Luglio 2024

“Phobia”: antropologia del terrore

“Phobia” di Markus Öhrn e Karol Radziszewski – Prima nazionale in scena alla 52esima edizione della Biennale Teatro per l’ultima direzione firmata da Stefano Ricci e Gianni Forte 

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Terra di rifugio e di contesa, ma anche di massacro e di ricordo, la Polonia è quel luogo che nei secoli ha dato vita a un potente immaginario, soprattutto attraverso il racconto che i suoi artisti ne hanno fornito dalla straziante prospettiva della distanza, quella dell’esilio. Polonia è la nera Vistola, simbolo di continuità e resistenza dell’intero Paese, che anche durante i periodi di feroce occupazione e spartizione, ha continuato a rappresentare l’elemento naturale che univa la nazione divisa. Polonia è il verde acido dei fondali dell’abisso mentale raccontato dal cinema di Krzysztof Kieślowski o le tombe ebraiche del cimitero di Varsavia, una foresta di lapidi senza unità. 

Su tutte le immagini che questo luogo può restituirci, quella più comune – cruenta e sentimentale allo stesso tempo – è data dal cuore di Chopin, che secondo la leggenda è conservato nella chiesa della Santa Croce di Varsavia. Un cuore smembrato dal corpo – sepolto nel cimitero di Père Lachaise – che, in solitudine, compie un viaggio verso la terra natìa.  

È una storia di smembramenti – e di Polonia – quella portata in scena, in prima nazionale alla 52esima edizione del Festival Internazionale del Teatro  di Venezia, da Markus Öhrn con lo spettacolo “Phobia”, un’opera che propone – con ironia e violenza dirompenti – una narrazione non eteronormativa della Polonia. 

I Fag Fighters sono un commando omosessuale che passa il proprio tempo a irrompere nelle case di ignari – e perlopiù inoffensivi – cittadini per sottoporli a una interrogazione di storia dai modi piuttosto brutali. Il tema è sempre lo stesso: mostrare loro dei ritratti di artisti polacchi omosessuali e chiedere informazioni al riguardo. Il prezzo da pagare per l’impreparazione sull’argomento scelto è altissimo: violenza verbale e fisica che si traduce quasi immediatamente in stupri con gli oggetti che si trovano in scena. 

In quella che è una evidente critica della società odierna, i drammaturghi Öhrn e Radziszewski esaminano la questione della violenza e degli stereotipi stigmatizzanti che circondano le persone LGBTQ+, affidando ai Fag Fighters il linguaggio dell’odio per uso puramente personale.  L’effetto è dissacrante e cartoonesco: centotrenta minuti di spettacolo ripartiti in tre quadri narrativi in cui i giustizieri dal passamontagna rosa si confrontano con tre precisi ambiti della società. Famiglia, affari, cultura. 

Se i cani già non camminavano più da quando borghesi signore li avevano imbullonati nelle proprie borse Louis Vuitton per un mero sollazzo estetico, nella società rappresentata in “Phobia” il cane senza zampe diventa addirittura il supremo oggetto del desiderio di bambine compassionaveli oltre ogni immaginazione, come si vede nel primo spettacolo, in cui protagonista è una famiglia etero ma dai “valori arcobaleno”. Ancora più feroce e grottesco è il confronto dei Fag Fighters con il mondo del business, in cui sedicenti creativi del marketing si presentano come figure mollicce e incapaci di produrre un pensiero realmente critico e originale, ma piuttosto ripetono a vanvera slogan che rimandano al tanto famigerato pinkwashing, un sostegno al mondo queer  dettato unicamente da logiche consumistiche. 

La domanda che conduce i guerriglieri di casa in casa è dunque: cos’è davvero l’omofobia? Solo violenza esplicita o qualcosa di più profondo e nascosto che si annida in scenari di integrazione scritti da individui eternormativi? 

In un momento storico in cui le destre polacche percepiscono la comunità omosessuale come una minaccia letale per l’ordine sociale, il regista rilancia con l’odio esacerbando i fanatismi woke e traducendoli in violenza purissima. 

Lo spettacolo raggiunge le sue vette nell’ultima parte, in cui i protagonisti si ritrovano a casa di un artista. Furbescamente e con gran sapienza, Öhrn crea una macedonia di parti anatomiche umane dentro un bagno di sangue senza fine che può prestarsi a molteplici interpretazioni, a seconda della prospettiva dalla quale si guarda lo smembramento dell’artista: esplorazione provocatoria dell’identità, della sessualità, della condizione umana e non è un caso, forse, che la scena si chiuda proprio con il ritratto dello scrittore Witold Gombrowicz e un amaro congedo dalla Polonia (“Bye Bye Poland” scritto con il sangue). 

Figura centrale nella letteratura polacca del ventesimo secolo, Gombrowicz ha incarnato il tema dell’ambivalenza sessuale, raccontando nelle sue opere l’immaturità e la conformità sociale del suo tempo attraverso episodi spesso surreali proprio come il finale di “Phobia”, che sembra omaggiare quelle atmosfere. Come in tutte le sue precedenti opere, Markus Öhrn si distingue per il suo approccio audace e provocatorio a temi sociali complessi. In “Conte d’Amour”, ad esempio, aveva esplorato il tema dell’ossessione amorosa e del controllo, mentre in “We Love Africa and Africa Love Us” si era misurato con gli aspetti del neocolonialismo e con la superficialità di certo multiculturalismo occidentale o ancora in “Häusliche Gewalt” aveva messo in scena il tema della violenza domestica. L’artista svedese utilizza una combinazione di performance, video e scenografia visivamente impattante per sfidare le convenzioni e spingere gli spettatori a confrontarsi con le proprie ipocrisie e i pregiudizi più arcani. “In Phobia io e Karol Radziszewski puntiamo a rivelare il vero volto della società liberale” afferma Öhrn. 

Un’operazione che riesce molto bene, dal momento che porta il pubblico a ridere, seppur tra lo sgomento e gli ricorda una riflessione semplice e antica: l’essere umano – non essendo un prodotto di consumo – continuerà a rimanere sempre materia pericolosissima e sfuggente a qualsiasi logica di mercato, clericale o politica.