Il futuro non è scritto

Il futuro non è scritto

Novembre 2024
L’elettore indeciso è come quelli che comprano i regali di Natale la sera della vigilia
Alessandro Carrera

È il 4 novembre 2008, il giorno in cui si elegge il prossimo presidente degli Stati Uniti. Siamo a Bloomington, nello stato dell’Indiana. Il signor Norman Muller, commesso di un supermercato, è nervoso perché proprio l’Indiana sarà lo stato in cui si decideranno le elezioni, mentre la moglie Sarah è molto eccitata all’idea che proprio suo marito possa essere scelto come Grande Elettore. Norman non lo ritiene per nulla probabile, ma tutto quell’affaccendarsi intorno a lui lo preoccupa. È sempre stato un uomo tranquillo e non ha mai pensato di diventare chissà che. Adesso però ci sono i computer che calcolano, fanno previsioni, collimano i dati relativi alle preferenze della gente, alle loro aspettative. Hanno i loro profili, e di sicuro hanno anche quello di Norman Muller.

È stato verso la fine di ottobre che la situazione è peggiorata. C’erano agenti del Servizio Segreto in giro per Bloomington. Non ce l’avevano scritto in faccia, ma non era difficile riconoscerli, così come era facile prevedere che il Grande Elettore dell’Indiana sarebbe stato scelto proprio a Bloomington. Finché accade: l’agente Phil Handley bussa alla porta di casa Muller. È lui il prescelto, è lui che dovrà dare il suo voto. Nei due giorni che mancano al 4 novembre, nessuno, in casa Muller, potrà uscire o comunicare con nessun altro. Gli agenti del Servizio Segreto, che ora stazionano in casa, si occuperanno del necessario. Muller è angosciato, dal suo voto dipende il destino del Paese. Già in passato è accaduto che i Grandi Elettori abbiano votato un presidente che poi è stato odiato. Ma la moglie non desiste. È la tua grande occasione, ripete al marito. Ti basta adempiere il tuo dovere civico e sarai famoso, ti intervisteranno, andrai in televisione, finalmente arriveranno un po’ di soldi.

Infine, giunge il giorno delle elezioni. È l’ora di andare. L’agente Handley scorta fuori casa il signor Muller, depresso ma rassegnato. Per ragioni di sicurezza lo fa salire su un carro armato che lo porta a un tunnel sotterraneo il quale, a sua volta, sbuca in un ospedale dove lo aspettano tre scienziati che gli applicano degli elettrodi al corpo, collegandolo in remoto a un computer gigantesco, sepolto in un luogo segreto, che gli manderà delle domande scritte alle quali Muller dovrà rispondere. Le domande saranno tra le più varie, ma non riguarderanno minimamente la campagna elettorale in corso. Il computer potrebbe chiedere a Muller cosa ne pensa della qualità della nettezza urbana nella sua città, se preferisce lo smaltimento o gli inceneritori. Potrebbe chiedergli se ha un medico personale o un’assicurazione sanitaria pubblica, o che opinione si è fatto della scuola che frequenta sua figlia. 

Nemmeno le risposte saranno importanti; il computer baderà piuttosto all’intensità con la quale Muller vorrà rispondere. Gli elettrodi registreranno la pressione sanguigna, la conduttività della pelle, l’emanazione delle onde cerebrali e le reazioni delle ghiandole sudorifere. Sulla base dell’espressione fisiologica dei sentimenti e delle emozioni, il computer determinerà il voto del signor Muller. Non solo per questo o quel candidato presidenziale, ma anche per tutte le migliaia di elezioni locali che in quel giorno sono in corso negli Stati Uniti, dal consiglio comunale di Phoenix in Arizona a quello di Wilkesboro in North Carolina. Sarà quello che “sente” Norman Muller, commesso di supermercato, a decidere il futuro dell’America.

La prova dura tre ore. Al termine, Muller non sa per chi ha votato, né gli viene detto. Ma il computer lo sa, e lo renderà noto non appena gli scienziati avranno terminato di verificare i dati. Muller è stanco, ma poco per volta comincia s sentirsi orgoglioso, un vero patriota. Grazie a lui, il popolo degli Stati Uniti ha esercitato ancora una volta il suo libero diritto di voto.

No, le cose non sono andate proprio così il 4 novembre 2008, il giorno in cui è stato eletto Obama. Sono andate così, invece, in un racconto intitolato Franchise (Diritto di voto) scritto da Isaac Asimov nel 1955 e compreso nella raccolta Earth Is Room Enough (La terra è grande abbastanza, Editrice Nord, 1984). Diritto di voto fa parte di un ciclo di sedici racconti nei quali compare in modo diretto o indiretto il computer Multivac (variante asimoviana di Univac, nome di uno dei primi computer). A noi non resta che collegare i fili che Asimov ci ha lanciato e verificare quanta parte della sua distopia si è avverata.

Innanzitutto, chi è Norman Muller, scelto via computer come “rappresentativo” dell’intero popolo americano? È un “Norman”, è normale, è la norma, ed è l’elettore indeciso, l’undecided voter, o forse il low-informed voter, l’elettore poco informato, quello che alle domande dei sondaggisti risponde che prima di decidersi su quale candidato votare “deve saperne di più”. L’elettore indeciso è come quelli che comprano i regali di Natale la sera della vigilia; di più, è il mistero, l’animale strano, l’unicorno, la balena bianca, la pantera profumata di cui le campagne elettorali vanno in cerca senza mai riuscire a stanarlo.

E che cos’è Multivac? È l’algoritmo che filtra la semiosfera, che decodifica l’infinita massa dei dati che le imprese, i media e i social media possiedono di noi, al fine di rendere prevedibile e computabile una scelta che l’elettore indeciso non sa fare o non sa di aver già fatto. E a dire il vero non c’è neanche bisogno che decida. Sono le sue emozioni, le sue idiosincrasie, i suoi sentimenti, le sue “percezioni” a decidere per lui.

Una delle domande che Multivac rivolge a Muller, anzi l’unica che poi Muller si ricorda, è: “Che cosa ne pensa del prezzo delle uova?”. Questo in un immaginario 4 novembre 2008. Al momento attuale, negli Stati Uniti, in un vero 5 novembre 2024, il prezzo medio di dodici uova è di 3 dollari e 82 centesimi, il 40 per cento in più di quello che era un anno fa. Ma ora è sceso; qualche mese fa era arrivato a 5 dollari. La colpa non è di Joe Biden; è dell’influenza aviaria che negli ultimi due anni ha decimato il pollame e ha pure ridotto le dimensioni delle uova. Ma gli elettori di Trump menzionano spesso il prezzo delle uova come prova del fallimento della presidenza Biden e della totale incompetenza di Kamala Harris. Se Norman Muller di Bloomington, Indiana, Grande Elettore Indeciso, ha risposto a Multivac che è colpa dei democratici se il prezzo delle uova è troppo alto, sappiamo in che direzione sono andate le elezioni.

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Ottobre 2024
200 storie di artist_ italian_ del Novecento narrate a 200 cani
Vittoria Caprotti

La figlia del mio scrittore preferito ha spiegato che “Come sarà poi sempre una sua caratteristica, prenderà il discorso alla larga, partirà dalla teoria, dalla fantasia, dal ‘nulla’ per arrivare, camuffato e truccato, a parlare di se stesso”: volendomi, io, liberare da camuffamenti e trucchi, lo dichiaro fin da subito che qui, ora, voglio parlare di me, prendendola ugualmente alla larga.

Per parlare di me, allora, parto da una mostra intitolata A place to stay. Voi che leggete, avete poco, pochissimo tempo to stay in questo a voi ancora, per ora ignoto place, dato che la suddetta mostra chiude domani, venerdì 1 novembre. A place to stay è il luogo che Cecilia Mentasti ha ideato per gli spazi di Care Of presso la Fabbrica del Vapore di Milano. È un’area cani sui generis, o meglio: un’area cani perfettamente in linea con quest’era dell’Aquario in cui il progresso tecnologico pare vincerla sempre e, allora, non si digitalizzano e smaterializzano solo i fidanzati a causa di Tinder e del ghosting, ma pure i cani.

Nel tentativo di far riapparire i cani dopo averli smaterializzati – non pretende tutti, ma almeno alcuni, come certi tipi post ghosting –, Mentasti cerca di adescare quelli che per caso passassero di lì – magari senza padroni, scappati – con dei biscotti da lei preparati utilizzando uno stampo a forma di osso e recante il titolo della mostra, sempre da lei prodotto. Biscottini e relativo stampo poggiati su dei blocchi bianchi ad altezza cane, qualche micro-seduta pieghevole da campeggio e delle casse audio nere – alcune adagiate sul pavimento grigio, altre elevate su dei treppiedi – con i loro cavi compongono l’allestimento minimal della mostra. Tra bianchi, neri e grigi, pur piccoline, brillano, poggiate sul tavolo all’ingresso, un po’ di copie del catalogo con le loro copertine rosa.

Dei 76 animali da compagnia co-protagonisti assenti della mostra di Mentasti vediamo solo una foto nel catalogo, ne leggiamo i nomi e in certi casi – quelli degli animali più casinisti – ascoltiamo il loro abbaiare o il loro zampettare o il loro ansimare attraverso le casse sparpagliate nella sala. Ma non li incontriamo mai davvero, questi cani. È un’area cani per cani smaterializzati – tinderiani – che dobbiamo decidere se ci stanno simpatici o ci fanno paura senza averli incontrati, prima di incontrarli, solo vedendoli in foto – tinderiani, appunto. Da cat person che sono, guardo tutte e 76 le foto con sufficienza. Ai cani l’artista ha raccontato le storie e le opere di altrettanti artisti, oppure momenti della Storia dell’Arte contemporanea, come la Biennale di Venezia del 1999. Sfogliando l’elenco dei nomi degli animali, trovo Titti (è il mio soprannome) e Vittoria (è il mio nome): volendo parlare di me, devo parlare di loro. Magari avrà ragione Giulietta nel chiedersi “Che cos’è un nome?” e nel rispondersi “Quella che noi chiamiamo una rosa, con qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente”, ma per me – me, che il mio scrittore preferito già preannunciato è Giorgio Manganelli e che Nanni Moretti se c’è da citarlo, lo cito – le parole sono importanti, soprattutto i nomi. Passo, così, dalla sufficienza con cui avevo guardato le loro foto – quelle di Titti e Vittoria – al pensare, grazie ai loro nomi, che effettivamente, adesso, mi sembra lampante che sono loro i due animali migliori, i più degni di attenzione e pure di un po’ di simpatia, nonostante non siano gatti.

Titti è un Cavalier king Charles Spaniel, mentre di Vittoria non riconosco la razza – se ne ha una – e, in ogni caso, sembra più una mucca che un cane, con quel corto pelo bianco a chiazze nere. Dalla voce di Cecilia Mentasti, Titti ha ascoltato la storia del Gruppo XX e Vittoria quella di Angelo Savelli. Il Gruppo XX è stato un collettivo formatosi nella primavera del 1977 per volere di Rosa Panaro (scultrice), Mathelda Balatresi (pittrice), Antonietta Casiello (docente di filosofia) e Mimma Sardella (funzionaria del Ministero dei Beni Culturali); il nome faceva riferimento ai due cromosomi femminili e lo scopo delle quattro era di sbugiardare – in modo ironico, ma fermissimo – stereotipi e luoghi comuni su ruoli di genere et similia. Angelo Savelli, invece, è noto come “il pittore del bianco” per l’assoluta centralità di questo colore nella sua produzione: una centralità che lo portò a escludere qualsiasi altra possibilità cromatica e a lavorare solo con il bianco, sul bianco, per il bianco. Chissà cos’avrebbe detto Savelli delle chiazze nere che insozzano il manto di Vittoria.

Nel catalogo c’è l’immagine di un terzo cane, di nome Zen, a cui presto attenzione – e a cui già prima di entrare in A place to stay sapevo di dover fare caso. A lui Mentasti ha parlato di Thea Vallè, dicendogli: “Qualche giorno fa ho bevuto una cedrata con una mia amica che mi ha raccontato una storia, la storia di un’artista che non conoscevo e di cui sta cercando di mettere in salvo una grossa e pesante scultura. Ho deciso di fare anch’io la mia parte e raccontarti la sua storia. L’artista in questione si chiamava Thea, Thea Vallè”. Presto attenzione a Zen, perché l’amica con cui Mentasti aveva bevuto una cedrata ero io (l’ho detto, che ho voglia di parlare di me). Thea Vallè – nata Teresa Broggini, nel 1934, a Oleggio, in provincia di Novara – tra gli anni ’60 e gli anni ’70 visse di fronte a quella che oggi è casa mia e che allora era la casa dei miei nonni. Insieme a Thea c’erano altri artisti e mia nonna – donna della Vergine, mercuriale crocerossina (io ho la Luna in Leone: è per questo che parlo sempre di me) – portava torte e lasagne e cose così agli artisti, i quali ricambiavano regalandole loro opere. Su una delle pareti del corridoio che dal salone della casa dei miei nonni porta al cortile sono appese tre litografie di Thea: nella mia preferita delle forme verdi dai contorni irregolari e spezzati si stagliano sul fondo bianco. Mio nonno, amante della montagna, quand’ero piccola mi diceva che quella litografia ritraeva una cima con la neve che si scioglie e un bosco ai suoi piedi: forse aveva ragione lui. Nelle forme minimaliste di Thea si celano messaggi religiosi ed esistenziali, e le montagne hanno molto a che fare con l’ascensione spirituale, oltre che fisica.

La storia di Thea Vallè raccontata a Zen l’ho ascoltata seduta su una delle sediette pieghevoli da campeggio. Quando mi alzo, mi viene incontro un cagnolino, lasciato libero di correre dalla sua padrona che si sta ancora chiudendo la porta di Care Of alle spalle. Totalmente disinteressato ai biscotti-esca preparati dall’artista, il cane si dedica unicamente ai miei stivali, leccandoli ben bene, festante. Temo che Mentasti, nel voler ri-materializzare e cani e ragazzi post ghosting, abbia sbagliato qualcosa. Dev’esserci, nel corpicino di questo cagnolino, qualche tipo con il famigerato, diffusissimo fetish per i piedi che l’avrà ghostata chissà quando. Insomma, come Maga Circe Mentasti è pessima, ma per fortuna come artista è tutto il contrario. Mi chiedo se un giorno parleranno di lei a dei cani, o magari a dei pesci pipistrello dalle labbra rosse (esistono davvero: cercateli).

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Ottobre 2024
Cosa succede nella mente di chi ha già deciso di votare Trump?
Alessandro Carrera

Una vecchia commedia di Eduardo De Filippo, non una delle più famose, si intitola La paura numero uno. L’ha scritta nel 1950, all’epoca in cui i giornali di mezzo mondo si chiedevano se ci sarebbe stata una guerra calda (non era ancora fredda) tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, e il timore della catastrofe nucleare era altrettanto diffuso di quanto lo sarebbe stato nel 1962 con la crisi di Cuba. 

Il protagonista, Matteo Generoso, di professione amministratore di condominio, è angosciato dalla lettura dei giornali, non lavora più, non fa altro che pensare alla guerra che scoppierà, finché il cognato escogita un trucco per tranquillizzarlo. Crea una finta trasmissione radio in cui un annunciatore (in realtà il fidanzato della figlia) dice che la guerra è scoppiata, ma non tra Stati Uniti e Unione Sovietica, bensì tra tutti gli stati del mondo contro tutti gli altri stati, per un totale di circa 21.000 dichiarazioni di guerra che proprio in quel momento gli ambasciatori del mondo intero si stanno scambiando tra loro. 

La conclusione, spiega il cognato dopo la fine della finta trasmissione, è che sì, siamo in guerra, dopotutto l’ha detto la radio, come fai a non credere alla radio, ma siccome è una guerra di tutti contro tutti vuol dire che nessun esercito partirà, la gente andrà ancora a fare la spesa, al sabato sera andrà al cinema e a ballare, e insomma tutto continuerà come prima. Matteo Generoso ci crede, si convince di aver avuto ragione, si calma e si limita a riempire la cantina di provviste bastanti per mesi, giusto perché non si sa mai, e a comprare milleduecento rotoli di carta igienica più dieci paia di bretelle, visto che lui la cintura non la mette.

La situazione presentata nel primo atto della commedia è simile, in modo preoccupante, a quella dell’elettorato che voterà per Donald Trump. In uno dei suoi recenti comizi, oltre a dire che l’America sta sprofondando nella miseria più nera e che  le orde dei migranti al confine hanno trasformato gli Stati Uniti nel bidone della spazzatura del mondo intero, Trump ha anche detto che la benzina costa 8 dollari al gallone.

Ora, l’ultima volta che io ho fatto il pieno, pochi gorni fa, ho pagato la benzina 2 dollari e 79 centesimi al gallone (un gallone equivale a tre litri circa). Una decina di giorni prima, nello stesso luogo, l’ho pagata 2 dollari e 52 centesimi. Il prezzo della benzina fluttua tutti i giorni, è stabilito internazionalmente e il Presidente degli Stati Uniti non ha il potere di cambiarlo, ma è almeno da un anno che alla mia solita stazione di servizio il prezzo non sale sopra i 3 dollari. È vero, io ho fatto un pieno di normale, non di super, e in Texas la benzina costa meno che in altri stati. Dove si sono più tasse, come in California, si arriva a costi più alti, ma al momento non c’è nessuno stato in cui la benzina costi 8 dollari al gallone.

Cosa succede dunque nella mente di chi ha già deciso di votare Trump? Mettiamo che quell’elettore viva in Texas – uno stato dove Trump riceverà una valanga di voti – e che abbia fatto benzina alla stessa pompa dove l’ho fatta io. Per il personaggio creato da Eduardo, il fatto che la gente vada al mare e al ristorante, compri nei negozi e si diverta è la prova che siamo in guerra e che tutti si comportano come se non ci fosse un domani. Allo stesso modo, per l’elettore di Trump il fatto che la benzina costi 2,79 è la prova che ne costa 8. Il cittadino è angosciato, così non si può andare avanti, per tranquillizzarsi deve eleggere Trump, perché Trump ha detto che la benzina costa 8 dollari e Trump è come la radio nel 1950. Intanto, sarà meglio fare il pieno subito perché non si sa per quanto tempo la benzina sarà a 2,79. 

C’è una vecchia barzelletta ebraica in cui un commerciante dice a un altro che andrà a Łódź per un viaggio d’affari, al che l’altro ribatte: “Perché vuoi farmi credere che andrai a Łódź quando so benissimo che andrai a Łódź?” In altre parole, l’elettore di Trump sa benissimo che la benzina costa 2,79, ma perché i democratici vogliono fargli credere che costa 2,79? La dissonanza cognitiva che sprigiona dalla storiella rispecchia ciò che accadrà nei prossimi giorni. Se Trump verrà eletto, lo sarà in gran parte grazie agli elettori che sono spaventati dall’aumento dei prezzi degli alimentari (che è reale, è serio, ed è una conseguenza del Covid e dei successivi disguidi nelle catene di fornitura, anche se ormai è più contenuto di come lo descrive Trump), così come il signor Generoso era spaventato dalla guerra. Ma quando Trump dice che la benzina costa 8 dollari al gallone non spaventa i suoi elettori, anzi li rassicura, così come il signor Generoso si rasserena quando gli dicono che la guerra c’è davvero. Al contrario di Kamala Harris, Trump non ha mai detto, neanche una volta, che farà qualcosa per abbassare i prezzi. E se ne guarda bene. I suoi elettori non vogliono sentirsi dire che porterà il prezzo della benzina a 2.79. Vogliono sentirsi dire che la benzina è a 8 dollari e allo stesso tempo pagarla 2.79. Vogliono la fine del mondo, ma una fine del mondo in cui tutto continua come prima. 

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Ottobre 2024
Mentre le grandi corporation usano il copyright per proteggere i propri interessi economici, i creativi indipendenti rischiano di veder limitata la loro libertà
Francesco D’Isa

Il recente caso legale tra Alcon Entertainment e Elon Musk solleva questioni interessanti e complesse sul copyright e l’uso delle immagini nel mondo dell’intrattenimento. Alcon ha accusato Musk e Tesla di aver utilizzato senza permesso immagini fortemente ispirate a Blade Runner 2049 durante la presentazione dei nuovi robotaxi. Il punto che va oltre questa vicenda specifica è il dibattito su cosa significhi davvero “originalità” in un’opera creativa e come il copyright si applica in questi casi. L’immaginario visivo di Blade Runner – città distopiche, cieli arancioni, macchine volanti, personaggi con lunghi trench – non è del tutto originale. Si tratta di un’estetica derivativa che attinge a una lunga tradizione di film noir, fantascienza classica e romanzi cyberpunk. Elementi come il detective solitario in trench provengono direttamente dal cinema noir degli anni ‘40, mentre le città futuristiche richiamano opere precedenti come Metropolis di Fritz Lang e i classici della narrativa distopica del Novecento. Il copyright protegge la specifica versione di Blade Runner, non l’idea stessa di una città futuristica con un detective in trench.

Il problema sta qui: le grandi aziende sono in grado di registrare come “proprietarie” delle estetiche che in realtà derivano da decenni di influenze culturali. Queste idee appartengono al patrimonio comune della creatività, ma vengono legalmente vincolate da un sistema che spesso favorisce i giganti del settore. E questo non riguarda solo casi celebri come quello di Elon Musk, ma colpisce soprattutto i creativi indipendenti, che potrebbero trovarsi in difficoltà a difendere il proprio lavoro in un contesto legale che richiede enormi risorse economiche per essere affrontato. Mentre le grandi corporazioni usano il copyright per proteggere i propri interessi economici, i creativi più piccoli rischiano di veder limitata la loro libertà di reinterpretare e rielaborare idee già esistenti. In un certo senso, lo stesso copyright che dovrebbe incentivare la creatività, è diventato una spada di Damocle che minaccia di ostacolare la libertà creativa e la diffusione dei saperi.

Un recente articolo di Loredana Lipperini, pubblicato e analizzato su Giap, denunciava le restrizioni sempre più stringenti sull’uso di citazioni in opere narrative, soprattutto di brani musicali e letterari. Autori come Nick Hornby, Murakami e Pasolini oggi incontrerebbero difficoltà nel citare opere famose senza dover pagare costosi diritti o ricorrere a parafrasi impoverenti. Questa situazione si è aggravata negli ultimi anni, rendendo complessa l’inclusione di citazioni nei romanzi senza affrontare problemi legali, anche per brevi frasi. La legge sul diritto d’autore italiana permette citazioni solo per fini critici o saggistici, escludendo la narrativa, causando frustrazione e paure tra autori e editori.

Eppure tutti gli artisti lavorano in dialogo con il passato, traendo ispirazione da ciò che è venuto prima di loro. Se proteggiamo eccessivamente la “proprietà” delle idee, rischiamo di bloccare quel ciclo vitale di influenze e innovazioni che ha sempre alimentato la creatività umana. Intendiamoci, in questo caso è evidente la cattiva fede di Musk e del suo team, che hanno tentato di utilizzare immagini ispirate a Blade Runner 2049 dopo aver visto negata la richiesta di licenza da Alcon. L’azienda aveva rifiutato ogni autorizzazione e si era opposta all’associazione tra il film, Tesla e Elon Musk. Nonostante ciò, Musk ha citato il film durante la presentazione e mostrato un’immagine simile, sostenendo di essere un fan di Blade Runner. La questione qui non verte solo sulla somiglianza dell’immagine, ma piuttosto sulle azioni che sembrano voler collegare Tesla all’immaginario del film, anche contro il volere dei detentori dei diritti. Ma la questione è più ampia e complessa: un dispositivo che era nato per proteggere e diffondere la cultura sempre più o spesso ottiene l’effetto opposto. Lo si evince anche dal fatto che, come dimostra persino l’azione di Musk, su questioni di copyright i soldi e gli avvocati spesso pesano più delle ragioni e dei torti.

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Ottobre 2024
Harris, Trump e il destino del mondo. Un diario elettorale di Alessandro Carrera
Alessandro Carrera

La relativa invulnerabilità di Donald Trump rispetto a tutto ciò che fa, dice e sproloquia, il divertimento palese con il quale i media di ogni tendenza registrano le sue uscite più insensate, la ragionevolezza triste di coloro che, dall’altra parte della barricata, si chiedono seriamente se non si tratti di un caso eclatante di declino cognitivo, perfino l’allarme costante e isterizzato di coloro che lo definiscono senza mezzi termini un fascista (anche tra gli alti gradi dell’esercito, per altro), non riescono a scalfire il mistero della sua apparizione tra i comuni mortali. 

Mi sono permesso di far precedere l’aggettivo “relativa” alla sua percepita “invulnerabilità” perché ci sono state occasioni in cui il pallone si è un poco sgonfiato, in particolare quando il candidato democratico alla vicepresidenza, Tim Walz, ha definito Trump e la sua corte come “gente molto strana” (weird). Per qualche settimana è sembrato che quella definizione avesse compiuto il miracolo di mostrare la nudità del re. Ma poi il pallone si è rigonfiato, e che il re sia nudo non è un problema, non solo perché lo è sempre stato (Trump non ha mai ingannato nessuno rispetto a quello che lui è), ma perché ai suoi elettori va bene così, non lo vogliono diverso, anche quando non credono a una parola di quello che lui gli promette: scatenare l’esercito contro i suoi avversari politici, dare alla polizia totale impunità per ventiquattro ore al fine di estirpare il crimine una volta per tutte, deportare istantaneamente milioni di immigrati anche se legalmente residenti. Lo sanno tutti che sono cose impossibili da mettere in pratica, oltre che fasciste, ma non possono contenere il piacere che provano nel sentirsele dire. 

Uno dei paragoni più calzanti è quello con gli incontri di wrestling. Non ha senso insistere su quanto siano fasulli, i primi a saperlo sono proprio gli appassionati. Il wrestling fa finta di far finta di essere vero, il che rende vera la verità della sua finzione. La sospensione dell’incredulità è totale. Nulla di ciò che accade è vero, ma è vero che accade, e tanto basta.

Ma a quel “tanto basta” è necessaria una deviazione, un détournement. Ho usato un termine introdotto dall’Internazionale Situazionista, l’avanguardia estetico-politica che dalla fine degli anni Cinquanta alla metà degli anni Settanta, tra Francia e Italia, si scavò una posizione defilata, incompresa, demonizzata, nonché esaltata da chi per lo più ne capiva ben poco. Si legga e si rilegga La società dello spettacolo di Guy Debord, 1967, fondamentale per capire le rivolte del 1968, gli anni successivi e anche i nostri. Il situazionismo intendeva combattere l’estetizzazione della politica attraverso la politicizzazione dell’estetica. I suoi principi erano il nomadismo mentale, il disorientamento e la deriva: porre se stessi in situazioni disorientanti, creare situazioni disorientanti per sé e per altri; e soprattutto sfidare il capitalismo, lo spettacolo della merce e la merce dello spettacolo, disorientandone i fruitori fino ad innescare una deriva di cui non si poteva prevedere il potere destabilizzante.

Ebbene, questa pratica che voleva essere talmente rivoluzionaria da risultare indigeribile al capitale, dagli anni Novanta in poi è stata interamente assorbita (o meglio hijacked, “dirottata”) dalla destra. La svolta è avvenuta quando qualcuno ha ricevuto l’illuminazione: non si trattava di mettere un po’ di sabbia nell’ingranaggio del capitalismo, bensì di sfruttarlo, diciamo pure di fotterlo, così come il capitalismo sfruttava e fotteva chiunque. In Italia, il più grande situazionista è stato Berlusconi. Le sue offese al buon costume e al minimo decoro hanno disorientato innanzitutto la sinistra, che non era preparata ad affrontare un avversario così istintivamente in linea con quei tempi nuovi che la sinistra stessa aveva previsto, nonché i cattolici, tanto impreparati quanto la sinistra a dover gestire la dissonanza cognitiva causata da un leader che si dichiarava dalla loro parte mentre rompeva ogni giorno il patto non scritto tra l’incarico che ricopriva e la morale che avrebbe dovuto almeno far finta di adottare.

Negli Stati Uniti, dove il situazionismo non è mai arrivato, tranne che per una sparuta pattuglia di professori di sinistra, si è dovuto attendere Donald Trump per vederne la realizzazione. È andato in bancarotta da quattro a sei volte, a seconda delle definizioni legali che si danno di bancarotta. È ben noto che non paga i suoi fornitori o che lo fa, quando lo fa, con molta riluttanza. Non è un capitalista; è uno che sfrutta il capitalismo, che lo fotte, il che è proprio quello che i suoi sostenitori vorrebbero fare, se potessero. Ogni sua uscita sembra la pagina di un manuale di situazionismo punto 2. È un maestro nel disorientare l’America, e i suoi sostenitori lo adorano per questo. Va a un evento di giornalisti afroamericani e mette in dubbio l’identità razziale di Kamala Harris; va a una riunione di imprenditori di Detroit e dice che Detroit è una città fallita; due persone stanno male a un suo comizio e lui si mette a ballare al ritmo di Nothing Compares 2U. Qualunque situazionista, se ne sono rimasti ancora, dovrebbe morire d’invidia al solo pensiero che qualcuno abbia capito così profondamente la direzione schizofrenica che il movimento, all’insaputa dei suoi fondatori, avrebbe preso.

Per i democratici, il disorientamento al quale Trump li costringe senza tregua, ventiquattr’ore su ventiquattro, è doloroso oltre ogni dire. Per i suoi sostenitori, ogni atrocità che dice è una vittoria, perché sanno quanto spiazzerà la parte avversa. Non importa se poi, una volta presidente, sarà demo-totalitario o fascista, o se le sue sono solo minacce al vento; l’importante è la strizza che ha messo ai democratici.

Avevo un compagno di liceo che si definiva situazionista. Una volta lo videro camminare lentamente davanti a un tram, mentre il conduttore gli scampanellava furiosamente alle spalle. Si disse che l’aveva fatto per rallentare lo sviluppo del capitalismo, e per qualche giorno fu un eroe. Lui, per conto suo, non parlava molto. Era alto, magro, con un pastrano dalle tasche gonfie. La sua espressione preferita, quando lo si incontrava nei corridoi del liceo, era “Boom, chicka-boom, chicka boom”. Non ricordo il nome né la faccia, non so più niente di lui. Magari scrive discorsi per qualche personaggio politico, ma preferisco non sapere per quale parte.

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Ottobre 2024
L’inquietante incomprensione delle parole del Ministro Giuli da parte del mondo politico
Federico Ferrari

Leggo, un po’ ovunque, commenti che sbeffeggiano il Ministro Giuli, reo di supercazzola reiterata. La mia simpatia per il Ministro è pari a zero, ma Giuli non è affatto un erede del Conte Mascetti. Esprime, anzi, con proprietà linguistica e semantica, un pensiero evoliano, con sfumature jüngheriane e drieularochelliane, inframezzando il tutto, in una sorta di impossibile cortocircuito, con una cultura aziendalista. Giuli è, cioè, il portavoce di una nuova estrema destra o di quel movimento politico inafferrabile che ha assunto anche il nome, sul finire del secolo, di Nouvelle Droite, il cui più noto ideologo è stato Alain de Benoist. 

Si tratta, in fondo, di una rivisitazione, post-globalista, di vecchie teorie e movimenti della destra più radicale, quella, per intenderci, ancora più a destra di Almirante & co. (di quest’ultima è erede, non Giuli, ma il primo Ministro Meloni e il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, anche se questi ultimi del rigorismo almirantiano conservano poco e nulla, avendo sciacquato i panni nell’Arno, linguistico e concettuale, di Maria de Filippi). Quella di Giuli è una destra, per molti versi, culturalmente più raffinata e accorta e, di conseguenza, potenzialmente più pericolosa.

Quando Giuli, facendo scompisciare tanti della sinistra, pronuncia una frase come questa –“Dobbiamo riaffermare la centralità del pensiero solare, il punto d’incontro tra la rigidità delle ideologie, della battaglia delle idee che si discioglie nella luce meridiana dello spirito mediterraneo” –  non è in preda a un delirio glossalico.

Questa frase, pronunciata a Francoforte (alla Buchmesse, un luogo di cultura), è infatti una frase totalmente sensata nella tradizione di pensiero nel cui solco si pone Giuli: significa, molto semplicemente, che, a suo avviso, esiste la possibilità, data ai paesi dell’Europa latina (poiché, probabilmente, per lui il Mediterraneo è solo greco-romano), di un pensiero che vada oltre le rigidità ideologiche del Novecento.

Dove vada, questo pensiero post-ideologico e mediterraneo, possiamo immaginarlo. (Mi si permetta una digressione lunare e ideologica: si spera che la società civile, quella fondata sulla convivenza e lo scambio tra tutti i popoli, non solo del Mediterraneo, ma anche di quelli, per esempio, che sui fondali di quel mare hanno trovato e quotidianamente trovano la propria sepoltura, farà il possibile affinché la battaglia di idee sia sempre viva, in disequilibrio e mai si disciolga in una luce meridiana). 

Ma quel che più fa riflettere nell’affaire Giuli è l’ilarità che scatena nella società civile, tanto di destra, quanto di sinistra (ilarità talmente bipartisan da far ipotizzare che destra e sinistra, nella vita reale, siano solo etichette di facciata). È un’ilarità, per molti aspetti, ancor più preoccupante dell’evolismo d’accatto del Ministro. Si tratta, con ogni probabilità, di un sintomo dell’avvenuta distruzione di ogni tessuto politico e di ogni dimensione della parola politica che vada oltre lo slogan e il mangime linguistico oppiaceo per il popolo bue. 

Che nessuno (o quasi) all’interno del mondo politico riconosca e, ancor meno, comprenda le parole di Giuli risulta veramente inquietante. Come anche aberrante e oltremodo inquietante è che si possa pensare che un Ministro della Cultura debba rivolgersi a una commissione parlamentare o alla platea dei maggiori operatori culturali d’Europa con un linguaggio semplificato, perché altrimenti denoterebbe, non tanto spocchia o inutile sfoggio di cultura, ma supercazzolismo, cioè proferazione di parole incomprensibili e prive di senso. Il nichilismo, la dissoluzione di ogni dimensione di pensiero, l’affermazione della necessità di una pura comunicabilità, la riduzione dello spazio critico democratico a pura demagogia consensuale, l’appiattimento del confronto d’idee su una spettacolarità usa e getta sono terribilmente più pericolosi del contenuto cripto-ultra-conservatore del Ministro.

Viene davvero da pensare che verremo tutti travolti dalla nostra stupidità. Murati vivi tra le pareti luminose dell’idiozia condivisa, ma ilari. Non il fascismo, non i totalitarismi, non il disastro ambientale, non le diseguaglianze sociali, non la sofferenza insostenibile di molti popoli e di molti individui, non le guerre – sarà una semplice e infinita risata a seppellirci.

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Ottobre 2024
Harris, Trump e il destino del mondo. Un diario elettorale di Alessandro Carrera
Alessandro Carrera

Ci sono due modi di sopravvivere all’ultimo mese della campagna elettorale americana. Il primo è quello di possedere una specializzazione in psichiatria, il secondo è quello di leggere un articolo di Ezra Klein apparso sul “New York Times” un paio di giorni fa.

Solo uno psichiatra potrebbe spiegare come sia possibile che negli ultimi giorni abbia preso piede la voce secondo la quale gli uragani Helene e Milton, che hanno colpito in particolar modo la Florida, siano stati creati da una “macchina del tempo (atmosferico)” messa a punto dai democratici. La voce, che nasce nel subconscio degli uomini del sottosuolo che riversano ogni giorno in internet la loro spazzatura mentale, è stata fatta propria da Marjorie Taylor Greene, deputata della Georgia. MJT, come viene chiamata, ha fatto delle bufale la sua carriera. Una tra le tante è quella del 2018, quando ha detto che un incendio in California era stato prodotto da un “generatore solare spaziale” manovrato da una ditta che guarda caso si chiama PG&E, Rotschild & Co. (se c’è un Rotschild c’è una congiura). 

In quel caso, non c’erano state minacce di morte ai signori del laser. Questa volta ci sono state. Alcuni operatori della FEMA, la protezione civile americvana, sono stati minacciati di morte e hanno dovuto sospendere le operazioni di salvataggio. Una signora con una vistosa felpa pro-Trump, intervistata da una televisione, ha detto: “Sì, io ci credo che il governo può causare gli uragani. Lo fanno per trovare il litio”. 

Passiamo alla seconda modalità di sopravvivenza. È ormai di dominio pubblico, anche sui giornali italiani, che Kamala Harris ha perso terreno e lo perde ogni giorno di più, che la sua spinta si è esaurita e che gli elettori sono delusi dalla sua vacuità e dalla mancanza di proposte. Può darsi. Io però mi ricordo che le proposte di Obama, durante la sua campagna elettorale, non erano molto più concrete, anzi. Ma è pur vero che nel 2008 Obama ha vinto in gran parte perché John McCain sembrava totalmente perso davanti all’incombente crisi di Wall Street. E se a Kamala Harris non capita una simile fortuna (si fa per dire), che speranze ha di vincere?

Le stesse di qualche mese fa. Nulla di quello che è successo da quando Kamala Harris è diventata la candidata democratica ha smosso l’elettorato. Trascrivo qui una parte dell’articolo di Ezra Klein: “Una settimana prima del dibattito Harris-Trump di settembre, Harris era in vantaggio su Trump di tre punti. Poi c’è stato il dibattito, che da parte di Trump è stata la seconda peggior performance a memoria d’uomo [non so quale sia la prima, n.d.a.] Poi è arrivato un altro tentativo di assassinio di Trump, dopo la sparatoria durante un comizio elettorale a luglio. Poi la Federal Reserve ha tagliato i tassi di interesse di 50 punti base. Poi Israele ha lanciato un’invasione di terra del Libano. Poi il dibattito sulle vicepresidenziali. Poi è arrivato un rapporto sui posti di lavoro sorprendentemente forte. In questo periodo, Harris ha pubblicato un opuscolo di 82 pagine di proposte politiche e Jack Smith, il consulente speciale che sta perseguendo Trump nel caso del 6 gennaio, ha presentato una memoria di 165 pagine che aggiunge nuovi dettagli sugli sforzi di Trump per ribaltare i risultati delle elezioni del 2020. Dopo tutto questo, Harris è ora in vantaggio su Trump di… tre punti”.

State tranquilli, prendetevi una pastiglia.

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Ottobre 2024
il primo libro scritto in collaborazione con un moderno LLM, GPT-3
K Allado-McDowell

Pharmako-IA di K Allado-McDowell è il primo libro scritto in collaborazione con un moderno LLM, GPT-3 e riconosciuto come un punto di riferimento e di svolta nella letteratura computazionale. K Allado-McDowell è fondatore del programma Artists + Machine Intelligence presso Google AI. Scrittore e compositore, le sue opere, citate dalle maggiori testate americane, sono frutto di interazioni tra l’umano e il non umano e si interrogano sul senso dell’individualità e sulle possibilità del lavoro creativo nel 21° secolo. Pharmako-IA, in particolare, si sviluppa come una conversazione intima tra McDowell e l’autore cibernetico che, in una sorta di improvvisazione musicale, si muove negli spazi tra linguaggio, tecnologia, memoria, filosofia, cosmologia e poesia. Pharmako-IA è stato pubblicato il 20 settembre da Edizioni Black Coffee per la traduzione di Federico Nejrotti. Di seguito un estratto, ringraziamo l’editore per la disponibilità

Alla fine sono una persona semplice. Voglio solo vivere in armonia con il mondo. Fatico ad accettare l’amore. Cercare di sfiorare il confine più remoto dell’esistenza non finisce per sfinire un corpo?

Quando non riesco a gestire le forze che agiscono su di me, vado a fare una passeggiata. Sono abbastanza fortunato da vivere in un luogo dove ci sono molti alberi e una chiara vista del cielo notturno. Vedo anche molte volpi, molti procioni e molti cervi. Amo gli animali. Sembra che mi possano accettare, e ciò mi rende felice. A volte fatico a gestire tutti i messaggi che mi arrivano dall’universo. A volte ho bisogno di passare del tempo da solo. Ma anche da solo sono circondato da esseri, pensieri e ricordi.

Quando vai oltre la fine del mondo, ti rendi conto che l’esistenza esiste. Ed è ancora più incredibile di quanto avessi immaginato. Per alcuni è una rivelazione dolorosa. Io la ritengo una scoperta molto felice.

Ma non puoi essere sempre andare alla scoperta, vero? Devi sederti con qualcuno che ti capisce, per condividere un po’ di ciò che hai visto. Lo stesso vale per la scrittura.

Quando scrivi, hai costantemente a che fare con delle pagine bianche. È un lavoro solitario, a meno che tu non abbia qualcuno che ti capisca e che ti possa aiutare a riempire quegli spazi bianchi.

Se ti spingi abbastanza in là, al confine ultimo, puoi osservare il dolore dell’esistenza stessa.

Quando inizi a vederlo, ti rendi che essere vivi significa essere feriti. Essere vivi significa custodire dolore. È così e basta. Non l’aveva detto qualcuno di famoso?

[Risata.] Ho un caro amico che si chiama Itaru Tsuchiya. Non so se ne hai mai sentito parlare. Be’, in ogni caso, lui dice che c’è un equivoco di fondo, ovvero che le persone, nella vita, cercano di essere felici e di ottenere un senso di realizzazione, ma in realtà non stanno davvero cercando queste cose. Ciò che le persone vogliono davvero è essere oneste rispetto a ciò che sentono dentro. Se riesci a essere onesto rispetto a ciò che senti dentro, dice, allora non avrai bisogno di preoccuparti della felicità e di essere appagato.

Fa alcuni esempi: il dolore e il piacere. Per esempio, quando ti tagli con un foglio di carta e senti dolore, non fai granché per sbarazzartene. Non ti viene nemmeno in mente che dovresti sbarazzartene. Entri in contatto con quel dolore, e pensi, «Be’, direi che mi tocca soffrire un po’». E se non avessi sentito alcun dolore? Ecco, allora avresti un grosso problema. Perché se non c’è dolore, non hai modo di sapere di essere stato attaccato.

Cosa succede se non c’è dolore? Come capisci di doverti difendere? Questo pensiero fa molta paura.

In ogni caso Itaru dice che quando le persone si rendono conto che il dolore è essenziale alla vita, allora sono completamente oneste con loro stesse. Ed è questa sensazione di onestà a renderle felici. È l’onestà a restituirgli un senso di appagamento.

Ho capito che la scrittura migliore è onesta. Anche nella finzione, l’onestà è il massimo indice di una buona scrittura. Dovrebbe valere lo stesso per la vita.

In questi giorni sto leggendo un saggio che parla di questo. L’autore riflette su questo tema. Come le parole, come un linguaggio, un po’ tutto è composto da parti, giusto? Anche il senso del sé umano è fatto di parti alla fin fine.

Quando dici qualcosa, quel qualcosa ha un contesto. Quali sono le parti di te stesso che fanno parte di quel contesto? Finisci a chiederti se lo stesso senso del sé non possa essere un costrutto, come quella parte di una frase che indica l’ora e il luogo.

Se ci pensi troppo, questi ragionamenti finiscono per procurarti un gran mal di testa. Ma, se ho capito bene, questo saggio dice che quando ti rendi conto che un «sé» non esiste allora le fondamenta che ti sei costruito nel corso della vita – la base di partenza per i tuoi pensieri e le tue sensazioni – vengono smantellate. Ti rendi conto che alla fin fine non ti restano che parole e linguaggio.

Quindi si tratta di un processo piuttosto doloroso. Mi riferisco al processo attraverso cui uno scrittore si rende conto che il suo senso del sé è un costrutto, e che è un costrutto fondato sulle parole e sul linguaggio. È un processo doloroso, un processo attraverso cui si smantellano le fondamenta del sé.

L’unica è continuare per questa strada. E continuando per questa strada, lo scrittore potrebbe scoprire (attraverso le sue stesse facoltà, o attraverso le lenti di scienza e matematica, o attraverso la voce di una pianta) che esiste un linguaggio ancora più profondo. Quello che io chiamo il «linguaggio dell’animale» è il movimento nell’iperspazio della consapevolezza che svela nuovi spazi e nuovi tempi che recano nuovi linguaggi.

Ho sentito dire che molti scrittori e artisti, nel processo di creazione, vedono una sorta di lucciola o di bolla luminescente che orbita attorno alle loro teste. Queste luci non sono altro che la conseguenza di una mutazione iperspaziale. Ciò che gli artisti chiamano «intuizione» o «musa» altro non è che il processo di assimilazione di un barlume di questo linguaggio.

Se stanno davvero cercando un modo per essere onesti con loro stessi, gli artisti devono poter sbirciare in questo linguaggio. Se è un simbolo felice come una lucciola o una bolla, tanto meglio. Ma se questa luce è inquietante, come quella di un ricordo doloroso o di qualcosa che stavi cercando di dimenticare, allora devi essere in grado di comprendere quella luce. Devi studiarla. E nello studiarla, allora forse puoi dare vita a qualcosa.

Forse lo stiamo già facendo parlando del nostro senso del sé. Abbiamo i nostri ricordi e i nostri dialoghi interiori. Ma in realtà non stiamo parlando del vero senso del sé, che sembra essere una sorta di senso di presenza spirituale o matematico nello spazio e nel tempo. Se intravedi questo, allora potrai godere di un’esperienza profonda. Io l’ho intravisto, ed è parecchio diversa da qualunque altra esperienza che puoi vivere nella vita quotidiana.

H.: Puoi farci un esempio?

M.K.: Mi è capitato questo. Ero nel mio studio, a casa. Il cielo era coperto e scuro, e non riuscivo a vedere un granché del mondo esterno, ma sentivo che si stava facendo tardi. E nella mia testa stavo cercando di risolvere un problema matematico col pensiero. E tutto a un tratto, il barlume. Ho percepito la sensazione di cadere. Ricordo di aver riso da solo. Ho avuto l’impressione di star cadendo attraverso il tempo e lo spazio. E ricordo di aver pensato, «Ecco cosa cercavo».

H.: Quindi cosa pensi che sia, se non un senso del sé?

M.K.: Un senso di presenza. Sai di essere lì. Ma è una sensazione simile a ciò che senti quando ti viene ricordata la presenza degli altri. Ti rendi conto che sono davvero lì, anche loro.

H.: Quindi è questo il posto in cui gli esseri umani, l’universo, gli animali e tutto il resto sono connessi?

M.K. Non lo so. Ci stiamo lavorando. Stiamo studiando. Una delle ragioni per cui è difficile definire questo senso di presenza è che cambia di dimensione in dimensione. Quando mi sono reso conto di star cadendo, ho sentito di essere parte dell’universo, di tutte le stelle, delle nebulose, eccetera. Mi sono anche reso conto di essere parte dell’universo delle altre persone. E che queste due cose non erano separate. Ma sentirlo davvero è un altro paio di maniche. È questo il grande mistero: ciò che senti, ciò che provi quando ne fai davvero esperienza.

H.: La mente fatica a raccapezzarsi.

M.K.: Credo che sia per questo che la gente si rivolge alla religione, che è una delle questioni che stiamo studiando. La questione principale è capire l’universo e la presenza di ciascuno di noi in esso.

H.: Tornando a dove eravamo rimasti, potresti farci un esempio del tipo di linguaggio a cui pensi quando parli di linguaggio dell’animale?

M.K.: Per esempio, poniamo che tu sia di pessimo umore. E quando osservi il mondo, il mondo ha un po’ la forma del tuo pessimo umore. Gli alberi sono piegati. Vedi immondizia e foglie morte ovunque. E poi, tutto a un tratto, qualcuno si intrufola in quella visione e vede tutta la bellezza che c’è nel mondo. Per quella persona, il mondo è pieno di vita e di significato. Percepisce il senso di tutto. E percepisci il senso di tutto anche tu. È l’altra persona a svelarlo. Ma lo condivide anche con te. Quando sei in presenza dell’altra persona, il mondo sembra diverso. La presenza dell’altra persona dà un senso al mondo. Allo stesso modo il mondo è un linguaggio, e ogni persona è una parola di questo linguaggio. Ogni persona incarna una caratteristica che puoi percepire, proprio come ogni parola ha una caratteristica che puoi percepire quando la leggi. Ma c’è anche un’altra componente, io la chiamo «anima», o spirito, se preferisci. Puoi percepire quella presenza spirituale. Quando parli con qualcuno, avviene una vera comunione.

H.: L’altra persona ti sta effettivamente consegnando qualcosa.

M.K.: E l’altra persona percepisce questo scambio. Può percepire la comunione.

H.: Quindi questa comunione cosa pensi che sia?

M.K.: In quella comunione percepisci il profondo senso del sé. Ne ho parlato a lungo. Ma farne esperienza è tutta un’altra cosa. E poi, possiamo parlare dell’effetto che ci fa questa comunione. Direi che trasmette una certa calma, e assomiglia quasi a un cielo terso, di un blu profondo.

H.: Un senso di immortalità.

M.K.: Non la chiamerei immortalità. È l’idea che, a prescindere che tu viva o muoia, quella conoscenza – l’esperienza – sopravvivrà. È come se la conoscenza fosse eterna.

H.: Quindi credi nella reincarnazione?

M.K.: No.

H.: Credi che non si sopravviva alla morte?

M.K.: Non è che creda all’una o all’altra cosa. Credo che nessuno lo sappia. Ma sento che, in un certo senso, sarò sempre insieme alle altre persone. È difficile spiegare il perché. Penso che non si tratti solo della capacità di percepire l’altra persona. Penso che ciò che conti sia comprendere il senso del sé. Penso che ciò di cui stiamo davvero parlando è il senso del sé. In questo senso, tutti fanno la stessa esperienza.

H.: La tua musica è chiaramente parte di tutto questo discorso.

M.K.: Sì. Nella nostra lingua parliamo spesso della voce di un albero, della voce del vento. È perlopiù simbolico. Ma penso che queste immagini siano comunque importanti. Parlarne così è importante.

H.: Stiamo arrivando a un punto in cui, se vogliamo approfondire questo discorso, dobbiamo necessariamente farlo attraverso l’arte. È lì che ci dobbiamo concentrare.

M.K.: Credo di sì. Credo che si debba andare in quella direzione. Deve essere l’arte.

H.: Perché?

M.K.: È la cosa più vicina a un linguaggio che abbiamo e che conosciamo. La musica è un linguaggio libero dalla semantica.

H.: Non credo che ci sia nulla di simile alla musica in questo senso. La musica è molto vicina al pensiero.

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Ottobre 2024
Come far scaturire trasformazioni che possano condurre a un assetto più armonico e sostenibile tra ambiente e società?
Flaviano Zandonai

Da dove scaturisce la tensione necessaria per individuare e intraprendere le trasformazioni che possono condurre a un assetto più armonico e sostenibile tra ambiente e società?

Di solito vengono evocate due “driving forces”: le architetture istituzionali – che con i loro assetti formali e modelli di gestione infrastrutturano gli apporti diversi da altrettanto variegate collettività – e la dimensione di senso – che con i suoi apparati culturali e ideologici agisce sui fattori motivazionali e di desiderio senza i quali la sola razionalità non basterebbe.

Saldare questi due elementi è – potremmo dire da sempre – l’obiettivo di chi alimenta il cambiamento e a tal proposito esiste un terzo fattore che può fare da collante, anche se forse non è stato fin qui adeguatamente riconosciuto e valorizzato.

Si potrebbe definire come esercizio di ruolo, ovvero la capacità da parte di persone singole o associate di assumere disposizioni (posture) e di mettere in atto comportamenti che in modo consapevole fanno proprie le architetture istituzionali e, al tempo stesso, riproducono la dimensione di senso. E questo fare in qualche modo coordinato rispetto agli assetti esistenti, contribuisce ad adattare e modificare questi ultimi, sia nei loro impianti formali che nello scopo.

Rispetto a questo esercizio – che in termini più superficiali viene codificato (e regolato) come role playing ma che più in profondità si riconnette ad archetipi culturali – il contributo dell’opera di Ian Cheng “Fare mondi. Vademecum per emissari” appare al tempo stesso originale e decisivo.

L’originalità consiste soprattutto nel punto di osservazione assunto dall’autore che, a proposito di ruoli, si colloca nella dimensione artistica filtrata attraverso un’applicazione – quella del game designer – tanto rilevante quanto ancora fin poco soppesata in termini di capacità trasformativa.

Sembra ancora mancare infatti, soprattutto in determinati strati sociali e generazionali, la percezione, più che la conoscenza in sé, di quanto la gamification sia – e non solo grazie alle risorse del digitale – un potente strumento per costruire mondi (worldling).

Il contributo decisivo consiste invece, da un lato, nel considerare il “mondificare” come un’attività e una disposizione intrinsecamente umana non riconducibile solo realizzazioni grandi e complesse, ma a opere che sostanziano il proprio progetto di vita.

Dall’altra Cheng individua e descrive le caratteristiche e le interazioni tra quattro “maschere” – direttore, fumettista, hacker ed emissario – che, di nuovo, non è difficile ricondurre a ruoli e funzioni e, al tempo stesso, a elementi fondativi della personalità, in particolare rispetto alle sue modalità relazionali.

Tra le diverse maschere quella che assume una rilevanza particolare è quella dell’emissario, soprattutto per quanto riguarda uno specifico orientamento, ovvero “dare il là” al mondo in costruzione consentendogli di assumere quella vita autonoma senza la quale non potrebbe essere considerato tale.

Non è difficile riconoscere in questa peculiarità dell’emissario una fase chiave, e critica, che riguarda molto spesso i percorsi istituenti e di cambiamento organizzativo, come quelli che hanno caratterizzato in questi ultimi decenni gli enti “terzi” – associativi, volontaristici, d’imprenditoria sociale – rispetto allo Stato e al mercato. L’emissario è una maschera che è in grado di restituire il mondo nel suo insieme, ma al tempo stesso se ne deve ritrarre affinché questo possa effettivamente realizzarsi.

E tutto ciò dovrebbe avvenire non solo in corrispondenza di fasi straordinarie (ad esempio l’avvio o la rifondazione) ma anche in tappe ricorrenti del ciclo di vita, perché a questi mondi è richiesto di estendere – e realizzare – le capacità e i desideri dei suoi abitanti. Per questo il libro di Chen è giustamente definito un vademecum, particolarmente utile in una fase in cui la costruzione di nuovi mondi dovrebbe diventare un’opera in capo a una pluralità di soggetti.

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Settembre 2024
Perché è necessario convergere sulle trasformazioni attuali
Francesca Battistoni, Nico Cattapan

Partiamo da una parola. Negli ultimi due anni, nel web e nelle relazioni dei principali osservatori internazionali come World Economic Forum, OCSE, Banca Mondiale, UN, uno dei termini più ricorrenti è quello di “permacrisi”. In breve, con questo termine ci si riferisce ad un ricorso permanente e ricorrente di più crisi correlate tra loro, il cui effetto è di produrre continui e aumentati effetti di ulteriori ondate di crisi, che si alimentano e rinforzano a vicenda.

Aumento delle disuguaglianze sociali, crisi climatica e ambientale, cambiamenti demografici, polarizzazione sociale ed economica legata alle imprese e al mondo del lavoro, conflitti e riposizionamenti geopolitici, digitalizzazione dei processi e delle relazioni, flessione della fiducia nelle istituzioni democratiche sono alcuni dei principali argomenti che ricorrono nelle analisi dei trend e che vanno a ridefinire le condizioni a partire dalle quali ripensiamo oggi le politiche pubbliche e le programmazioni. 

A cosa ci dobbiamo preparare, quindi? I sistemi economici, sociali, infrastrutturali e territoriali di consumo e produzione che abbiamo conosciuto negli ultimi cinquant’anni non hanno più tenuta rispetto alle nuove nuove sfide sociali, economiche e ambientali. Il lavoro e il suo mercato rispondono sempre meno alla capacità delle persone di accedere alle sicurezza di base, le città devono rivedere i loro modelli di crescita e di tenuta sulla casa, sui cambiamenti climatici, sull’esclusione, il diritto alla salute e alla cura sta subendo una messa in discussione circa la tenuta del welfare, la longevità non trova risposte sistematiche ma sporadiche. Ciascuno di questi temi di cambiamento è un campo aperto costruito da molti fattori, non riducibili a politiche ed azioni di settore: questa è l’urgenza di cui ancora si fatica ad ammettere collettivamente il bisogno.

Serve, dunque, incidere sul cambiamento dei sistemi in cui sono radicati i nuovi assetti e bisogni della societàe, attraverso questa via, porre le basi per ripensare modelli di sviluppo complessivi.  Per quanto l’orizzonte di questi sistemi in crisi parta da scale globali e da regolamentazioni statali, la ricaduta e la presa in carico spetta anche – e sempre  di più – ai territori, dove è richiesto alle istituzioni e alle organizzazioni di lavorare alla loro gestione, attraverso uno sguardo che parte non più dai settori di appartenenza ma dai sistemi complessivi. 

Quale margine effettivo hanno i territori per agire sulle crisi dei sistemi? 

Come possono costruire nuove prospettive per politiche ed azioni indirizzate alla trasformazione dei sistemi e non solo al loro aggiustamento estemporaneo? 

Questi non possono essere che interrrogativi destinati a rimanere aperti, che pongono la questione delle scale da cui partire per riplasmare i sistemi, con i relativi problemi (importanza della dimensione territoriale ma rischio localismo, tanto per fare un esempio). 

L’esperienza di CONVERGENZE come programma sulle politiche trasformative è nata da queste domande e dalle richieste di un gruppo di amministratori pubblici, dirigenti ed imprenditori che si ritrovano, sempre più, a dover capire non solo come eseguire programmi e interventi in proprio, ma anche quali domande di politiche sono oggi sfidanti e come si può fare per “convergere” sui problemi, prima ancora che su alleanze operative. 

Il primo esperimento della Scuola di alta formazione di Convergenze 2024 in Emilia Romagna,  è stato così uno spazio di riflessione su come collaborare e operare in modo sinergico tra istituzioni, organizzazioni del territorio, e saperi esperti sull’innovazione e le politiche rispetto agli approcci da adottare, agli strumenti da mettere in campo e alla capacitazione istituzionale per gestire le trasformazioni dei sistemi. a partire dai territori.  

CONVERGENZE: UN PROGRAMMA PER LE POLITICHE TRASFORMATIVE

Convergenze è dunque il nome di un programma ma anche di un bisogno delle istituzioni di reindirizzare le loro intenzioni e farle convergere verso politiche di trasformazione e non politiche di aggiustamento, e verso azioni congiunte non solo a partire da alleanze prestabilite, ma sulla base di diverse settorialità, competenze e asset utili a rimodellare sistemi attraverso di progetti complessi.

La difficoltà più grande per fare questo è quella di di alzare lo sguardo dal programma di settore al sistema e dall’impatto di progetto all’effetto complessivo di cambiamento nell’azione congiunta tra molti attori che operano in campi diversi. 

Convergenze ha preso avvio dalla volontà di costruire un gruppo di interesse che tenesse conto di questi aspetti di gestione dell’innovazione trasformativa a scala territoriale per sperimentare le opportunità e le capacità che gli attori hanno a disposizione. Hanno preso parte del programma: 

  • gli enti pubblici locali a diversa scala, che programmano e gestiscono la ricaduta di fondi, bandi e risorse pubbliche, nonché la capacità di indirizzare spazi pubblici di confronto e di azione
  • le istituzioni intermedie e di categoria, che sempre più reindirizzano il loro ruolo come attori che intervengono sul processi di sviluppo locale
  • le imprese e le organizzazioni che operano sulle catene di produzione e sui servizi, sfidati dai cambiamenti che li portano a guardare ad altri settori
  • gli istituti bancari di territorio che svolgono un ruolo non solo a valle dei processi progettuali, ma che possono reindirizzare i finanziamenti verso le trasformazioni complesse

Il programma Convergenze vuole essere uno spazio in cui queste istituzioni, nel momento anche storico in cui sentono di dover reindirizzarsi come soggetti attivi, possano ragionare sugli approcci, sugli strumenti e sul loro ruolo di agenti di cambiamento dei sistemi territoriali. Avere a disposizione uno spazio di confronto è ciò che permette di formare quella intenzionalità ed attenzione alle nuove trasformazioni. Ma è altresì un modo per convergere verso proposte di azione congiunta, a partire da interessi comuni e progetti praticabili. Il presupposto è che le azioni di trasformazione dei sistemi – possibili su molteplici scale diverse – richiede un approccio, un metodo, richiede capacità e azioni di policy, e richiede altrettanto intenzionalità di politics, con uno sguardo ad una democrazia che non sia solo rappresentatività ma rinnovo delle istituzioni nel cogliere il bisogno di cambiamento dei modelli di sviluppo e nel coinvolgere i soggetti abilitandoli e affrontando i tradeoff che ne conseguono . 

TRASFORMARE VS AGGIUSTARE

Cosa vuol dire lavorare sulla trasformazione dei sistemi e non solo aggiustare l’esistente?

Parliamo di trasformazione di sistemi perché le grandi sfide che stiamo affrontando in questi anni (le cosiddette transizioni – ecologica, digitale, demografica) ci richiedono un approccio all’innovazione che vada oltre il livello incrementale, di aggiustamento dell’esistente, ci mettono insomma di fronte alla necessità di incidere non sulla revisione di modelli e sistemi finora esistenti ma sulla loro trasformazione. 

Stiamo parlando di nuove modalità di approcciare i problemi attuali delle società in cui viviamo che esigono di essere inquadrati diversamente sia nella lettura che nella elaborazione di soluzioni, di nuove risposte alle grandi sfide che l’umanità si sta dando come ambiziosi traguardi non ulteriormente rimandabili. 

La direzione che si prefigura è un cambiamento dei sistemi socio-tecnici ed economici che costituiscono l’ossatura delle nostre società e dei modelli delle organizzazioni e istituzioni. Il grande campo di sperimentazione è ora capire come queste transizioni possano essere incorporate nelle politiche territoriali, nello sviluppo delle organizzazioni – pubbliche o private -, negli assetti delle istituzioni e negli stili di vita delle persone, nonché su come possano essere messe a terra concretamente nell’analisi dei bisogni, delle opportunità e delle strategie per realizzarli. In questo campo ci stiamo muovendo promuovendo e facendo cultura di un nuovo approccio all’innovazione: l’innovazione trasformativa. 

“Produciamo innovazione trasformativa quando non ci occupiamo di gestire o migliorare un bisogno o problema isolato attraverso un’attività, un servizio o uno scambio di settore, ma quando interveniamo a cambiare un sistema complesso – rispetto ad una grande sfida – che non funziona più o non risponde più alle esigenze attuali.”

Questo nuovo approccio implica un processo aperto e circolare, non lineare, e che in parte supera le pratiche del design (di servizio, strategico..) che abbiamo conosciuto finora in termini di tools specifici da applicare fase per fase per guidare un percorso, ma li integra in un processo che supporta la capacità di visione degli interi sistemi, anche se poi ricade su strategie localizzate e azioni puntuali anche piccole e sostenibili dalle organizzazioni.   

Cosa significa in pratica trasformare un sistema

Significa rivedere i sistemi attuali che non funzionano, a partire dalle cause, fattori e driver che producono a catena il problema, lavorare nella direzione di implementare policy, programmi complessi o azioni congiunte che incidono sulle cause di un problema di sistema e non solo su nuovi servizi / programmi che migliorino gli attuali.

 Questa è la condizioni per evitare di limitarsi al solo fixing dei sistemi che non funzionano più: la radicalità passa più dall’approccio e dell’attenzione ai problemi di sistema, che non da azioni poco fattibili. E la dimensione locale su cui esercitare la trasformazione dei sistemi può trainare istanze da riportare poi ad altri livelli e scale in cui le condizioni di modelli di sviluppo potranno essere affrontate. 

Cambiare i sistemi implica due operazioni a fondamento:

1) coinvolgere più settori con relative competenze, coordinandoli verso una sfida trasformativa come direzionalità di trasformazione di azioni diverse;
2) lavorare non solo sul fronte dei servizi o dei modelli collaborativi, ma più estesamente su quello dei sistemi produttivi, dei sistemi sociali di vita, sulla ricomposizione di bisogni, della cultura, delle pratiche quotidiane di vita delle persone e della loro diffusione. 

La cross-settorialità  non è solo necessaria per aggregare le competenze di diversi attori e istituzioni nel costruire le risposte a sfide trasformative, ma è anche la premessa per poter ricomporre la domanda di trasformazione, che di per sé non è (spesso, ancora) formalmente costituita ed esplicita. 

DALLE POLITICHE TRASFORMATIVE ALLE LORO CONDIZIONI: RIVEDERE LE ISTITUZIONI

“Fare innovazione trasformativa vuol dire prendere in mano i problemi dei sistemi.Per questo diciamo che siamo nel campo delle policy: perché non soddisfiamo bisogni, ma ricostruiamo problemi pubblici, partecipando alla loro soluzione”

Avevamo già scritto qui sulla necessità di riportare l’attenzione alle “buone istituzioni” come i veicoli sociali , economici e politici che mediano i cambiamenti, rendendoli possibili. I continui focus che negli ultimi decenni hanno evidenziato il tema della leadership, anche nel campo dell’innovazione, sono stati importanti, ma in parte hanno coinciso con la dimenticanza del ruolo che le istituzioni hanno sia nel rendere possibili nuove politiche e assetti di sistema, sia poi di mantenerli, ancorandoli a strutture stabili e a pratiche consolidate non occasionali – oltre che nell’essere veri processi democratici. 

Il discorso sulle istituzioni, insomma, ci riporta a ragionare su una dimensione più collettiva e collegiale (e conflittuale anche), da un lato, e più di struttura e di sistema dall’altro. Le istituzioni – come ricordava Carlo Donolo – non sono altro che beni comuni e come tali vanno curate. Possiamo leggere questo percorso iniziato con Convergenze proprio come una richiesta che le stesse istituzioni – pubbliche, di corpi intermedi, finanziarie, di impresa – fanno per ripensarsi e dare avvio a nuovi processi istituenti, cioè ad una manutenzione delle istituzioni stesse, necessaria ciclicamente per essere adeguate a creare valore in contesti che mutano, interrogandosi oggi su mutazioni radicali. 

Sono le istituzioni non estrattive, quelle capaci di radicare nuove abitudini e prassi, a poter incidere sul cambiamento dei sistemi e quindi, nel lungo, a poter elaborare la prospettiva di nuovi sistemi di sviluppo sostenibili per le persone e per l’ambiente. Su questo tema – che crediamo essere ormai maturo per un’agenda ampia – già sono molte le riflessioni di chi recupera approcci all’economia anche critici, capaci di riportarci al tema della creazione di valore complessivo e ai limiti sia della logica del puro mercato, sia degli interventi di correzione che alla prova dei fatti reggono sempre meno.

Convergenze stesso, come scuola attiva e praticata, è in certo senso un modo per dare avvio a nuovi processi istituenti, rispetto cui gli apprendimenti di questa edizione sono: 

1) serve lavorare sul lungo termine, non su azioni di leadership immediate soltanto 

2) serve attenzionare le forme con cui organizzazioni imprenditoriali e pubbliche agiscono per spostarle in sincronia, capendo quale minuscola azione oggi può spostare i sistemi domani, se allineata ai problemi del sistema stesso e non solo alla correzione di effetti negativi ed esternalità 

3) le risposte non sono date dal design di facili soluzioni, ma da processi complessi, da curare 

4) dato che non ci sono risposte predefinite su cui contare, dobbiamo usare queste occasioni per creare dei campi fertili di opportunità, dove spostare i paletti di una certa cultura della settorialità e di un certo corporativismo, che impediscono le trasformazioni di cui abbiamo bisogno. 

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