se serve loro da modello, o, più esattamente, anche se il modello che guida l’informazione trasmessa dai primi due indumenti appartiene a questa terza struttura.
Abbiamo visto che le unità dell’indumento-immagine sono situate al livello delle forme, quelle dell’indumento scritto al livello delle parole; quanto alle unità dell’indumento reale, queste non possono essere al livello della lingua, perché, come sappiamo, la lingua non è un calco del reale; né del resto si possono, per quanto la tentazione sia grande, situare al livello delle forme, perché “vedere” un indumento reale, anche in condizioni privilegiate di presentazione, non può esaurirne la realtà, ancor meno la struttura: non ne possiamo mai vedere che una parte, un uso personale e circostanziato, un modo particolare di portarlo; per analizzare l’indumento reale in termini sistematici, vale a dire abbastanza formali per potere render conto di tutti gli indumenti analoghi, bisognerebbe indubbiamente risalire agli atti che ne hanno regolato la fabbricazione. In altre parole, di fronte alla struttura plastica dell’indumento-immagine e alla struttura verbale dell’indumento scritto, la struttura dell’indumento reale non può essere che tecnologica; le unità di questa struttura non possono essere che le tracce diverse degli atti di fabbricazione, i loro fini raggiunti, materializzati: una cucitura è ciò che è stato cucito, un taglio, ciò che è stato tagliato; si tratta quindi di una struttura che si costituisce al livello della materia e delle sue trasformazioni, non delle sue rappresentazioni e significazioni; l’etnologia potrebbe fornire in proposito modelli strutturali relativamente semplici.
Ecco così per uno stesso oggetto (un abito, un tailleur, una cintura) tre strutture diverse, una tecnologica, un’altra iconica, la terza verbale.
Queste tre strutture non hanno lo stesso regime di diffusione. La struttura tecnologica appare come una lingua madre di cui gli indumenti portati che si rifanno a essa non sarebbero che le “parole”. Le altre due strutture (iconica e verbale) sono anch’esse delle lingue, ma se stiamo alla rivista, che pretende sempre di parlare di un indumento reale primario, queste lingue sono lingue derivate, “tradotte” dalla lingua madre, si frappongono come tramite di diffusione fra questa lingua madre (langue) e la sua “parole” (gli indumenti portati). Nella nostra società, la diffusione della Moda poggia quindi in gran parte su un’attività di trasformazione: c’è un passaggio (almeno secondo l’ordine invocato dalla rivista) dalla struttura tecnologica alle strutture iconica e verbale.
Ora, trattandosi di strutture, questo passaggio può essere solo discontinuo: l’indumento reale può essere trasformato in “rappresentazione” solo mediante certi operatori, che potremmo chiamare commutatori, o shifter, poiché servono a trasporre una struttura in un’altra, a passare se si vuole da un codice a un altro codice.
Dare un’altra possibilità all’amore, liberarlo dalle sue istituzioni regolative biopolitiche
Federico Zappino
Tante persone sarebbero pronte ad affermare – talvolta con ironia, talvolta con rabbia – che l’amore non esiste. Considerandolo, a buon titolo, compromesso dalla sua storia ufficiale, e dunque dalla storia delle istituzioni che si sono incaricate di governare l’amore, producendone un’idea funzionale al governo della proprietà, della sessualità e della riproduzione, nonché alla giustificazione e alla legittimazione della violenza di genere e sessuale, tante persone vorrebbero giustamente sbarazzarsi dell’amore, stabilendo l’impossibilità di pensarlo al di fuori della sua storia, e mettendo in discussione la struttura stessa che rende possibile ogni argomentazione.
Al posto dell’amore, semmai, esisterebbero i rapporti sessuali, o forme più o meno superficiali di relazioni di solidarietà e affetto, tendenzialmente eteronormate, nei casi in cui prevedano forme di sessualità, e tendenzialmente omosociali, nei casi in cui invece non siano all’apparenza contemplate.
Tante persone, inoltre, riterrebbero le sofferenze che l’amore può produrre del tutto risibili se comparate a quelle prodotte da altre condizioni sociali, come la povertà, la precarietà o la malattia.
Accanto a queste persone, ce ne sono poi delle altre che se forse non riuscirebbero a individuare con certezza il nesso che lega la propria sofferenza amorosa e la questione più ampia dell’organizzazione sociale delle relazioni di produzione (quali sono gli effetti differenziali della precarizzazione neoliberista sulla vita dell’amore? Quale vita amorosa è prodotta differenzialmente dal regime di precarietà?), di certo riescono però a scorgere in modo più chiaro quello che lega invece la deprivazione amorosa (o altri fenomeni parzialmente correlati, come il lutto) e la malattia psichica. Di conseguenza, tantissime persone avrebbero molti e ottimi motivi per volersi liberare definitivamente dalle sofferenze che l’amore infligge alla loro vita. Spesso, sintomaticamente, se ne liberano solo liberandosi della vita stessa.
È possibile che questi desideri di minimizzazione o, al contrario, di liberazione dall’amore non siano altro che un’ulteriore prova della sua esistenza materiale nella vita delle persone, nonché della sua persistenza e della sua efficacia. Tali desideri inoltre, sono tutti innervati da un altro tipo di problema, che l’amore non cessa di sottoporre alla nostra attenzione: l’impossibilità di stabilire un confine certo tra l’amore e la vita – e l’organizzazione, anche materiale, di questa vita.
Ne era in fondo convinto anche Roland Barthes. Ciò che più lo tormentava era che a fronte di questa posizione fondamentale, costitutiva, dell’amore nella vita delle persone, il discorso amoroso versasse in una condizione desolante, impoverita rispetto ad altri discorsi dominanti nello spazio pubblico. Egli sosteneva che nessuno avesse voglia di parlare d’amore in assenza di un “tu specifico a cui rivolgersi. Di conseguenza l’amore era ai suoi occhi declassato a una questione del tutto privata, e tale declassamento aveva la forza di produrre non solo (o non tanto) la natura “privatizzata” del discorso amoroso, ma anche la sua sottrazione al mondo, o la sua assenza di mondo.
Il discorso amoroso è la sommatoria di quei discorsi che partono da un io e arrivano a un tu – anche se quel tu è assente, o morto, o idealizzato. Ma la stessa struttura del “tu” è intesa quale prodotto tiranneggiato dalla solitudine acosmica dell’io – individualizzata, arbitraria, nevrotica. Quel “tu” a cui l’io si rivolge è la naturale appendice di ciò che già esso è in quanto soggetto: individualizzato, arbitrario, nevrotico.
Non a caso, ammoniva Barthes nelle prime righe di Frammenti di un discorso amoroso (1977), “il discorso amoroso è oggi d’un’estrema solitudine”, elevando questa considerazione al rango di domanda che fosse in grado di guidarlo in una monumentale compilazione di un lessico comune, in cui chiunque, sfogliandolo, avrebbe potuto percepire alleviata la percezione di solitudine del proprio amore.
A distanza di alcuni decenni, possiamo gettare uno sguardo più ampio sull’intera ricerca che presiedette a quel testo classico della semiotica contemporanea, sfogliando le lezioni del seminario dal titolo Il discorso amoroso che Barthes tenne all’École Pratique des Hautes Études di Parigi tra il 1974 e il 19762, dal quale poi egli stesso selezionò i materiali per i Frammenti, pubblicati in italiano nel 1979. Ma a distanza di alcuni decenni abbiamo soprattutto la possibilità di ritornare anche sul senso di quella considerazione barthesiana e di provare a misurarne la tenuta, a interrogarne le aporie, se non proprio a problematizzarla. “Questo discorso”, scriveva Barthes,
è forse parlato da migliaia di individui (chi può dirlo?), ma non è sostenuto da nessuno; esso si trova ad essere completamente abbandonato dai discorsi vicini: oppure è da questi ignorato, svalutato, schernito, tagliato fuori non solo dal potere, ma anche dai suoi meccanismi (scienze, arti, sapere). Quando un discorso viene, dalla sua propria forza, trascinato in questo modo nella deriva dell’inattuale, espulso da ogni forma di gregarietà, non gli resta altro che essere il luogo, non importa quanto esiguo, di un’affermazione. Questa affermazione è in definitiva l’argomento del libro che qui ha inizio
Innanzitutto, è ancora possibile dire che il discorso amoroso sia tagliato fuori dal “potere”? Indubbiamente, l’amore è stato a lungo relegato nell’oscurità della sfera privata, di contro a una sfera pubblica intesa come luogo per eccellenza dell’esercizio della ragione in pubblico, non dell’espressione dei sentimenti. Tuttavia, una tale prospettiva sembra avere ceduto largamente il
passo a un’altra forma di relazione fra il potere e l’amore. E ciò perché, innanzitutto, è lo stesso paradigma del potere ad aver subito una profonda e accelerata mutazione: il potere non è più esclusivamente verticistico, giuridico o positivo, incarnato dalle istituzioni giuridiche o politiche, bensì orizzontale, senz’altro diffuso e molecolare.
Il potere policentrico e molecolare del capitale, ad esempio, ha ben compreso le potenzialità produttive insite nell’amore. Indubbiamente, avremmo ottimi motivi per interrogare l’amabilità di questa compagnia, sicuramente rispetto a quella auspicata (motivatamente?) da Barthes, delle “scienze”, delle “arti” e del “sapere”. In ogni caso, non è certo possibile dire, in relazione al potere, che l’amore sia oggi “d’un’estrema solitudine”, o che sia “abbandonato dai discorsi vicini”.
Sarebbe senz’altro più corretto affermare che quello stesso discorso sia oggi d’un’estrema sussunzione sotto le leggi del capitale, ossia sotto le leggi e i “meccanismi”, per usare lo stesso lessico barthesiano, di ciò che oggi è il potere. D’amore si parla ovunque, l’amore fa vendere, in tutti i comparti produttivi.
Barthes, d’altronde, avrebbe dovuto avere presenti le coeve considerazioni di Foucault sul potere, sulla biopolitica e sulla governamentalità. Se non avesse fallito nell’impresa di tenere insieme il proprio desiderio di scrivere tra le pagine più erudite sul tema dell’amore e le suggestioni derivanti da tali concezioni meno moderne del potere, avrebbe infatti potuto ben intuire non solo che l’amore era uno dei temi trainanti del marketing anche negli anni Settanta, ma avrebbe anche evitato di
lasciare totalmente silente un’altra questione, anch’essa riconducibile alla natura del potere, e in particolare a quella forma che il potere assume quando è l’effetto, del tutto materiale, di norme non scritte e immateriali.
Che posto occupa, infatti, o vorrebbe occupare, Roland Barthes, quando attraversa i boulevards o i passages di Parigi, in cui le coppie manifestano apertamente l’amore eterosessuale, tenendosi per mano o scambiandosi baci ed effusioni? Come si rapporta a quel paradigma relazionale che ha davanti agli occhi? In che modo questa forma di potere regolatore – l’eterosessualità – che
procede senza alcun bisogno di dirsi, perché ovunque si manifesta e ovunque tacitamente si riproduce, mantiene l’amore in una condizione “d’estrema solitudine”, o non supporta il discorso amoroso?
Il potere dell’eterosessualità, esattamente come il potere del capitale, è un potere molecolare, che precede ed eccede ogni legge possibile. E da questa forma di potere dipendono nientemeno che le condizioni di intelligibilità dell’amore, del suo riconoscimento, così come del suo essere degno o meno di cura e protezione.
Si tratta di quelle norme la cui forza è tale da informare gli stessi paradigmi di riconoscimento anche dell’amore tra persone dello stesso sesso, e le stesse norme che presiedono al giudizio di quali e quante relazioni tra persone dello stesso sesso siano riconoscibili. […]
Quale ruolo accorda, Barthes a quelle modalità di conoscenza e quei regimi di verità che contribuiscono a determinare l’intelligibilità dell’amore – oltre che, intelligibilità dell’amore, del soggetto amoroso, di quell’io che parla a quel tu? L’amore è pensabile, intelligibile o vivibile al
di fuori degli ordini del discorso amoroso? Bisognerebbe infatti domandarsi: quale amore, e quale discorso amoroso? Ma Barthes non lo fa.
Barthes scrive che il discorso amoroso è “d’un’estrema solitudine”, lamenta addirittura l’abbandono del tema dell’amore da parte delle arti, delle scienze e dei saperi, nonostante tutta la produzione culturale – sicuramente quella Occidentale – abbia conferito al “discorso amoroso” un ruolo
di primo piano, nella letteratura, nelle arti visive, nella musica. È proprio in ragione di questo, d’altronde, che la ricerca di Barthes può metterci davanti agli occhi, con alfabetica e chirurgica precisione, tutte le parole di quell’imponente dispositivo storico, politico e culturale in cui propriamente consiste l’amore, quando esso riceve i suoi termini e le sue figure dalle norme egemoniche che presiedono al discorso amoroso, e dunque al giudizio – i cui parametri quel discorso costantemente plasma – di quali amori siano degni di essere detti, vissuti, celebrati, esibiti, pianti pubblicamente.
Quali amori, addirittura, rientrino nei perimetri della pensabilità, della possibilità, della credibilità e della realtà. È solo come nel rovescio di un ricamo che la ricerca di Barthes ci mette davanti agli occhi tutte quelle parole che costellano, per opposizione, quegli amori che emergono invece ai bordi dell’intelligibilità, e che proprio da quello spazio si confrontano con i modi, mutevoli, attraverso i quali le norme sociali circoscrivono il discorso amoroso.
Di quegli amori che non hanno nulla di nuovo, perché anche all’interno di quello stesso discorso occupano una qualche zona tra la norma e la possibilità della sua sovversione. Di quegli amori, però, che forse riferiscono di quella condizione in cui versa l’amore quando non è né normato né sovversivo, ma è l’amore nella propria condizione di anonimità, ciò per cui non abbiamo ancora parole per dirlo, ciò che resiste a ogni tentativo di nominazione. È forse questo, a dispetto di ogni apparenza, il solitario punto d’osservazione di Roland Barthes? È questo ciò a cui Barthes allude quando parla, inspiegabilmente, della solitudine del discorso amoroso? La solitudine di cui parla è quella di chi, nel “discorso amoroso”, non trova alcuna rappresentanza né rappresentazione – di sé, delle proprie complesse situazioni relazionali, dei propri amori?
Se così fosse, saremmo senz’altro più incoraggiati a cercare tra i Frammenti del discorso amoroso non solo i luoghi del totalizzante rapporto eterosessuale e diadico, ma quelli di molte altre situazioni o conflitti. Potremmo ricercare le tracce dell’impossibile intento a contestare i perimetri della possibilità. Dell’impensabile, mentre ridiscute i termini della pensabilità. Dell’incredibile che in quelle pagine troverà conferma di una credibile esistenza. L’impossibile, l’impensabile e l’incredibile, d’altronde, costituiscono il costante non-ancora della vita dell’amore. In questo senso, costituiscono una risorsa irrinunciabile per la comprensione dello stesso “ordine del discorso (amoroso). Ciò che rispetto a esso è impossibile, impensabile o irreale è proprio ciò che ne indica i punti di instabilità, ciò che esso esclude, o forclude, per potersi affermare come l’unico discorso possibile e necessario.
Un altro discorso amoroso, io penso, prende corpo quando soggetti impossibili allestiscono le scene di convocazioni rimaste fino a quel momento impensate. Si tratta della sfida di coloro che non occupano il posto del soggetto amoroso, pienamente legittimato ad amare e a essere amato, sostenuto dalle norme che stabiliscono come si deve essere e cosa si deve fare per vivere un amore degno di essere riconosciuto e vissuto – ossia di quel soggetto che ha già avuto accesso alla sfera dell’“amabilità”, che si sente talmente immune dall’impoverimento che potrebbe derivare da una vita priva di relazioni amorose, da concedersi il privilegio di declassare a zuccherosa faccenda, o di relegare all’ambito del sentimentale, dell’irrilevante o del patologico l’intera questione dell’amare e del ricevere amore, oltre che della sua connessione con la più ampia questione della vivibilità di una vita che è ontologicamente relazionale.
Quei soggetti impossibili, mi sembra, anche a partire da una posizione di non pienezza articolano parole o pensieri, non necessariamente diadici, e atti corporei minimali e performativi, che a volte, e non in modo indolore, smarginano i bordi dell’amore e del suo discorso ordinato e ufficiale, in funzione di una loro imprevista apertura.
Non so se e quando ci libereremo mai di quell’imponente dispositivo di assoggettamento che è l’amore, come lo conosciamo – in seno al quale, per opposizione o per acquiescenza, diventiamo soggetti. Forse, ciò avverrà solo quando si affermerà un nuovo senso comune ispirato alle grandi suggestioni di Antonin Artaud che, a un prezzo molto alto, auspicò la possibilità scongegnare il corpo dalla sua eteronormazione, e di pensare un “corpo senza organi” – tema che sintomaticamente ricorre anche negli scritti a quattro mani di Gilles Deleuze e Félix Guattari.
Suggestione, questa, che mi sento di riconoscere come parte di quell’orizzonte politico materialista e queer che, in fondo, ambisce a sottrarre potere all’Amore, alle sue istituzioni regolative biopolitiche, alle determinazioni che esso contribuisce a reiterare sui corpi; e che, tuttavia, mira a dare un’altra possibilità all’amore, intesa come una delle più intense, creative e trasformative possibilità di corpi in relazione tra loro. Forse, è questo il senso mai dischiuso e ben addomesticato dalla sua storia, mediante l’identificazione con la mera genitalità, dell’espressione “fare l’amore”.
L’amore è qualcosa che si fa. È una prassi. È la creazione di un’opera le cui misure e i cui parametri di intelligibilità non si danno in nessun luogo, ma sono prodotti nel momento del suo farsi.
A Taranto a fine aprile c’era un sole forte, vivo, ma anche un vento traditore che ti sferzava nei vicoli stretti e ombreggiati del centro storico. Siamo andati lì coi miei per pranzare e per vedere la città, che non avevo mai visitato davvero (non in età di coscienza e consapevolezza, quantomeno); mio padre invece è cresciuto lì e quindi ha fatto un po’ da cicerone. Camminando per le bianche stradine del borgo vecchio, fra le case in pietra e tufo, a ogni angolo puoi trovare schegge di mare infinito sullo sfondo: il centro storico di Taranto si erge su un’isoletta, collegata al resto della città da due ponti, e i panorami marittimi da cartolina non si contano. “Da cartolina” tipo i momenti di vita quotidiana a cui puoi assistere in quei vicoli: l’anziano nel circolo che esulta mentre sbatte sul tavolo un cinque di coppe, le donne che parlano da una finestra all’altra mentre se ne stanno affacciate a prendere il sole, fruttivendoli e bottegaie che chiacchierano in strada coi passanti in ciabatte; qua e là, vedi addirittura qualche ragazzino survivor che gioca a pallone, con le classiche magliette taroccate delle loro squadre del cuore. Tracce di identità locale che divengono a modo loro motivo di curiosità per i turisti, che da qualche anno vanno facendosi sempre più numerosi.
Il turista a Taranto può ricercare la bellezza in tante cose e una di queste è la sua cattedrale. All’esterno si presenta umile ma è l’interno che ti rapisce: io di chiese non ne capisco granché ma dimmi tu se il “Cappellone di San Cataldo” non è fighissimo con tutti quei ghirigori in nero – acceso come se li avessero disegnati ieri col pennarello – sugli sfondi rosa e pesca delle pareti in marmo. La Cattedrale di San Cataldo in pratica è uno di quei luoghi sacri che, anche se di solito l’arte di matrice religiosa non ti dice nulla, quello ti parla lo stesso. C’è anche un’altra forma d’arte che ti parla lo stesso, a Taranto Vecchia: la street art. In uno dei suoi vicoli – non lontano dalla cattedrale peraltro – ho trovato questo graffito, disegnato su una finestra murata, raffigurante una nube azzurra a forma di teschio (un teschio piuttosto malato e malmesso) che fuoriesce da una ciminiera. In calce al disegno, due parole: “Seminiamo morte”. Verbo e complemento oggetto. L’Ilva da quel punto della città non la vedi ma il graffito ti ricorda che lei c’è sempre, piovra immensa e onnipresente.
Abbiamo mangiato pesce nella città moderna (anche se forse avrebbe più senso definirla “meno vecchia”): degli spaghetti alle cozze così buoni che potresti iniziare a credere, magari in San Cataldo. Andandocene abbiamo costeggiato in auto il lungomare, una distesa di blu calmo che ti irrora con lo sciabordio delle sue onde gentili; dall’altra parte, l’aura di decadenza che avvolge le zone meno turistiche e più periferiche, palazzi e strade abbandonate al sole e a sé stesse. Un ultimo saluto all’(ex) Ilva (inevitabile passarci accanto se vuoi entrare o uscire da Taranto) e via, verso la provincia di Bari.
La provincia di Bari è dove sono nato e cresciuto, prima di trasferirmi altrove; negli anni, gran parte dei suoi comuni s’è trasformata nei luoghi da visitare se vuoi capire meglio il concetto di desertificazione.
Ricordo che quando facevo il liceo, diciamo una quindicina d’anni fa, il mio Comune contava circa ventiquattromila persone; tuttora dico quella cifra quando mi capita di descriverlo a qualcuno, per dargli un’idea delle dimensioni del paese, ma la verità è che secondo l’ISTAT ad oggi la popolazione è di circa diciannovemila persone. Io ormai lo so, solo che, al momento di dirlo, istintivamente dico comunque ventiquattromila; forse faccio fatica ad accettare che in quindici anni un paese possa perdere cinquemila anime, e forse mi sento pure un po’ in difetto perché io sono uno di quelli che se n’è andato.
Chissà, vai a capire come funziona la mente; fatto sta che, in quei quattro giorni di fine aprile che ho passato a casa dei miei, sono uscito un paio di sere coi miei amici per andare a farci qualche birra al bar e in giro non c’era nessuno. Ma nessuno davvero, mica tanto per dire: c’eravamo solo noi, i baristi, le panchine, qualche auto stanca che passava ogni tanto, la luna e il solito vento traditore. Fine. Cinquemila diviso quindici fa trecentotrentatré persone in meno all’anno: quante di queste sono i giovani mai nati o quelli già emigrati in un altro posto o un’altra regione? Cioè, coloro che sarebbero maggiormente inclini a indagare la sera, ad abitare la notte; ma soprattutto, a prefigurare un’idea di futuro per una comunità? Non so dirlo, ma ad occhio e croce direi parecchi. In ogni caso la mattina resta ancora una dimensione piuttosto popolosa al mio paese, tra chi esce a fare una passeggiata in piazza, chi a godersi un caffè al sole e chi invece va ad affollare il centro scommesse; l’età media di questo eterogeneo popolo giornaliero è su per giù il doppio della mia. (Survivor anche loro, come i ragazzini di Taranto).
Sai quale città pugliese ti dà l’impressione di contenere ancora un sacco di gente di tutte le età? Bari, era facile. Ci sono andato con amici un tardo pomeriggio, di sabato, e le sue vie più dense di negozi, locali e attrazioni scoppiavano di gente. Anche Bari sta vivendo, come se non più di Taranto, una fase di boom turistico. Anche a Bari, del resto, puoi scovare la bellezza in una molteplicità di luoghi e fattori: il suo lungomare essenziale e in qualche modo malinconico (soprattutto di sera, quando il mare diventa un abisso di nero puntellato dalle luci dei lampioni); la bontà e la varietà del suo cibo; il carattere ridanciano ed espansivo di chi ci vive. Per me, ogni volta la bellezza è specialmente – come per Taranto – nelle passeggiate per il suo centro storico: al crepuscolo, il contrasto fra il cielo violetto e le luci calde delle sue stradine affollate produce un’atmosfera surreale e palpitante al tempo stesso.
Un tempo nei centri storici di Bari e Taranto non si poteva entrare. Era cosa risaputa: o ci nascevi oppure era meglio girare al largo, a meno che non volessi rischiare di venire imbruttito da qualcuno e, non di rado, rapinato. Quando facevo le elementari, ci portarono in gita a vedere la Basilica di San Nicola – a proposito di architetture religiose che non lasciano indifferenti e di chiese fighissime –, nel cuore di Bari Vecchia; non ricordo granché oltre l’imponenza e il biancore della Basilica, se non il fatto che noi e le nostre maestre venissimo scortati da due o tre carabinieri. Questo disagio nasceva, come sempre, da un altro disagio: quello economico e sociale di molte famiglie rimaste indietro nei processi di scolarizzazione, industrializzazione e imborghesimento che avevano coinvolto il resto della città nel corso dei decenni. Povertà ed emarginazione hanno favorito l’insorgenza della criminalità (micro e non), di cui questi borghi sono diventati vere e proprie fortezze; apparentemente inespugnabili, almeno finché – grossomodo con l’arrivo degli anni duemila e soprattutto gli anni dieci – pubblico e privato non si sono accorti del potenziale artistico, storico e culturale racchiuso in quei luoghi. Il turismo può essere un piede di porco tremendamente efficace: fiutato l’affare sono arrivati gli investimenti, le iniziative di riqualificazione, i restauri e le camionette dell’esercito nei punti nevralgici. Le fortezze sono state espugnate e la gente “brutta” laddove possibile è stata spinta fuori, in quartieri e case popolari lontane. (È stata scolarizzata, professionalizzata, imborghesita? No, è solo stata spinta fuori). La gente “bella”, invece, compra spazi e apre cose. «Sembra che ogni giorno cambi qualcosa, qui» m’ha detto un amico che a Bari ci vive. La città vecchia adesso è uno spettacolo per chi la visita, una festa di colori e suoni e sapori; ma mi chiedo se il cambiamento – la gentrificazione, per chiamarlo col suo nome – venga vissuto con lo stesso entusiasmo da coloro che sono rimasti.
Una delle conseguenze negative dei processi di gentrificazione è la progressiva erosione delle routine e dei costumi delle comunità locali. A Bari però vale lo stesso che scrivevo sopra per Taranto: sarà perché in questi posti la turistificazione è ancora relativamente giovane, ma alcune tracce resistono. A un certo punto della serata abbiamo imboccato una viuzza a caso nei paraggi del Castello Svevo ed è stato come scoprire un varco su un’altra epoca: le luci illuminavano a giorno la stradina rivelando tutto un susseguirsi di signore che stendevano la pasta su lunghi tavoli davanti ai loro appartamenti al piano terra (quelli che a Napoli chiamano i “vasci”), o vi lasciavano a raffreddare i taralli fatti sempre da loro. C’era un clima di spensieratezza su questa schiera di donne che parlavano e scherzavano fra loro come chi si conosce da una vita; la maggior parte delle abitazioni aveva la porta aperta, gli interni accessibili agli sguardi di chi passava. (In fondo alla via ho spiato uno di questi appartamenti, da bravo turista guardone: era un piccolo soggiorno dove una piccola signora, molto anziana, se ne stava avvinghiata allo schienale della sua sedia a guardare il TG1 in tv; sola eppur connessa alla comunità e alla vita esterna, attraverso quella semplice porta aperta).
Ecco, bastano pochi giorni al sud per farsi colpire dai suoi momenti, dalle sue atmosfere, dalle sue anime, senza separazioni nette fra le cose belle e quelle desolanti; viverci può essere un’esperienza tipo episodio di Atlanta, la serie di Donald Glover dove il contesto sfuma dalla commedia all’inquietante senza che te ne renda conto.
Uno allora finisce per domandarsi come mai si parli sempre così poco del Sud Italia e delle sue questioni. Anzi, uno si chiede se c’è mai stata almeno una qualche forma di volontà politica nei confronti del meridione: la volontà di governare i cambiamenti delle sue città, così come quella di comprendere e supportare davvero coloro che rimangono indietro; la volontà di ragionare sul grave spopolamento che affligge le sue province ormai da diversi anni a questa parte; la volontà di fare realmente qualcosa riguardo l’Ilva e altri ecodisastri, invece di limitarsi a qualche inutile slogan in fase di campagna elettorale.
Si tratta di domande retoriche, naturalmente; chi vive in queste terre ha smesso da tempo di sperare in un’azione politica efficace dall’alto e sa bene che la soluzione a questi, come a mille altri problemi annosi e ben noti, è quasi totalmente demandata ad associazioni e interpreti locali – laddove in grado di organizzarsi e di incidere. Nonostante tutto, questi luoghi in qualche modo sopravvivono ai paradossi che dovrebbero piegarli; la speranza è che possano farcela per quanto più tempo possibile, anche lasciati a sé stessi come sono da sempre.
Intervista a Valeria Orani, direttrice artistica di MusaMadre
Giuseppina Borghese
Meilogu, terra di mezzo, nel cuore segreto della Sardegna, dove paesaggi collinari e vulcanici si alternano punteggiati da pittoreschi villaggi, nuraghi misteriosi e antiche chiese romaniche. Bonorva è il comune principale di questo territorio: addentrandosi ulteriormente si giunge a Rebeccu, piccolo borgo medievale che a partire dal 1400 ha conosciuto un progressivo spopolamento, fino a giungere, nel 1950, a una popolazione totale di sei abitanti.
È qui che nel 2021 nasce – per volere del Comune di Bonorva, con l’organizzazione dell’Associazione Enti Locali e con il sostegno della Fondazione di Sardegna – MusaMadre, un festival rivolto all’innovazione culturale e alla promozione internazionale del territorio. Un ponte immaginario, e molto concreto, tra la Sardegna e gli Usa, reso possibile dalla direttrice artistica della rassegna, Valeria Orani, creative producer che da oltre dieci anni vive e lavora tra Sardegna e New York.
Dal 2024, MusaMadre non è più solo un festival, ma un progetto culturale complesso che si estende attraverso diverse iniziative – tra maggio e ottobre – al fine di promuovere un nuovo modo di vivere il viaggio e la permanenza nei luoghi più remoti della Sardegna e soprattutto la scoperta di una cultura millenaria.
Lontana dalle spiagge affollate, Rebeccu si pone, oggi, come centro culturale, un luogo di studio e ritiro per artisti e intellettuali, dove a dettare la linea resta comunque, sempre la natura.
Alla viglia dei primi due eventi di apertura del festival, che si terranno a New York rispettivamente il 31 maggio e il 2 giugno, abbiamo incontrato la direttrice artistica Valeria Orani, per parlare di territorio, impresa, dell’abitare luoghi abbandonati e sostenibilità, ma anche della necessità, attraverso la cultura, di trasformare il viaggio in ritiro e conoscenza dei luoghi che ci ospitano.
Com’è cominciato tutto? Ricordi un giorno, un’ispirazione, la ragione che ti ha portata fin lì?
Ho iniziato a riavvicinarmi alla Sardegna nel 2018 per un progetto di ricerca e curatela che ho sviluppato per un bando Europeo. Pur essendo emigrata tanti anni prima non avevo mai sentito il netto distacco dalla mia isola e dalle mie radici sino a che non sono arrivata a New York. In questa ricerca che aveva il titolo di AMINA>ANIMA (Soul) (www.aminaproject.org), mi soffermavo su come le radici identitarie affiorino nel lavoro degli artisti emigrati, sul richiamo che la propria terra d’origine esercita inconsciamente nella fase della produzione artistica, e su come questo richiamo nel caso della Sardegna sia anche un elemento su cui sia importante soffermarsi per capirne il potenziale e le ricadute economiche. L’Isola è infatti luogo da cui è molto spesso necessario spostarsi, per tanti motivi che non sono legati solo al lavoro o alle opportunità, ma anche al fondamentale diritto di conoscere ciò che c’è oltre il mare. L’approfondimento di questi concetti e dell’arte anche come strumentale al ritorno e alla riconnessione mi ha fatto soffermare sulle opportunità che la Sardegna offre ma che raramente sono evidenziate. Ripopolare luoghi abbandonati, inabitati o anche solo spopolati, come evidenza la mia ricerca, era una di queste opportunità. Potrei quindi dire che tutto è iniziato nel 2018, ma non sarebbe del tutto vero. L’idea di abitare i luoghi abbandonati con le arti mi ha attraversato molte volte, sin da ragazza. Che questo potesse succedere in Sardegna mi attraversò l’immaginazione pochi anni dopo che iniziai, molto giovane, a fare il mio mestiere di organizzatrice. Poi ci ho pensato in altri ambiti e in altre circostanze. Anche a New York ho provato ad elaborare dei progetti in tal senso. Sino a quel momento però, nonostante il desiderio esistesse, non avevo mai avuto la struttura adatta per sostenere un progetto di questa portata. Poi dal 2018 qualcosa si è innescato. Quello che oramai immaginavo fosse pura utopia, si è allineato in termini serendipitosi, alla reale possibilità di realizzazione. Un raggio di luce che sino a quel momento veniva costantemente bloccato e deviato da ostacoli di vario genere, qualcosa su cui non mi sono mai accanita ma che costantemente ritornava nella mia vita come desiderio, non pretesa, finalmente un giorno del tutto inaspettato bussa alla mia porta, nel momento in cui meno potevo aspettarlo.
Era il 2020 e tutto il mondo si era fermato, era il 2021 ma io ero confinata negli USA. “Ho pensato a te per la direzione di un festival in Sardegna, a Rebeccu, un villaggio disabitato”. Non potevo dire di no, anche la prima edizione l’avrei potuta seguire solo in remoto, da 6800 km e sei ore di fuso orario di distanza.
Tra gli obiettivi principali del progetto MusaMadre c’è l’idea di connettere il viaggiatore con la tradizione culturale materiale e immateriale della Sardegna. Cosa vuol dire, oggi, in un’epoca che sembra conoscere solo i modi e i tempi della massiccia turistificazione dei luoghi, immaginare invece una forma di ospitalità “diversa”?
Mi ha da sempre affascinata l’idea di viaggiare per poter vivere i luoghi e chi li abita. Un’attrazione che ho sviluppato sin da bambina, viaggiando con la mia famiglia all’interno della Sardegna. La cultura Sarda si fonda sull’ospitalità e sulla condivisione. Considero che questo sia l’elemento immateriale su cui si sviluppano gran parte delle nostre tradizioni. La cura dell’ospite, che viene idealmente preso per mano e condotto a vivere la quotidianità della casa, delle feste, del convivio, esattamente come un parente che torna dopo essere stato lontanto. Risulta in questo senso abbastanza normale che per il popolo sardo il turismo stagionale che si riversa sulle splendide spiagge venga percepito come un fenomeno mai del tutto compreso e accettato. Una fonte di reddito ma solo per pochi. La realtà postpandemica evidenzia anche in Sardegna un’ intensificazione del turismo, i centri abitati prossimi alle spiagge e agli scali aerei si stanno via via adattando sempre di più nel fornire servizi e “amenities” per il turista globale stagionale. Ma il lungo periodo di stanzialità a cui ci ha obbligato di Covid, ha anche favorito altre forme di mobilità che sono legate all’idea del viaggio come ricerca non solo dei luoghi ma anche di altri stili di vita sani a sostenibili, opposti a quelli dell’esasperazione urbana. Immaginare questa forma di ospitalità in un luogo come Rebeccu è naturale.
In questo ridisegnare e immaginare nuovi percorsi esplorativi in Sardegna qual è stato il ruolo delle imprese locali?
Dopo un primo triennio di festival MusaMadre il dialogo con le imprese locali si può dire impostato e destinato a crescere. A Rebeccu due anni fa ha riaperto l’unico ristorante del villaggio, Su Lumarzu, un punto di riferimento per chi visita e soggiorna il villaggio. Così come è importante la collaborazione con l’azienda agrituristica di Sas Abbilas, adiacente al meraviglioso sito archeologico di Sant’Andrea Priu e Mariani. Tutte le realtà del territorio che offrono servizi di ospitalità sono fondamentali per il progetto, così come importantissimo è il rapporto con le imprese che portano avanti da sempre le tradizioni del territorio, come per esempio la produzione del Zichi, un pane particolare che viene prodotto solo a Bonorva. Ma ci sono anche eccellenze nella produzione ecosostenibile, come le imprese artigiane della lavorazione del legno e come l’industria di materassi Il Ghiro. Un capitolo a parte merita il rapporto che si è creato con la realtà agropastorale del territorio con cui è nata un’amicizia e una collaborazione importante anche per i contenuti artistici stessi del progetto. La sinergia si è sviluppata piano piano ma sin da subito, complice anche il fatto che molti dei componenti del Coro Polifonico Pauliccu Mossa di Bonorva sono strettamente connessi con l’imprenditoria agropastorale. Una realtà, il coro, che racchiude in se un’altra tradizione immateriale, riconosciuta come tale dall’UNESCO, e che ha trovato nel dialogo con Musamadre la possibilità di essere maggiormente conosciuta ed esportata. È il caso che si sta verificando proprio in questi giorni a New York, dove il coro si esibirà il 2 giugno.
Fino al 2014 hai lavorato come produttrice nell’ambito dell’organizzazione dello spettacolo dal vivo su produzioni sia italiane che europee, mentre successivamente ti sei trasferita negli Stati Uniti, dove ad oggi ti occupi di mettere in relazione il mercato americano con la cultura italiana contemporanea. Quali sono le criticità e le sfide più eccitanti di questo stare a metà tra due mondi ancora oggi profondamente diversi (intendo l’Europa e gli States)?
Vivere negli US e lavorare per l’Italia è difficile per tanti motivi. Ci sono voluti dieci anni e tanta pazienza non solo da parte mia (ma anche della mia socia Alessia Esposito con cui divido la gestione della 369gradi). Abbiamo dovuto concepire un nuovo metodo di lavoro. Sarebbe molto lungo sviscerare quali siano state le criticità e le sfide più eccitanti poiché è un flusso continuo di tentativi che a volte funzionano e a volte no. Se devo sintetizzare tutto in un unico concetto mi sento di dire che la sfida più grande è stata quella di andare oltre me stessa, rimettermi completamente in gioco e utilizzando il curriculum e l’esperienza accumulati sino al 2014 in maniera del tutto diversa da come mi sarei aspettata. In questi dieci anni ho costruito qui a New York una carriera che non mi aspettavo di poter costruire e una conoscenza che oggi mi accorgo è preziosissima per chi vuole dare un senso ai propri progetti di internazionalizzazione aprendo un dialogo con questa Nazione che ha veramente pochi punti in comune con il Vecchio Continente.
In questi quattro anni MusaMadre è cresciuto tantissimo. Tanti gli artisti e gli operatori del mondo della cultura che hanno preso parte alle residenze artistiche, e tanti gli eventi che si sono susseguiti. Quest’anno, i primi due appuntamenti si terranno rispettivamente il 31 maggio e il 2 giugno, in un set non propriamente sardo, bensì New York. Cosa succederà?
Quando ho sottoposto al Comune di Bonorva il progetto di rigenerazione urbana del villaggio inabitato di Rebeccu ho contestualmente fatto presente che non avrebbe avuto senso senza che si partisse da una consapevolezza importante. Rebeccu è dei Bonorvesi, e ogni azione di rigenerazione passa obbligatoriamente dal coinvolgimento e dalla “felicità” degli abitanti del territorio. In questi termini è stato presentato dal Comune di Bonorva un progetto di internazionalizzazione all’Assessorato all’Industria della Regione Sardegna, proprio per esportare un modello di impresa turistico/culturale sostenibile e compatibile con la vita del territorio.
I due eventi che si terranno a New York sono destinati ad impostare un dialogo che parta da questi principi. Il 31 maggio all’Istituto Italiano di Cultura che è anche partner con l’ENIT, i Com.It.Es, e con la fondazione privata DisterraUS che riunisce molti sardi emigrati e discendenti del mondo creativo, si terrà un panel per illustrare il potenziale imprenditoriale di Rebeccu e della scelta così peculiare del Comune di Bonorva di credere in questo progetto. Il 2 giugno si chiuderà con uno spettacolo/concerto dove i venti componenti del coro Pauliccu Mossa canteranno alternandosi alle parole del drammaturgo e giornalista americano Jeff Biggers, autore del libro In Sardinia.
Berardi Bifo: l’amicizia e la condivisione egualitaria possono costruire un ponte di significato
Franco Berardi Bifo
“Ai migliori manca ogni certezza”, sostiene Yeats. Pensiamo all’ex papa tedesco, Joseph Ratzinger – Papa Benedetto XVI – giunto a Roma promettendo l’instaurazione definitiva della verità. Ratzinger era un intellettuale e un sostenitore della verità assoluta. I cattolici di destra si sentirono rafforzati dalla sua ascesa al trono. Affermò: “Dio è uno, e la Verità è una”. Nel suo discorso più celebre, tenuto a Ratisbona, in Baviera, il filosofo Ratzinger denunciò il relativismo, che considerava la piaga della modernità.
Generalmente non sono un estimatore di Nanni Moretti, ma ho apprezzato Habemus Papam, il film da lui diretto nel 2011. È un film sulla fragilità dell’essere umano, in particolare la fragilità di un uomo che diventa papa. Nel film, il Cardinale Melville (interpretato da Michel Piccoli) viene eletto papa. Quando ci si aspetta che pronunci il suo primo discorso pubblico davanti a una vasta folla riunitasi in Piazza San Pietro, si rende conto di non avere nulla da dire. All’improvviso, è sopraffatto dalla realtà del mondo e mormora: “Non posso parlare”. Poi si rivolge a uno psicanalista (interpretato dallo stesso Moretti). Il papa è depresso perché ha visto la verità che cercava di nascondere: nel mondo non esiste verità.
Nel febbraio 2013, Joseph Ratzinger decise di seguire le orme di Michel Piccoli. Ratzinger divenne il primo papa a dimettersi negli ultimi cinque secoli. Oggi, la relazione tra realtà e immaginazione è più complessa di quanto Jean Baudrillard avrebbe mai potuto immaginare. Il vero papa imita l’attore che impersona il papa e accetta l’amara verità di non essere abbastanza forte da sostenere la responsabilità di dire la verità perché sente che la verità gli sfugge.
Ovviamente, questa è solo la mia interpretazione delle dimissioni di Ratzinger, un atto di coraggio intellettuale e di umiltà morale. Come si può comprendere la decisione di un papa, scelto da Dio tramite l’intercessione dello Spirito Santo, di dimettersi? Credo che l’interpretazione più plausibile sia che Benedetto si sentisse depresso e, parlando sinceramente con Dio, rivelasse umilmente la sua intima apocalisse. La depressione non riguarda la colpa, né rappresenta una limitazione della mente razionale. È la disconnessione tra ragione e desiderio.
Poi Mario Bergoglio fu eletto papa, divenendo il primo Papa Francesco nella storia della Chiesa Cattolica. Si affacciò alla finestra che dava su Piazza San Pietro e disse: “Buonasera. Sono l’uomo che viene dalla fine del mondo”. Si riferiva all’Argentina, un paese devastato dalla belva del capitalismo finanziario. Da quel momento, l’apocalisse ha illuminato gli atti di Bergoglio, poiché è un uomo che osa affrontare la fine. Dalla fine del mondo, Francesco ha tracciato un nuovo percorso nella teologia.
Poco dopo la sua elezione, rilasciò un’intervista alla rivista Civiltà Cattolica. Nell’intervista, riflette sulle tre virtù teologali: fede, speranza e carità. La mia interpretazione dei commenti di Bergoglio è che il problema principale per i cristiani oggi non sia la fede. Né la verità. C’è qualcosa di più urgente: l’attenzione dei cristiani oggi dovrebbe essere concentrata sulla carità, la misericordia, l’esistenza vivente di Gesù. La Chiesa, secondo Bergoglio, dovrebbe essere concepita come un ospedale da campo.
A volte viene chiamata “compassione”. A volte “solidarietà”. Deleuze e Guattari, nell’introduzione a Che cos’è la filosofia?, parlano di “amicizia”. Che cos’è l’amicizia? È la capacità di creare un mondo comune, un mondo di enunciazioni e aspettative ironiche. L’amicizia è la possibilità di creare un percorso comune nel corso del tempo. Come dicono gli Zapatisti, citando il poeta Antonio Machado, “Caminante no hay camino el camino se hace al andar”. La strada si fa camminando. Non c’è verità, non c’è significato, ma possiamo creare un ponte oltre l’abisso della non esistenza della verità. “Ai migliori manca ogni certezza” significa che i migliori hanno ironia, un linguaggio non assertivo che mira a sintonizzarsi su molti livelli di significato. Il sorriso ironico implica anche empatia, la capacità di condividere la precarietà della vita senza pesantezza. Quando l’ironia si separa dall’empatia e perde la leggerezza e il piacere della precarietà, si trasforma in cinismo. Quando l’ironia si distacca da empatia e solidarietà, la depressione prende possesso dell’anima.
Per i semiologi, cinismo e ironia sono correlati, poiché condividono la presunzione che la verità non esista. Ma dobbiamo andare oltre la semiotica: i due concetti differiscono perché l’ironico è colui che non crede ma piuttosto avverte empaticamente il terreno comune della comprensione. Il cinico è colui che ha perso il contatto con il piacere e si piega al potere perché il potere è il suo unico rifugio. Il cinico si piega al potere della realtà, mentre l’ironico sa che la realtà è una proiezione della mente, di molte menti intrecciate.
Quando i filosofi si resero conto che Dio era morto e che non c’era una base metafisica per le nostre interpretazioni, emersero diverse posizioni etiche. Una posizione si basava sull’aggressività e sull’applicazione violenta della Wille zur Macht: nel mondo non esiste verità, ma sono più forte di te, e la mia forza è la fonte del mio potere che stabilisce la verità. Un’altra posizione era l’ironia: l’amicizia e la condivisione egualitaria possono costruire un ponte di significato attraverso l’abisso della non esistenza del significato.
Pubblichiamo un estratto dal libro di Luca Bergamo, È qui il mio respiro (Luca Sossella editore)
Luca Bergamo
Un cambiamento d’epoca
Usavo transizione in opposizione a crisi per evocare lo stesso concetto a partire dal 2012. Dicevo: se politica e collettività bollano come temporanei i cambiamenti in corso, se prevale la convinzione che sia sufficiente aspettare perché tutto torni come prima (del crollo dei mercati finanziari nel 2008), i rischi di collasso e di guerra in Europa sono molto alti. Non ci voleva Cassandra per immaginare una tempesta all’orizzonte, eppure…
Solo più tardi ho scoperto l’espressione del Papa, che senza dubbio è più incisiva, chiara e da allora l’ho fatta mia. Mi scorre ora davanti agli occhi e… Nel mezzo del cammin penso; la selva oscura. Dante!
Il collegamento mi sembra azzardato, tuttavia non riesco a cancellare la convinzione di essere proprio in quella selva che nasconde alla vista il futuro e fa svanire il passato che merita di essere ricordato. Proprio là, dove la via è smarrita.
Immersi in un cambiamento vertiginoso per rapidità e implicazioni, circondati da guerra, povertà, collasso del clima, perdita di controllo sulla tecnologia… siamo nella selva oscura, dove la via è smarrita.
Diritta non è mai stata la via, bisogna riconoscere. Ma con tornanti, salite e vertiginose discese, retromarce e riprese, una qualche strada verso una società più rispettosa della dignità umana l’avevamo percorsa. Ora è interrotta. Senza una bussola che indichi la direzione di marcia e senza la volontà di consultarla, il passato sbiadisce, perde di significato, magari celebrato ritualmente ma senza consapevolezza o empatia.
Resta solo un presente continuo in cui il progetto del futuro non ha radici. Senza il campo delle possibilità non si può immaginare alcuna alternativa a quello della realtà contingente. Se così fosse, forse è utile ricordare e riflettere intorno a ciò che potrebbe essere, che vorremmo fosse. Ma cosa ricordare e cosa no. La storia? Le storie? Quali e come?
Scompare proprio tutto?
“Tutte le immagini scompariranno. […] Tutto si cancellerà in un secondo. Il dizionario costruito termine dopo termine dalla culla all’ultimo giaciglio si estinguerà. Sarà il silenzio e nessuna parola per dirlo”, così Annie Ernaux in Les Années.
Ecco cosa se ne va con l’ultimo respiro (almeno per chi non crede in altre vite terrene o spirituali). Una parte di te resta nella vita di altre persone, vicine e lontane. Per un po’. Poi, salvo poche eccezioni di cui parla la storia o la leggenda, permane mescolata nelle cose, nelle abitudini, nelle tradizioni. Il resto svanisce. Oggi sempre più in fretta, perché travolto da una società che muta a un ritmo troppo incalzante, che con l’urbanizzazione selvaggia dissolve le forme sociali grazie alle quali un po’ di storia vissuta può essere condivisa tra generazioni diverse.
Come fa una società che vive nel presente immanente a sentire – non a capire – il dolore di un sopravvissuto alla Shoah o di una mamma che perde il suo piccolo nelle acque del Mediterraneo mentre cerca la speranza o di un anziano che vive a Rafah, ai confini tra Russia e Ucraina, nel Sahara Occidentale? O la gioia del primo passo sulla Luna o della scoperta del bosone di Higgs? O la rabbia e la paura della perdita di lavoro, di una diagnosi infausta, della mancanza d’acqua…?
Senza un’intelligenza collettiva, senza l’empatia che implica mettersi nella pelle di un altro da sé invece di tapparsi occhi e orecchie, è possibile emanciparsi dalle miserie di cui è densa la vicenda umana?
Quanto ci allontaniamo da questa necessaria capacità affogando in uno stile di vita che l’urbanizzazione, la mercificazione di tutte le esperienze e l’espansione della sfera emotiva dei nostri avatar schiaccia nel presente continuo? Dove finiscono il passato e il futuro?
Le gallerie non se ne occupano, ma per fortuna molte grandi istituzioni culturali hanno iniziato a riconoscerne il valore; sono sempre più diffuse le pratiche dell’arte contemporanea che s’immergono nelle comunità di base, per riscrivere possibili futuri investigando il passato e il presente attraverso le storie delle persone. Me l’ha fatto scoprire Sara Alberani, tra le diverse prospettive sull’arte contemporanea cui mi ha avvicinato.
Resta solo l’arte – parole, forme e colori, suoni – per condividere l’unicità che abita ciascun essere umano, le sensazioni, emozioni, i pensieri che ogni esperienza sollecita o alimenta? Null’altro?
Anche l’oratoria è, era, un’arte. Una di quelle cui si devono anche grandissimi guai nella società di massa, da Hitler e Mussolini e così via. Oggi va sotto il nome di comunicazione.
Di nuovo, senza una bussola, senza etica, ogni creazione umana può essere piegata per fare del male.
Ogni volta da capo
In I robot e l’impero di Isaac Asimov, Daneel (robot) parla con Giskard (robot) che gli confessa di aver influenzato le menti di una folla per accrescerne l’empatia con il discorso che pronuncia Lady Galadia (umana).
“Non vedo come questo sia possibile, amico Giskard – commentò Daneel – Anche a me pare impossibile, amico Daneel. Non sono umano. Non so cosa significhi in prima persona possedere una mente umana con tutte le sue complessità e le sue contraddizioni, quindi non sono in grado di comprendere certi meccanismi. Ma, almeno in apparenza, le moltitudini sono più facilmente influenzabili degli individui. È un paradosso vero? Lo spostamento di un grosso peso richiede più forza dello spostamento di un piccolo peso. Lo spostamento lungo una grande distanza richiede più tempo dello spostamento lungo una distanza piccola. Perché, allora, è più semplice controllare una folla che un gruppetto di pochi? […] Giskard parve riflettere alcuni istanti, quindi disse: Non è la ragione a essere contagiosa, ma l’emozione.
Lady Galadia ha scelto argomentazioni capaci, a suo parere, di far leva sui sentimenti della gente. Non ha cercato di ragionare con il pubblico. Dunque, […] più la folla è numerosa più è facile controllarla puntando sull’emotività lasciando da parte la razionalità. Dal momento che le emozioni di base sono poche e le concezioni razionali molte”.
Ogni vita, ogni sapere, ricomincia dalla parola e dai gesti di chi ti alleva.
Che peso avrà nei prossimi decenni l’intelligenza artificiale nella formazione dei sentimenti, nella formazione all’emozione?
Durante la Divali, la festa induista delle luci, ho sentito dire: “Essere non-violento non significa dirsi che non ho l’impulso alla violenza, ma che non posso farla e imporsi di non farla”. Una scelta, che coinvolge ragione ed emozione, consapevole che ci sono circostanze della vita in cui si vuole fare del male a qualcuno, ma che è sbagliato farlo.
Quali valori dovranno essere leggi inviolabili per le intelligenze artificiali, quali i limiti del loro impiego, quali ricordi conservare, condividere, quali rimozioni? Quali gli strumenti culturali degli umani per non diventarne succubi?
Il futuro, una volta
Ho sempre avuto un rapporto fragile con la memoria dei fatti della mia vita e delle emozioni che li accompagnarono, lo sguardo sempre e fin troppo orientato al futuro. Per cui ricordo poco e costruisco – ho costruito – pensiero su pensieri, scansato la memoria delle sensazioni e delle emozioni vissute per lasciare spazio vergine (o quasi) a quelle di domani. E forse per questo sento poca musica pur adorandola, perché su di me esercita tutto il suo potere di rianimare la memoria emotiva. Forse, in fondo, sfuggo la memoria emotiva perché m’intimorisce.
Tuttavia, le convinzioni di cui parlo qui sono indissolubilmente legate a emozioni vissute e alla loro elaborazione.
Da qualche parte conservo una bacchetta magica di Harry Potter regalata ai miei figli. Provo a farne uso per tirare fuori dal bacile dei ricordi e dei pensieri qualche filamento che spieghi, o semplicemente collochi ragione ed emozione in un qualche rapporto.
[Luca Bergamo, È qui il mio respiro, in libreria dal 5 giugno, qui in preordine)
In occasione del convegno Materiality at the Intersection of Ecology and Religious Studies, Relazioni: ha incontrato Benedetta Panisson
Benedetta Panisson
Nel 1000 il Doge di Venezia, Pietro II Orseolo, sposò il mare. L’unione avvenne nel porto di S. Nicolò. Vestito di ermellino e con un corno in testa, sfilò lentamente a bordo del Bucintoro, talmente bardato di statue d’oro da diventare un oggetto inadatto alla navigazione. Fu versata acqua benedetta nell’acqua, fu gettato un anello nelle onde. La cerimonia fu resa sacra da Papa Alessandro III nel 1173 con queste parole: «Doge di Venezia, questo è l’anello nuziale del tuo matrimonio con il mare. D’ora in poi vogliamo che tu e i tuoi successori la sposiate ogni anno».
Che cosa ha significato quel rito? In quale sfera politico-religiosa si iscrive? Come si trasforma un ecosistema in un ecosistema di potere? Su quell’evento prova a riflettere Benedetta Panisson, artista visiva e ricercatrice alla Durham University, che intreccia da sempre pratiche artistiche e riflessioni teoriche con lenti femministe e queer su ecologia, desiderio e potere. Sarà una delle relatrici al convegno internazionale Materiality at the Intersection of Ecology and Religious Studies che si terrà alla Fondazione Giorgio Cini a Venezia, dal 21 al 23 maggio, per iniziativa del Centro Studi di Civiltà e Spiritualità Comparate, diretto da Francesco Piraino.
Il rito dello sposalizio del Doge col mare contiene in sé molti elementi. Il primo è la consacrazione di una visione di governo integrale dell’ecosistema che la Serenissima aveva, almeno si ritiene avesse, con una lungimiranza che si è perduta. Si potrebbe parlare di una cosmovisione politica?
Innanzitutto, bisogna intendersi su cosa significhi ‘consacrare’, e se vi sia effettivamente una lungimiranza perduta. Come studiosa delle culture e delle visualità erotico-sessuali negli spazi insulari, direi che è necessario comprendere, dal punto di vista storico, chi ha consacrato cosa. Anche i portoghesi, l’impero britannico, gli spagnoli, hanno consacrato una ‘cosmovisione politica’, forzando alla cristianizzazione, portando alla vergogna comunità che venivano ritenute al di fuori di un certo canone, sfruttando i territori.
L’Occidente, sulle culture insulari e anche quelle erotico-sessuali, da Samoa alle Andamene, dalle Trobriand a Tonga, ha imposto una omologazione coloniale, e morale, tra le più estese e durature della storia umana. Erano missioni consacrate. È una memoria fondamentale ed è importante comprendere cosa implichi, da parte di uno Stato, avere una cosmovisione, e cosa ogni consacrazione copra o escluda. Uno sposalizio cristiano tra un maschio di potere e questa meraviglia che chiamiamo ‘mare’ ha delle conseguenze, e non credo siano solo ecologiche.
Ogni tanto gioco con mia figlia con google earth, e zoomiamo a caso in mezzo all’Oceano Pacifico, sembra esserci solo acqua, poi zoomiamo ancora, spunta un piccolo arcipelago, che dista almeno quattromila chilometri da ogni terraferma. E se zoomiamo ancora l’immagine satellitare, non c’è niente in quell’arcipelago tranne una croce cristiana e si intravede, sfuocata, una chiesa. Voglio poter spiegare a mia figlia perché in mezzo all’oceano, in quell’arcipelago, c’è una croce. Rispondendo alla domanda: sì, lo sposalizio con il mare ha una visione di governo integrale dell’ecosistema e una cosmovisione politica. Ma suona ora come un qualcosa di più cupo. Abbiamo invece strumenti e interconnessioni per ri-pensare e re-immaginare il rapporto con il mare e le sue isole, anche noi stessi veneziani.
Nell’atto dello sposalizio sembra trasfigurarsi la stessa idea di città. La semantica della città per come la conosciamo perde consistenza, non è più palazzi, ponti, confini: la città può farsi solo mare? In quell’atto, della città resta una dimensione tutta liquida?
Direi piuttosto essere il contrario: il Doge attraverso lo sposalizio consacra una sottomissione, in cui la femminilizzazione del mare è l’atto attraverso il quale questo può avvenire. Questo solidificava la città e il suo sfarzo. Potrei dire che l’acqua e l’assenza di ossigeno cementificano le palafitte che la sostengono.
Il Doge rendeva l’Adriatico una funzione (moglie) del proprio dominio: non un atto di salvezza per il mare, ma per la propria immagine. Desposamus te, mare, in signum veri perpetuique dominii, dice la formula, e non ci sono modi per leggere il dominio differentemente da uno sfruttamento. Penso che uno degli elementi che più mi sostiene nella pratica artistica e in quella accademica a Durham University, sia l’essere veneziana: Venezia ha qualcosa in comune sia con alcuni dei popoli oceanici minacciati dal turismo di massa, dal peso degli esotismi, dall’innalzamento del livello del mare, sia con isole con un passato di conquista e dominio. Questo la rende ibrida e interconnessa a vari immaginari insulari.
Nel 2013 ho fatto parte con Come to Venice di Contingent Movements Archive, piattaforma del Padiglione delle Maldive della 55ma Biennale d’Arte di Venezia, curato da Hanna Husberg e Laura McLean. Indagava l’ipotetica sparizione di isole per l’innalzamento del livello del mare e gli scenari migratori delle popolazioni che vi abitano. Correlava l’estuario veneziano a una questione maldiviana, e viceversa.
Questo crea alleanza e interdipendenza ecologica. Anche a Ca’ Foscari, ad esempio nel Talanoa Forum: Swimming against the tide, creato da una collaborazione tra Francesca Tarocco, direttrice del THE NEW INSTITUTE Centre for Environmental Humanities (NICHE), la storica dell’arte Cristina Baldacci e la curatrice Natalie King, e diretto dall’artista Yuki Kihara, Venezia si fa ibridazione di culture insieme a Samoa e Aotearoa, Nuova Zelanda. Ocean Space, inaugurato nel 2019, consolida questa interconnessione tra insularità. Questi aquapelagi1 estesi sono ciò che rendono fluida Venezia.
Torniamo al Doge: con quella celebrazione rituale, sembra stabilire un rapporto di potere sulla natura, eppure non compie un rito sacrificale o di comando, lo fa attraverso una forma matrimoniale, un’alleanza che dovrebbe essere intima, carnale, orizzontale. Come si possono leggere i rapporti di potere?
Il matrimonio, per come lo si intende all’interno del contesto storico dello sposalizio con il mare, un arco di tempo di 700 anni, non è un’alleanza orizzontale, bensì patriarcale e in quanto tale verticale. La femmina nel patriarcato è una funzione di esso, che garantisce potere al maschio, e sudditanza alla femmina. Questo ragionamento, all’interno di una gerarchia cristiana, e del potere dogale, si amplifica. E si amplifica ancora più se applicato a un’entità naturale, il mare. La natura non è femminile, ma se una forma di oppressione funziona sul corpo di una femmina può funzionare anche su di un’entità naturale come il mare, femminizzandolo.
Ad esempio, il botanico settecentesco Linneo attribuì ad alcune piante il sistema patriarcale eterosessuale cristiano della sua epoca, ma questa attribuzione si mostrava come fosse proprio la natura a fornirci queste regole. Il modo cristiano di intendere sesso e genere diveniva un modello osservabile in natura: chiamava camera nuziale una parte del fiore, e moglie e marito, il pistillo e lo stame. Però pistillo e stame non sono due persone cristiane.
La dogaressa non sposa un mare maschio, ad esempio. Il Doge, attraverso l’azione del matrimonio simbolico doma, e domina, la femmina-mare. Non posso dire se il Doge ami il mare-femmina, bisognerebbe sapere che cosa significasse amore per un Doge veneziano. Questa analisi ci serve nel contemporaneo: alla luce dei femminismi, della lotta per la parità dei diritti, dei diritti delle comunità LGBTQIA+, dell’ecologia femminista, non si può lasciare indisturbato questo rituale. Con la parola ‘disturbo’ intendo che, nel 2024, compiere un rituale in cui metaforicamente l’autorità (per ora maschile) sposa il mare, inteso come femminile, è disturbante, e però anche disturbabile.
Lei fa una lettura queer dell’evento. Perché è un matrimonio che entra in un altro terreno sentimentale, tra un vivente umano e un vivente non umano e non animale. È possibile parlare di un’ecologia queer?
Farei un passo indietro: la lettura queer che faccio sul rituale del matrimonio del mare non è perché ritengo che questo sia un unione interspecie, ibrida, queer, e uso qui la parola ‘queer’ nel senso di non-conforme in relazione a conformità ritenute dominanti ed escludenti, bensì tirando in ballo una questione fondamentale, come invita a riflettere Greta Gaard, ospite del convegno e insieme a lei una moltitudine di altre voci, come Donna Haraway, Catriona Mortimer-Sandilands, Myra j. Hird, Eve Kosofsky Sedgwick, Rachel Carson: il matrimonio con il mare funziona solo all’interno di una complessa struttura culturale e morale in cui la costruzione del concetto di ‘natura’ e quello di ‘femmina’ agiscono similmente su di un qualcosa che si ritiene minoritario, sottomissibile, promiscuo, qualcosa che spaventa.
Dire che questo ruoti intorno al cardine del controllo sulla fertilità, è banale. Riformulando dunque la risposta, potremmo dire che lo sposalizio con il mare, nel quadro storico in cui lo si è inventato, all’interno della cristianità, e nei secoli a seguire, funziona solo in un tragicomico paradosso: è il fatto di pensare che il domino e lo sfruttamento del corpo femminile e della natura possano garantire a chi lo persegue un vantaggio enorme, economico, sociale, culturale.
Se lo sposalizio con il mare non fosse uno sposalizio, nella sua forma eteronormata ed escludente, se avvenisse al di fuori della cristianità, o non esclusivamente in una spiritualità che rappresenta solo una parte della cittadinanza veneziana, e globale, se non promettesse dominio sui mari ma una forma ecologica di rispetto e affetto per questa creatura che chiamiamo mare, ecco che forse potremmo parlare di un’unione eco-queer con il mare.
Il mare non è una femmina che ha bisogno di essere sposata, bensì una delle forme biologiche più complesse ed enormi della Terra. Che questo riguardi anche, ma non solo, la spiritualità umana, mi sembra evidente. Lo sposalizio con il mare può dunque insegnarci più cose: a ripensare costantemente che cosa intendiamo per ‘natura’, che cosa intendiamo per ‘femmina, che cosa intendiamo per ‘dominio’.
Quel rito è anche un atto performativo, diremmo ora. Lei ha prima di tutto una formazione d’arte: cosa la colpisce dell’impronta visiva, coreografica, dell’evento? Ha anche una matrice camp? cosa ha di peculiare rispetto ad altre forme rituali?
In generale, mi infastidisce ogni atto performativo che si prenda troppo sul serio. Quel rito è anche un atto performativo e si prende sul serio: il lancio dell’anello d’oro, la formula consacrante, il Bucintoro bardato di statue, il corno ducale. È un rituale sfarzoso che mette in scena la cristianità, il potere, la gerarchia. Come accademica mi interessa perché rende esplicita la costruzione di questa relazione, la credenza di poterne domare le tempeste, le mareggiate, gli eccessi, la diversità imprevista, attraverso una serialità di parole e gesti.
Come artista m’interesserebbe di più un atto performativo che si pone in ascolto e osservazione, forse addirittura in uno stato di contemplazione, delle variazioni e del potere del mare, più che nel tentare di domarle. Sono veneziana, di quelle veneziane perpetuamente innamorate di queste isole e di questa laguna, amo i suoi eccessi estetici e di costumi, da un punto di vista storico, ma non ritengo vi siano elementi camp nel tradizionale sposalizio con il mare. Lo direi con le parole di Susan Sontag: «Camp is a solvent of morality. It neutralizes moral indignation, sponsors playfulness»2. Il camp può cancellare la moralità, neutralizza l’indignazione morale, promuove ciò che è scherzoso. Non si tratta di questo, in questo caso, ma per certo possiamo prenderne spunto per il futuro prossimo.
Hayward, Philip (2014). “Aquapelagos and Aquapelagic Assemblages: Towards an integrated study of island societies and marine environments” (PDF). Shima. 6 (1): 1–11. ↩︎
Sontag Susan, Notes on Camp, Penguin Books Ltd, 2018 ↩︎
Massimiliano Nicoli risponde ad alcune domande di Relazioni: sulla mutazione del lavoro contemporaneo
Massimiliano Nicoli
Autore del saggio, Le risorse umane (Roma, Ediesse, 2015) Massimiliano Nicoli è uno psicanalista, studioso del pensiero di Michel Foucault e attualmente redattore di “aut aut” e chercheur associé presso il Laboratorio di ricerca Sophiapol dell’Université Paris Nanterre. Nicoli propone una lettura interessante delle teorie e delle pratiche legate al management delle risorse umane nelle organizzazioni avendo come filo conduttore e punto di riferimento centrale della sua esplorazione (genealogica e diacronica) il complesso bagaglio concettuale dell’elaborazione foucaultiana. In questa ricca intervista, Nicoli affronta il tema della fine del lavoro e delle strategie conseguenti.
Al tempo della fine del lavoro quali strategie di resistenza possono aprire ad una nuova stagione dei diritti per i lavoratori?
Prima di tutto, bisognerebbe intendersi su che cosa significhi “fine del lavoro” quasi trent’anni dopo la pubblicazione del libro di Jeremy Rifkin con questo titolo1 . Ciò di cui si decretava la fine – nell’enorme letteratura sul postfordismo – erano l’impiego stabile taylorfordista e la società salariale di cui esso era il fulcro, e di cui Robert Castel aveva fatto la storia in Les métamorphoses de la question sociale2 . Era tutto un patto sociale fra capitale e lavoro, sorvegliato dallo Stato nella sua funzione regolatrice, che andava a farsi benedire.
In passato, ho cercato di integrare tale patto nella cornice concettuale di un dispositivo biopolitico di regolazione della forza-lavoro e, più in generale, della popolazione, il “dispositivo di stabilità”, vale a dire una certa organizzazione dei rapporti di forza secondo una forma specifica di divisione sociale e sessuale del lavoro in cui il significante “stabilità” la faceva da padrone tanto sul piano politico che sociale3 .
Le trasformazioni economiche e manageriali che hanno accompagnato l’affermazione della razionalità politica neoliberale hanno determinato una ricomposizione radicale di quel dispositivo e una sostituzione di “stabilità” con “flessibilità” nel registro simbolico del significante: nascita dell’“uomo flessibile” di cui parlava Richard Sennett4 , o del soggetto-capitale-umano che lavora senza sosta su se stesso per rendersi appetibile in un mercato del lavoro giuridicamente regolato in modo che l’impiego stabile diventi un’eccezione e non più la regola.
In questo passaggio dal “dispositivo di stabilità” al “dispositivo di flessibilità”, quindi, non è il lavoro che finisce, ma solo l’impiego, o un certo tipo di impiego. Non a caso, nella Société automatique del 20155 , Bernard Stiegler parlava di “fin de l’emploi” e non di “fin du travail” di fronte alle trasformazioni determinate dal procedere dell’automazione. E se l’impiego finisce, il lavoro, al contrario, si trasforma e resta una categoria ipertrofica che domina le nostre vite.
In questi anni, io e Luca Paltrinieri abbiamo tentato di descrivere una specie di “estensione del dominio del lavoro”, nel senso che il lavoro professionale, produttivo – o il lavoro come vocazione (Beruf, per citare il vecchio Weber6 ) – diventa sempre di più “lavoro su di sé” ovvero “lavoro di produzione di sé”7
Con questo volevamo dire che la presa del lavoro sulla vita si estende nella misura in cui il modello normativo della soggettività neoliberale si impone agli individui tramite la forza di un certo discorso ripetuto come una liturgia nei sistemi educativi, nelle imprese, nella politica. Tale discorso dice: la relazione di lavoro non è più uno scambio tempo contro denaro, un’operazione di alienazione della forza-lavoro compensata da un salario – roba vecchia; l’attività lavorativa è in verità la via d’accesso alla stima (economica) di sé stessi, alla valorizzazione di sé in quanto capitale umano, all’investimento sulle proprie competenze, alla costituzione di un’autentica “immagine di sé” in cui riconoscersi e tramite la quale farsi riconoscere. Di più, ogni attività che partecipa a questa impresa di costituzione e realizzazione di sé può finire nella categoria di lavoro. In altre parole, la remunerazione del lavoro è meno economica che psicologica. Questa ci sembrava e ci sembra tuttora l’elemento inconscio che caratterizza oggi ciò che le scienze manageriali chiamano significativamente “contratto psicologico”.
Al limite, il punto parossistico di questa situazione è che la produzione di merci e servizi diviene un effetto secondario – per quanto necessario – di un lavorio indefesso che l’individuo effettua su se stesso per essere all’altezza delle istanze del soggetto neoliberale. Come dire, non c’è produzione di valore economico per mezzo di lavoro senza un’autovalorizzazione del soggetto, di ogni soggetto, per mezzo di lavoro su di sé. Potremmo definire questo regime di accumulazione come un’“economia politica della valorizzazione di sé”8 , di cui la passione contemporanea per la valutazione e l’ossessione psicosociale per l’autostima mi sembrano sintomi9 .
Possiamo chiamare, con Pierre Dardot e Christian Laval10 , “soggetto del valore” il soggetto che questo regime economico-politico implica. Posto che Max Weber non si sbagliasse nell’individuare le affinità elettive tra l’etica capitalistica del lavoro e le forme di ascetismo protestante, direi che non siamo mai stati tanto protestanti quanto in questa fase del capitalismo.
Infine, aggiungo un elemento che traggo da un eccellente testo di Andrea Muni pubblicato nel 2018 dalla rivista aut aut11 . Ciò che ho chiamato modello normativo della soggettività neoliberale assomiglia non poco alla forma attuale di quello che Freud, nel Disagio nella civiltà12 , definiva Kultur-Über-Ich, il Super-io della civiltà, collettivo e storico, le cui prescrizioni si ritrovano per analogia nelle istanze superegoiche individuali (sulle ragioni che spiegano l’analogia ci sarebbe da discutere, ma non finiremmo più).
Chiamiamolo, per semplificare, Super-io neoliberale. Seguendo il discorso di Muni, direi che l’individuo interpellato come “soggetto del valore” si struttura intorno a un Super-io valutatore che ribatte senza sosta l’Io attuale sull’immagine idealizzata di sé costruita attraverso il lavoro e tutti i dispositivi sociali contemporanei facenti funzione di specchio, sottomettendosi a un’istanza superegoica socialmente e politicamente determinata che per definizione non sarà mai soddisfatta.
E malgrado gli effetti di sofferenza sociale (melanconia, depressione, problemi di autostima) già descritti da Alain Ehrenberg nel 199813 , l’individuo soggettivato come soggetto del valore persiste perversamente in questa condizione godendo masochisticamente del suo assoggettamento al Super-io valutatore, tanto più che deve negarsi come corpo pulsionale in quanto quest’ultimo è antieconomico per principio. In questo senso, mi sembra che si possa definire l’arte di governo neoliberale come l’arte di organizzare quello che Freud chiamava “masochismo morale”14 sotto forma di narcisismo.
Insomma, l’Io neoliberale – soggetto del valore – è sempre freudianamente servo di tre padroni: il mondo esteriore che gli ordina di mettersi in valore, le pulsioni dell’Es di cui deve negare la funzione antieconomica sublimandole nell’economico, il Super-io che non smette di inchiodarlo alla sua inadeguatezza rispetto all’immagine di sé che egli stesso produce, dandogli in cambio la sola possibilità di godere masochisticamente di tale inadeguatezza. L’evaporazione del padre (o l’eclissi della funzione del Nome del Padre) di cui molti psicanalisti parlano a torto o a ragione non diminuisce – tutt’altro, mi sembra – il moralismo economico, per così dire, del Super-io, per quanto questo dovrebbe avere, secondo Freud, un’origine altrettanto edipica che culturale.
Ciò non toglie che il soggetto del valore che lavora ossessivamente su sé stesso sia un soggetto del godimento esibito e senza limite, solo che tale godimento è comandato dal sadismo del Super-io neoliberale che fa anche del sesso una questione di economia nel senso dell’autovalorizzazione. Insomma, siamo di fronte a una profonda individualizzazione e psicologizzazione del lavoro che diventa ormai sinonimo di una soggettivazione individuale ben specifica. È questo l’evento che decreta nello stesso tempo la “fine del lavoro”, se ancora vogliamo usare questa espressione impropria, e soprattutto il suo trionfo.
Mi scuso per questa premessa lunghissima ma era necessaria per rispondere a questa e ad altre domande, o forse – temo – per schivarle in una certa misura. Se questa è la situazione, si capisce che qualsiasi “strategia di resistenza” non può che misurarsi con tale individualizzazione. Io resto un rottame marxista, sono stato un sindacalista e lo sarò sempre, sono oggi in una situazione di conflitto con il mio ex datore di lavoro principale e penso che gli strumenti tradizionali della lotta collettiva siano il solo modo per ribaltare un rapporto di forza. Quindi penso che sarebbe un’allucinazione pensare di poter sfuggire a un’individualizzazione tramite un’altra individualizzazione, a un lavoro su di sé attraverso un altro lavoro su di sé. Nello stesso tempo, non si possono fare le lotte se il prezzo da pagare è diventato oggi l’annientamento soggettivo e lo sgretolamento della propria struttura psichica.
Per questo, sempre con Luca Paltrinieri, ci siamo interessati, insieme a molti altri, alle nuove forme di cooperazione del lavoro15 che si manifestano dentro l’individualizzazione neoliberale e il cosiddetto “capitalismo delle piattaforme”. Che si tratti delle cooperative di lavoratori autonomi e indipendenti – per scelta o per imposizione – o del “cooperativismo di piattaforma”16 , queste pratiche ci sono sembrate delle esperienze collettive di sovversione dall’interno dell’auto-imprenditorialità e della logica finanziaria dell’investimento su sé stessi.
La connessione fra lavoro indipendente e cooperazione che sottrae il primo alle relazioni individuali di concorrenza senza sacrificarne l’autonomia può rendere ancora possibile la trasformazione della soggettività politica a partire dal lavoro. Del resto, come le ricerche storiche di Jacques Rancière ci hanno insegnato17 , il movimento operaio, nel XIX secolo, ha cominciato da qui, dalla cooperazione fra contrattisti indipendenti, i precari di allora, che si associavano liberamente per cambiare il rapporto con il lavoro, per diventare altro da sé, per riprendere il controllo del tempo, per decidere di non sopportare più l’insopportabile, e cioè “l’umiliante assurdità di dover elemosinare, giorno dopo giorno, questo lavoro in cui la vita si perde”, per usare le parole di Rancière18 .
“Questo lavoro in cui la vita si perde” si scrive oggi come lavoro su di sé senza il quale si perde la vita. Solo la cooperazione può cancellare questa iscrizione, mostrando che se si lavora, si lavora per ridurre al minimo il tempo di lavoro necessario alla riproduzione di una società, per trasformare la divisione sociale e sessuale del lavoro, per rendere il reddito indipendente dalla misura e dalla valutazione del lavoro, per fare del lavoro, dell’essere all’opera, “il primo bisogno della vita”, come diceva Marx19 , e non un focolaio di depressioni spacciate per vocazioni o, nella migliore delle ipotesi, un sintomo nevrotico.
Purtroppo, però, non sono molto ottimista: si tratta ancora di esperienze di cooperazione estremamente minoritarie, al punto che, forse, il numero di persone come me che si occupano di questi fenomeni supera quello degli attori sociali che vi sono realmente implicati. Ma la questione resta: bisogna costruire delle istituzioni collettive capaci di rendere desueto, intollerabile, refutabile, non desiderabile il soggetto del valore neoliberale. Delle istituzioni che rendano praticabile e sostenibile questo rifiuto, in grado di fornire tanto reddito quanto riconoscimento simbolico. In grado di far ripartire la cultura storica della solidarietà e della lotta nei luoghi di lavoro, di evacuare il pensiero terribile per cui se perdi il lavoro con cui sei identificato, perdi in blocco tutto quel pacchetto psicologico che si chiama Io, il soggetto della coscienza.
Al limite, se esiste un lavoro su di sé da non buttare via, è quello che fanno da sempre i militanti, sopportando, talora con gioia, il dolore che le lotte impongono. Sempre l’amico Muni direbbe che i militanti sono capaci di transitare dal masochismo morale a quello erogeno, primario, iscritto nel corpo pulsionale. Non lo so. Quello che so è che sono troppo soli.
A fronte della crisi pandemica si sono aperte nuove prospettive possibili per i lavoratori? Anche davanti all’aumento degli scioperi che hanno caratterizzato negli Stati Uniti il 2023? Quale secondo lei un punto di svolta possibile nel prossimo futuro per la battaglia dei diritti? La sinistra è ancora in grado in Europa di rispondere alle esigenze della classe lavoratrice?
Per molti la pandemia di Covid-19 è stata, o è sembrata essere, un momento estremamente rivelatore. Anthony Klotz – citato da Francesca Coin nel suo ultimo libro, Le grandi dimissioni20 – ha parlato, in questo senso, di “epifanie pandemiche”. La crisi sanitaria avrebbe mostrato in tutta evidenza quali sono le attività socialmente indispensabili (guarda caso, le meno economicamente valorizzate) e quali le attività che servono a solo a far funzionare i regimi capitalistici di accumulazione del valore (guarda caso, le più economicamente valorizzate) – i bullshit jobs, per usare un’espressione di David Graeber che ha avuto molto successo21 .
Non solo. La pandemia, obbligando a fare la radice quadrata delle attività burocratiche non strettamente necessarie, ha mostrato anche quanto lavoro burocratico inutile è normalmente imposto dalle procedure neoliberali di valutazione, benchmarking, misura delle performances, messa in competizione delle unità produttive a tutti i livelli, anche e soprattutto nei settori socialmente essenziali come la sanità e l’istruzione. Studiose come Béatrice Hibou e Isabelle Bruno lavoravano già da anni su questo tema22.
Insomma, une delle epifanie pandemiche sarebbe stata la manifestazione infine incontrovertibile del lato oscuro del lavoro neoliberale, della crisi di ogni “narrazione” che insista sulle sorti indiscutibilmente progressive ed emancipatrici del lavoro e della carriera, permettendo a molte persone di prendere una distanza critica rispetto al proprio impiego e alla propria implicazione in esso.
Dal lato dei poteri governamentali, non sembra che queste epifanie abbiamo lasciato delle tracce: non si riscontra nessuna inversione di tendenza rispetto allo sfacelo dei sistemi di istruzione e sanitari, per lo meno in Francia. E i regimi di accumulazione che sfiniscono la forza-lavoro e massacrano il pianeta continuano a funzionare come niente fosse. Dal lato dei lavoratori e delle lavoratrici, invece, gli scioperi del 2023 e il fenomeno che è stato internazionalmente definito come Great Resignation, Grande démission, Grandi Dimissioni possono essere messi in relazione a quanto accaduto durante la crisi pandemica.
È quello che fa giustamente Francesca Coin nel suo importante libro che ho già citato, considerando nella fattispecie l’aumento delle dimissioni volontarie su scala pressoché planetaria come il sintomo di una “disaffezione al lavoro” che viene da lontano e che si manifesta nella e dopo la pandemia. Il rapporto con il lavoro sta cambiando? La domanda risuona anche qui in Francia, dove i lavori di ricerca su questo tema si moltiplicano. E non mi stupisce il fatto che le risposte cambino secondo i posizionamenti politici dei soggetti che conducono le ricerche, nonostante il fatto che i dati quantitativi mobilitati siano spesso i medesimi.
Per esempio, l’Institut Montaigne, think-tank liberale finanziato dal grande capitale francese (LVMH et Total, per esempio) nega categoricamente l’esistenza della grande démission23, mentre la FondationJean Jaurès, vicina storicamente al PS ma poi anche al partito di Macron, ha una posizione meno netta24. Ma in ogni caso dai dati emerge una relativa disaffezione al proprio impiego, una preferenza per più tempo libero rispetto a più denaro, il ruolo catalizzatore della crisi sanitaria in questo cambiamento, un bisogno di maggiore autonomia e senso nel lavoro.
Il rapporto della Fondation Jean Jaurès lascia trasparire il fatto che se il lavoro resta importante per la grande maggioranza dei francesi, è l’impiego che diventa sempre meno seducente, a causa dell’accelerazione dei ritmi e della precarizzazione dei rapporti di lavoro (non una grande scoperta, in effetti), da cui una crisi nel rapporto di fedeltà fra il lavoratore e l’azienda. L’inchiesta su cui si basa il testo della Fondazione Jaurès attesterebbe però che la grande maggioranza dei francesi resta sovra-mobilitata nel lavoro, tanto quanto prima della pandemia, e che il famoso fenomeno del “quiet quitting” – il disinvestimento silenzioso del lavoro – non riguarderebbe che una minoranza.
Francesca Coin dedica un capitolo del suo libro all’“anomalia italiana”, cioè il paese dove è più evidente il fatto che a lasciare il proprio impiego non sono gruppi di privilegiati che possono permetterselo, ma, al contrario, working poors che devono lavorare, che lavorano nei comparti a maggiore sofferenza, e che molto spesso non hanno nessun piano B. E soprattutto le donne, che oltre alla condanna del lavoro produttivo subiscono quella del lavoro riproduttivo.
Ciò si deve al fatto che in Italia gli effetti devastanti delle trasformazioni postfordiste del lavoro si sono fatti sentire più che altrove, fino al punto che, marxianamente, il capitale ha persino compresso i salari al di sotto del valore della forza-lavoro, cioè al di sotto del valore dei mezzi di sussistenza, contando sul fatto che le persone avrebbero continuato a lavorare e consumare grazie al credito, al welfare famigliare e all’attaccamento morale al lavoro (il già evocato “contratto psicologico” delle scienze manageriali non è in fondo che un caso particolare della lunga storia dei discorsi e delle pratiche medianti le quali si cerca di legare indissolubilmente il soggetto e il lavoro). È chiaro che a un certo punto la corda si spezza: ci si dimette perché si è esausti, sfiniti, e, oltre a non avere un reddito decente, ci si gioca pure la salute mentale.
È interessante notare, come fa Coin in virtù del suo approccio qualitativo oltre che quantitativo, che alla base della scelta drammatica di lasciare il lavoro, anche in assenza di alternative, c’è uno schietto calcolo costi-benefici, cioè un calcolo economico, diversamente dagli anni settanta quando si rifiutava il lavoro per abolirlo e cambiare il mondo. Il (poco) denaro non compensa né il tempo né la sofferenza, quindi “ciao, me ne vado”. È come se il soggetto economicamente razionale che l’economia ortodossa ci suppone essere usasse finalmente quella logica economica contro il suo padrone, per rendergli la moneta falsa del suo stesso discorso: “guarda che non lavoro per calcolo economico e utilitaristico, ma perché sono obbligato, o perché in qualche modo mi hai convinto di esserlo e che se non lavoro non esisto. Ma se faccio davvero uno dei tuoi calcoli, vedi che me ne vado sul serio”.
Detto questo, leggendo i dati delle inchieste mi sembra che ciò che cambia dopo la pandemia è più il rapporto con l’impiego che con il lavoro, per tenere ancora ferma questa distinzione. In altre parole, la disaffezione che si riscontra oggettivamente in diversi contesti è il sintomo di una crisi di stanchezza del soggetto della prestazione molto ben analizzato da Anna Simone e Federico Chicchi nel 201725: l’ultra-lavoro (su di sé) produce spesso, come rovescio della medaglia, il collasso psicofisico dell’individuo che non ha altra scelta se non cambiare impiego per ricominciare a lavorare su di sé.
Del resto, in Europa, le politiche del lavoro si riducono ormai da anni a delle misure di sostegno alla riconversione professionale finalizzate ad incitare le persone a spostarsi da un comparto in contrazione a uno in espansione dove poter continuare ad accumulare capitale umano. Il tutto accompagnato da un discorso in salsa start-up che invita gli individui ad accettare e finanche valorizzare il fallimento per ricominciare sempre e di nuovo da un’altra parte, assumendo il rischio del cambiamento e dell’innovazione. Ennesimo tentativo governamentale di mantenere il rapporto del soggetto con il proprio esaurimento all’interno di una dimensione impolitica e strettamente individuale, esistenziale, se non spirituale26.
Nel frattempo, come dicevo prima, il soggetto del valore resta inchiodato masochisticamente al lavoro di valorizzazione economica di sé continuando a dimorare in ciò che ancora Graeber in Bullshit Jobs ha chiamato il “paradosso del lavoro contemporaneo”, per cui si odia il proprio lavoro ma non si esiste senza di esso, o meglio, si odia il proprio impiego ma non si esiste senza lavoro. E si finisce per odiare se stessi. Se esiste un punto di svolta o qualcosa che la “sinistra” può fare in questa situazione sarebbe – ma in fondo l’ho già detto – riprendere l’antico progetto marxiano di liberazione della vita dal lavoro, che consisterebbe nel combattere la finzione reale del soggetto individuale del valore a colpi di “uomo socializzato”, diceva Marx, cioè i “produttori associati” che riducono al minimo il tempo di lavoro necessario alla riproduzione materiale della società (il “regno della necessità”) – riportandolo sotto il loro controllo comune invece che esserne dominati – per estendere, sulla base di questo ma al di là di questo, il “regno della libertà” dove “comincia lo sviluppo delle capacità umane”27.
Chiosava Marx nel terzo libro del Capitale: “Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa” [Ibid]. Sarebbe già un buon punto di partenza. E poi, disconnettere il legame che solo il modo di produzione capitalistico ha instaurato – non dimentichiamolo – fra reddito e lavoro, vale a dire realizzare questa utopia alquanto concreta che si chiama reddito universale incondizionato. E dare voce e potere alle esperienze di cooperazione e autogestione (i “produttori associati”, se vogliamo) che ho già evocato, perché possano non solo sopravvivere ma generalizzarsi.
Francesca Coin chiude il suo libro sulle “grandi dimissioni” citando la lotta del Collettivo di Fabbrica GKN di Campi Bisenzio, e ha perfettamente ragione. È una lotta che insegna molto chiaramente che è solo nell’esperienza dell’autogestione che si trasforma il rapporto con il lavoro e che si possono inoltre mettere radicalmente in questione le scelte produttive alla luce della catastrofe ecologica che vivremo e che stiamo già vivendo.
Siamo di fronte a un’accelerazione del capitalismo o a una mutazione? L’Intelligenza artificiale può essere uno strumento di liberazione o di ancor più duro sfruttamento?
Difficile separare accelerazione e mutazione: il capitalismo, accelerando, muta. È un’evidenza che si ritrova sempre quando si cerca di fare la storia di uno degli elementi o delle strutture di questo modo di produzione. Basti pensare al dibattito su taylorfordismo e postfordismo. Il postfordismo è un iper-taylorfordismo o una trasformazione radicale dell’organizzazione del lavoro che l’ha preceduto? Entrambi.
Il taylorismo non è mai morto e sopravvive anche e soprattutto oggi nel management algoritmico delle piattaforme28. E anche nella storia del discorso manageriale che accompagna le mutazioni organizzative non c’è una vera e propria cesura tra fordismo e postfordismo: tutto il catechismo manageriale che insiste sull’umano, sulla collaborazione, sul clima organizzativo, sull’autonomia, sull’empowerment dei lavoratori eccetera si forma già negli anni sessanta con il modello delle “Risorse Umane” di Raymond Miles29 e ha i suoi antesignani in quello delle “Relazioni Umane” di Elton Mayo30 .
Tuttavia, se fino alla fine del fordismo questo discorso restava un progetto o una sorta di lubrificante ideologico, con il post-fordismo diventa un attrezzo fondamentale per distruggere la classe operaia come soggetto antagonista e proteggere un sistema produttivo che nel frattempo, con il toyotismo, è diventato estremamente fragile e vulnerabile – e questa è stata un’enorme trasformazione qualitativa.
Un altro esempio è proprio il soggetto neoliberale del valore, sul quale insisto. Anche questo non è nuovo e non costituisce, in sé, un punto di rottura nella storia del capitalismo e del liberalismo economico e politico. Bisogna immaginarne la genealogia almeno a partire dall’utilitarismo anglosassone e, ancor prima, dal momento in cui la cultura occidentale ha cominciato a far rientrare l’amor proprio (tradizionalmente visto come un male morale) nel gioco degli interessi individuali che produce inconsapevolmente la Ricchezza delle Nazioni – Smith docet. Il soggetto d’interesse, l’uomo economico – “fatto sociale totale”, “regime normativo” delle società occidentali31 – è un soggetto il cui amor proprio (che più tardi si trasformerà in “autostima”) contribuisce involontariamente alla crescita economica. Ritroveremo questa logica all’interno della teoria dell’equilibrio generale degli economistici neoclassici e poi, più tardi, nelle teorie di gente come Hayek, presso i neoliberali americani teorici del capitale umano, e infine nelle tecniche economiche contemporanee di calcolo del valore statistico della vita umana.
Nell’era neoliberale, quanto più un soggetto è capace di specializzare le proprie competenze investendo su se stesso per aumentare il valore del proprio capitale umano – valore che dipende dalle pratiche sociali di valutazione –, tanto più la produttività del lavoro aumenterà pure in un contesto di risorse sempre più limitate. E più un soggetto è disposto a pagare per ridurre il proprio rischio di mortalità – perché ha un’alta stima economica della propria vita –, più il valore statistico della vita umana in una data società aumenterà, mettendo lo stato in condizione di prendere misure costose per salvare vite umane, come nel caso della crisi pandemica32.
Insomma, il soggetto del valore ha una lunga storia, ma è solo con la trasformazione neoliberale del capitalismo e delle nostre società che diviene il modello normativo della soggettività – Kultur-Über-Ich di freudiana memoria –, accelerando e trasformando l’uomo economico tradizionale. Scriveva Marcel Mauss nel suo Saggio sul dono pubblicato nel 1925: “l’homo oeconomicus non è dietro di noi, è davanti a noi; come l’uomo della morale e del dovere; come l’uomo della scienza e della ragione”33. E non si sbagliava.
Infine, l’Intelligenza artificiale. Matteo Pasquinelli ha da poco pubblicato un libro, The Eye of the Master34, in cui risitua l’Intelligenza artificiale in una prospettiva socio-storica di respiro molto ampio mostrando come essa non sia tanto un’imitazione dell’intelligenza biologica quanto delle pratiche umane sociali e storiche, come la divisione sociale del lavoro. Marxianamente, la macchina è meno tecnologicamente determinata che socialmente e politicamente organizzata, e opera da sempre succhiando lavoro vivo. Come ha mostrato Antonio Casilli in En attendant les robots35, l’Intelligenza artificiale è più artificiale che intelligente, nel senso che la sua esistenza richiede una quantità enorme e essenziale di lavoro umano.
E non si tratta del lavoro di ingegneri geniali o di startuppers eroici, ma di quello di un esercito di lavoratori anonimi sottopagati e iper-precari sparsi in tutto il mondo, e specialmente in paesi poveri e geopoliticamente deboli, il cui incessante “lavoro del clic” allena, adatta e verifica il funzionamento degli algoritmi. Perché ci sia automazione da qualche parte nel mondo, non può che esserci intensificazione dello sfruttamento del lavoro vivo altrove.
Anche qui, niente di nuovo sotto il cielo capitalista. Tuttavia, tutto ciò permette una trasformazione enorme del modello dell’impresa, che diviene così una piattaforma in cui il capitale costante si riduce, al limite, alla proprietà intellettuale dell’algoritmo, e che esternalizza la quasi totalità del capitale variabile abbattendo i costi di transazione – è l’impresa-piattaforma. Tale trasformazione della forma dell’impresa è nello stesso tempo una mutazione del management.
Da un lato, come già accennato, gli algoritmi integrano le tradizionali funzioni manageriali, dal monitoraggio e dalla misura delle prestazioni ai sistemi premianti e sanzionatori, assicurando la gestione delle prestazioni così come la standardizzazione, il coordinamento e la pianificazione del processo di lavoro.
Dall’altro, l’esternalizzazione del lavoro rilancia il problema del commitment, dell’impegno dei lavoratori indipendenti, precari e “uberizzati”, cioè l’antico problema della partecipazione attiva del soggetto al proprio sfruttamento, ora che il tradizionale rapporto di lavoro subordinato non esiste più.
La soluzione a questo problema è offerta dai sistemi algoritmici di valutazione delle performances che coinvolgono lavoratori e clienti delle piattaforme: si lavora per essere ben valutati, per avere un feedback a cinque stelle. Il lavoro diventa un gioco – vecchia storia, quella della gamification dei processi di lavoro – in cui il soggetto ha la possibilità di quantificare il proprio valore.
La novità è che il divenire piattaforma delle imprese comporta la costruzione di un ecosistema algoritmico di valutazione in cui gli individui hanno la possibilità di lavorare sulla propria autostima e tentare di rispondere alla domanda esistenziale che ossessiona il soggetto del valore: “ma io esattamente quanto valgo?”. Ora, questo stesso insieme di trasformazioni tecnologiche permette il contrattacco del lavoro cooperativo al capitalismo di piattaforma: si tratta del “cooperativismo di piattaforma” di cui parlavo prima.
Non solo le pratiche di valutazione possono essere sabotate usandole opportunisticamente contro i sistemi di valutazione stessi per mostrarne l’assurdità. Non solo le imprese-piattaforme possono essere attaccate giuridicamente per ottenere la riqualificazione dei rapporti di lavoro indipendente in rapporti di lavoro subordinato, danneggiandole economicamente.
Soprattutto, la macchina algoritmica può essere clonata per ricostruire le piattaforme secondo una logica cooperativa, non proprietaria e democratica36. Insomma, per farla breve, l’accelerazione e la mutazione dell’impresa capitalistica creano le condizioni per la costruzione di qualcosa come l’“impresa comune”37, capace di funzionare come matrice di una contro-soggettivazione rispetto al soggetto del valore: una di quelle istituzioni collettive di cui parlavo all’inizio e di cui avremmo bisogno. Ecco un altro punto che dovrebbe far parte di un’agenda politica di sinistra, oggi.
J. Rifkin, The End of Work: the Decline of the Global Labor Force and the Dawn of the Post-Market Era (1995), trad. di P. Canton, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Baldini & Castoldi, Milano 1995 ↩︎
R. Castel, Les métamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariat(1995), trad. a cura di A. Petrillo, C. Tarantino,Le metamorfosi della questione sociale. Una cronaca del salariato, Mimesis, Milano-Udine 2019 ↩︎
M. Nicoli, Le risorse umane, Ediesse, Roma 2015 ↩︎
R. Sennett, The Corrosion of Character: The Personal Consequences of Work in the New Capitalism (1998), trad. di M. Tavosanis, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 1999 ↩︎
B. Stiegler, La Société automatique. L’avenir du travail (2015), trad. di S. Baranzoni, I. Pelgreffi e P. Vignola, La società automatica, Meltemi, Milano 2019 ↩︎
M. Weber, Die Protenstantische Ethik und der Geist des Kapitalismus (1904-1905), trad. di A.M. Marietti, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR, Milano 1991 ↩︎
Per esempio, M. Nicoli, L. Paltrinieri, Il lavoro come produzione di sé. Per una genealogia del ‘contratto psicologico’, “Psiche. Rivista di cultura psicanalitica”, vol. 4, 2, 2017, pp. 571-588, oppure Id., “Qu’est-ce qu’une critique transformatrice? Contrat psychologique et normativité d’entreprise”, in Ch. Laval, L. Paltrinieri, F. Taylan (a cura di), Marx & Foucault, La Découverte, Paris 2015 ↩︎
Abbiamo provato a utilizzare questa categoria in un recente testo: M. Nicoli, L. Paltrinieri, “Managing the Will: Managerial Normativity from the Wage Society to the Platform Age”, in S. Mezzadra, N. Cuppini, M. Frapporti, M. Pirone (a cura di), Capitalism in the Platform Age, Springer Studies in Alternative Economics, Springer, Cham 2024 ↩︎
Michel Feher già metteva in relazione, in un importante testo del 2009, il discorso psicologico dell’autostima con la promozione neoliberale del capitale umano: M. Feher, S’apprécier, ou les aspirations du capital humain, “Raisons politiques”, 2007/04, 28, pp. 11-31 ↩︎
P. Dardot, Ch. Laval, Néolibéralisme et subjectivation capitaliste, “Cités” 2010/1, 41, pp. 35-50 ↩︎
Si tratta di A. Muni, I masochismi che rimuoviamo, “aut aut”, 379, 2018, pp. 90-118 ↩︎
S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur (1929), trad. di V.B. Sala, Il disagio nella civiltà, Feltrinelli, Milano 2021 ↩︎
A. Ehrenberg, La fatigue d’être soi. Dépression et société (1998), trad. di S. Arecco, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Fabbri, Milano 2014 ↩︎
S. Freud, Das ökonomische Problem des Masochismus (1924), trad. di R. Colorni, Il problema economico del masochismo, in Opere, Boringhieri, Torino 1978, vol. X ↩︎
Per esempio in M. Nicoli, L. Paltrinieri, M. Prévot-Carpentier, “Lavoro e piattaforme digitali. Tra sfruttamento e opportunità”, in E. Donaggio, J. Rose, M. Cairo (a cura di), Lavoro e libertà?, Mimesis, Milano-Udine 2023; M. Nicoli, L. Paltrinieri, Métamorphoses du discours managérial : de la ‘culture’ à l’esprit d’entreprise, “Travailler. Revue internationale de Psychopathologie et de Psychodynamique du Travail”, 43, 2020/1, pp. 79-101; Id., Platform Cooperativism: Some Notes on the Becoming ‘Common’ of the Firm, “South Atlantic Quarterly”, 118:4, October 2019; Id., “Platform cooperativism et dépassement de l’entreprise capitaliste. Une stratégie pour le commun ?”, in Ch. Laval, P. Sauvêtre, F. Taylan (a cura di), L’alternative du commun, Hermann, Paris 2019 ↩︎
Il concetto di “Platform Cooperativism” è stato coniato da Trebor Scholz in Uber-Worked and Underpaid. How Workers Are Disrupting the Digital Economy, Polity, Cambridge 2017 ↩︎
Si veda soprattutto J. Rancière, La nuit des prolétaires. Archive du rêve ouvrier, Fayard, Paris 1981 ↩︎
K. Marx, Zur Kritik des sozialdemokratischen Programms von Gotha (1891), trad. di I. Pasqualoni, Critica al programma di Gotha, Savelli, Roma 1975 ↩︎
F. Coin, Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita, Einaudi, Torino 2023 ↩︎
D. Graeber, Bullshit Jobs (2018), trad. di A. Cerutti, Bullshit jobs, Garzanti, Milano 2018 ↩︎
Si veda per esempio B. Hibou, La bureaucratisation du monde à l’ère néolibérale, La Découverte, Paris 2012 ; I. Bruno, Benchmarking. L’état sous pression statistique, Zones, Paris 2013 ↩︎
F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017 ↩︎
Mi permetto di rimandare ancora a un testo scritto con Luca Paltrinieri: M. Nicoli, L. Paltrinieri, “It’s still day one. Dall’imprenditore di sé alla start-up esistenziale”, aut aut, 376, 2017, pp. 79-108 ↩︎
K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Oekonomie. Dritter Band, Buch III (1894), trad. di M.L. Boggeri, Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro Terzo, Editori Riuniti, Roma 1994, p. 933. ↩︎
Si veda, per esempio, G. Newlands, Algorithmic Surveillance in the Gig Economy: The Organisation of Work through Lefebvrian Conceived Space, “Organization Studies”, 42(5), 2021; N. Cuppini, M. Frapporti, S. Mezzadra, M. Piron, Il capitalismo nel tempo delle piattaforme. Infrastrutture digitali, nuovi spazi e soggettività algoritmiche, “Rivista Italiana di Filosofia Politica”, 2, 2022; A. Rosenblat, L. Stark, Algorithmic Labor and Information Asymmetries: a Case Study of Uber’s Drivers, “International Journal of Communication”, (10) 2016 ↩︎
R. Miles, Human Relations or Human Resources?, “Harvard Business Review”, July-August 1965 ↩︎
E. Mayo, The Human Problems of an Industrial Civilization, Macmillan, New York 1933 ↩︎
Ch. Laval, L’homme économique. Essai sur les racines du néolibéralisme, Gallimard, Paris 2007 ↩︎
M. Mauss, Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques (1925), trad. di F. Zannino, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 2002 ↩︎
M. Pasquinelli, The Eye of the Master: A Social History of Artificial Intelligence, Verso, London 2023 ↩︎
A. Casilli, En attendant les robots. Enquête sur le travail du clic (2019), trad. di R. A. Ventura, Schiavi del clic: perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?, Feltrinelli, Milano 2020 ↩︎
Su questi temi mi permetto di rimandare ancora a M. Nicoli, L. Paltrinieri, M. Prévot-Carpentier, “Lavoro e piattaforme digitali. Tra sfruttamento e opportunità”, cit. ↩︎
P. Dardot, Ch. Laval, Commun. Essai sur la révolution au XXIe siècle (2014), trad. di A. Ciervo, L. Coccoli, F. Zappino, Del Comune, o della rivoluzione nel XXI secolo, DeriveApprodi, Roma 2015 ↩︎