La relativa invulnerabilità di Donald Trump rispetto a tutto ciò che fa, dice e sproloquia, il divertimento palese con il quale i media di ogni tendenza registrano le sue uscite più insensate, la ragionevolezza triste di coloro che, dall’altra parte della barricata, si chiedono seriamente se non si tratti di un caso eclatante di declino cognitivo, perfino l’allarme costante e isterizzato di coloro che lo definiscono senza mezzi termini un fascista (anche tra gli alti gradi dell’esercito, per altro), non riescono a scalfire il mistero della sua apparizione tra i comuni mortali.
Mi sono permesso di far precedere l’aggettivo “relativa” alla sua percepita “invulnerabilità” perché ci sono state occasioni in cui il pallone si è un poco sgonfiato, in particolare quando il candidato democratico alla vicepresidenza, Tim Walz, ha definito Trump e la sua corte come “gente molto strana” (weird). Per qualche settimana è sembrato che quella definizione avesse compiuto il miracolo di mostrare la nudità del re. Ma poi il pallone si è rigonfiato, e che il re sia nudo non è un problema, non solo perché lo è sempre stato (Trump non ha mai ingannato nessuno rispetto a quello che lui è), ma perché ai suoi elettori va bene così, non lo vogliono diverso, anche quando non credono a una parola di quello che lui gli promette: scatenare l’esercito contro i suoi avversari politici, dare alla polizia totale impunità per ventiquattro ore al fine di estirpare il crimine una volta per tutte, deportare istantaneamente milioni di immigrati anche se legalmente residenti. Lo sanno tutti che sono cose impossibili da mettere in pratica, oltre che fasciste, ma non possono contenere il piacere che provano nel sentirsele dire.
Uno dei paragoni più calzanti è quello con gli incontri di wrestling. Non ha senso insistere su quanto siano fasulli, i primi a saperlo sono proprio gli appassionati. Il wrestling fa finta di far finta di essere vero, il che rende vera la verità della sua finzione. La sospensione dell’incredulità è totale. Nulla di ciò che accade è vero, ma è vero che accade, e tanto basta.
Ma a quel “tanto basta” è necessaria una deviazione, un détournement. Ho usato un termine introdotto dall’Internazionale Situazionista, l’avanguardia estetico-politica che dalla fine degli anni Cinquanta alla metà degli anni Settanta, tra Francia e Italia, si scavò una posizione defilata, incompresa, demonizzata, nonché esaltata da chi per lo più ne capiva ben poco. Si legga e si rilegga La società dello spettacolo di Guy Debord, 1967, fondamentale per capire le rivolte del 1968, gli anni successivi e anche i nostri. Il situazionismo intendeva combattere l’estetizzazione della politica attraverso la politicizzazione dell’estetica. I suoi principi erano il nomadismo mentale, il disorientamento e la deriva: porre se stessi in situazioni disorientanti, creare situazioni disorientanti per sé e per altri; e soprattutto sfidare il capitalismo, lo spettacolo della merce e la merce dello spettacolo, disorientandone i fruitori fino ad innescare una deriva di cui non si poteva prevedere il potere destabilizzante.
Ebbene, questa pratica che voleva essere talmente rivoluzionaria da risultare indigeribile al capitale, dagli anni Novanta in poi è stata interamente assorbita (o meglio hijacked, “dirottata”) dalla destra. La svolta è avvenuta quando qualcuno ha ricevuto l’illuminazione: non si trattava di mettere un po’ di sabbia nell’ingranaggio del capitalismo, bensì di sfruttarlo, diciamo pure di fotterlo, così come il capitalismo sfruttava e fotteva chiunque. In Italia, il più grande situazionista è stato Berlusconi. Le sue offese al buon costume e al minimo decoro hanno disorientato innanzitutto la sinistra, che non era preparata ad affrontare un avversario così istintivamente in linea con quei tempi nuovi che la sinistra stessa aveva previsto, nonché i cattolici, tanto impreparati quanto la sinistra a dover gestire la dissonanza cognitiva causata da un leader che si dichiarava dalla loro parte mentre rompeva ogni giorno il patto non scritto tra l’incarico che ricopriva e la morale che avrebbe dovuto almeno far finta di adottare.
Negli Stati Uniti, dove il situazionismo non è mai arrivato, tranne che per una sparuta pattuglia di professori di sinistra, si è dovuto attendere Donald Trump per vederne la realizzazione. È andato in bancarotta da quattro a sei volte, a seconda delle definizioni legali che si danno di bancarotta. È ben noto che non paga i suoi fornitori o che lo fa, quando lo fa, con molta riluttanza. Non è un capitalista; è uno che sfrutta il capitalismo, che lo fotte, il che è proprio quello che i suoi sostenitori vorrebbero fare, se potessero. Ogni sua uscita sembra la pagina di un manuale di situazionismo punto 2. È un maestro nel disorientare l’America, e i suoi sostenitori lo adorano per questo. Va a un evento di giornalisti afroamericani e mette in dubbio l’identità razziale di Kamala Harris; va a una riunione di imprenditori di Detroit e dice che Detroit è una città fallita; due persone stanno male a un suo comizio e lui si mette a ballare al ritmo di Nothing Compares 2U. Qualunque situazionista, se ne sono rimasti ancora, dovrebbe morire d’invidia al solo pensiero che qualcuno abbia capito così profondamente la direzione schizofrenica che il movimento, all’insaputa dei suoi fondatori, avrebbe preso.
Per i democratici, il disorientamento al quale Trump li costringe senza tregua, ventiquattr’ore su ventiquattro, è doloroso oltre ogni dire. Per i suoi sostenitori, ogni atrocità che dice è una vittoria, perché sanno quanto spiazzerà la parte avversa. Non importa se poi, una volta presidente, sarà demo-totalitario o fascista, o se le sue sono solo minacce al vento; l’importante è la strizza che ha messo ai democratici.
Avevo un compagno di liceo che si definiva situazionista. Una volta lo videro camminare lentamente davanti a un tram, mentre il conduttore gli scampanellava furiosamente alle spalle. Si disse che l’aveva fatto per rallentare lo sviluppo del capitalismo, e per qualche giorno fu un eroe. Lui, per conto suo, non parlava molto. Era alto, magro, con un pastrano dalle tasche gonfie. La sua espressione preferita, quando lo si incontrava nei corridoi del liceo, era “Boom, chicka-boom, chicka boom”. Non ricordo il nome né la faccia, non so più niente di lui. Magari scrive discorsi per qualche personaggio politico, ma preferisco non sapere per quale parte.