Pharmako-IA di K Allado-McDowell è il primo libro scritto in collaborazione con un moderno LLM, GPT-3 e riconosciuto come un punto di riferimento e di svolta nella letteratura computazionale. K Allado-McDowell è fondatore del programma Artists + Machine Intelligence presso Google AI. Scrittore e compositore, le sue opere, citate dalle maggiori testate americane, sono frutto di interazioni tra l’umano e il non umano e si interrogano sul senso dell’individualità e sulle possibilità del lavoro creativo nel 21° secolo. Pharmako-IA, in particolare, si sviluppa come una conversazione intima tra McDowell e l’autore cibernetico che, in una sorta di improvvisazione musicale, si muove negli spazi tra linguaggio, tecnologia, memoria, filosofia, cosmologia e poesia. Pharmako-IA è stato pubblicato il 20 settembre da Edizioni Black Coffee per la traduzione di Federico Nejrotti. Di seguito un estratto, ringraziamo l’editore per la disponibilità
Alla fine sono una persona semplice. Voglio solo vivere in armonia con il mondo. Fatico ad accettare l’amore. Cercare di sfiorare il confine più remoto dell’esistenza non finisce per sfinire un corpo?
Quando non riesco a gestire le forze che agiscono su di me, vado a fare una passeggiata. Sono abbastanza fortunato da vivere in un luogo dove ci sono molti alberi e una chiara vista del cielo notturno. Vedo anche molte volpi, molti procioni e molti cervi. Amo gli animali. Sembra che mi possano accettare, e ciò mi rende felice. A volte fatico a gestire tutti i messaggi che mi arrivano dall’universo. A volte ho bisogno di passare del tempo da solo. Ma anche da solo sono circondato da esseri, pensieri e ricordi.
Quando vai oltre la fine del mondo, ti rendi conto che l’esistenza esiste. Ed è ancora più incredibile di quanto avessi immaginato. Per alcuni è una rivelazione dolorosa. Io la ritengo una scoperta molto felice.
Ma non puoi essere sempre andare alla scoperta, vero? Devi sederti con qualcuno che ti capisce, per condividere un po’ di ciò che hai visto. Lo stesso vale per la scrittura.
Quando scrivi, hai costantemente a che fare con delle pagine bianche. È un lavoro solitario, a meno che tu non abbia qualcuno che ti capisca e che ti possa aiutare a riempire quegli spazi bianchi.
Se ti spingi abbastanza in là, al confine ultimo, puoi osservare il dolore dell’esistenza stessa.
Quando inizi a vederlo, ti rendi che essere vivi significa essere feriti. Essere vivi significa custodire dolore. È così e basta. Non l’aveva detto qualcuno di famoso?
[Risata.] Ho un caro amico che si chiama Itaru Tsuchiya. Non so se ne hai mai sentito parlare. Be’, in ogni caso, lui dice che c’è un equivoco di fondo, ovvero che le persone, nella vita, cercano di essere felici e di ottenere un senso di realizzazione, ma in realtà non stanno davvero cercando queste cose. Ciò che le persone vogliono davvero è essere oneste rispetto a ciò che sentono dentro. Se riesci a essere onesto rispetto a ciò che senti dentro, dice, allora non avrai bisogno di preoccuparti della felicità e di essere appagato.
Fa alcuni esempi: il dolore e il piacere. Per esempio, quando ti tagli con un foglio di carta e senti dolore, non fai granché per sbarazzartene. Non ti viene nemmeno in mente che dovresti sbarazzartene. Entri in contatto con quel dolore, e pensi, «Be’, direi che mi tocca soffrire un po’». E se non avessi sentito alcun dolore? Ecco, allora avresti un grosso problema. Perché se non c’è dolore, non hai modo di sapere di essere stato attaccato.
Cosa succede se non c’è dolore? Come capisci di doverti difendere? Questo pensiero fa molta paura.
In ogni caso Itaru dice che quando le persone si rendono conto che il dolore è essenziale alla vita, allora sono completamente oneste con loro stesse. Ed è questa sensazione di onestà a renderle felici. È l’onestà a restituirgli un senso di appagamento.
Ho capito che la scrittura migliore è onesta. Anche nella finzione, l’onestà è il massimo indice di una buona scrittura. Dovrebbe valere lo stesso per la vita.
In questi giorni sto leggendo un saggio che parla di questo. L’autore riflette su questo tema. Come le parole, come un linguaggio, un po’ tutto è composto da parti, giusto? Anche il senso del sé umano è fatto di parti alla fin fine.
Quando dici qualcosa, quel qualcosa ha un contesto. Quali sono le parti di te stesso che fanno parte di quel contesto? Finisci a chiederti se lo stesso senso del sé non possa essere un costrutto, come quella parte di una frase che indica l’ora e il luogo.
Se ci pensi troppo, questi ragionamenti finiscono per procurarti un gran mal di testa. Ma, se ho capito bene, questo saggio dice che quando ti rendi conto che un «sé» non esiste allora le fondamenta che ti sei costruito nel corso della vita – la base di partenza per i tuoi pensieri e le tue sensazioni – vengono smantellate. Ti rendi conto che alla fin fine non ti restano che parole e linguaggio.
Quindi si tratta di un processo piuttosto doloroso. Mi riferisco al processo attraverso cui uno scrittore si rende conto che il suo senso del sé è un costrutto, e che è un costrutto fondato sulle parole e sul linguaggio. È un processo doloroso, un processo attraverso cui si smantellano le fondamenta del sé.
L’unica è continuare per questa strada. E continuando per questa strada, lo scrittore potrebbe scoprire (attraverso le sue stesse facoltà, o attraverso le lenti di scienza e matematica, o attraverso la voce di una pianta) che esiste un linguaggio ancora più profondo. Quello che io chiamo il «linguaggio dell’animale» è il movimento nell’iperspazio della consapevolezza che svela nuovi spazi e nuovi tempi che recano nuovi linguaggi.
Ho sentito dire che molti scrittori e artisti, nel processo di creazione, vedono una sorta di lucciola o di bolla luminescente che orbita attorno alle loro teste. Queste luci non sono altro che la conseguenza di una mutazione iperspaziale. Ciò che gli artisti chiamano «intuizione» o «musa» altro non è che il processo di assimilazione di un barlume di questo linguaggio.
Se stanno davvero cercando un modo per essere onesti con loro stessi, gli artisti devono poter sbirciare in questo linguaggio. Se è un simbolo felice come una lucciola o una bolla, tanto meglio. Ma se questa luce è inquietante, come quella di un ricordo doloroso o di qualcosa che stavi cercando di dimenticare, allora devi essere in grado di comprendere quella luce. Devi studiarla. E nello studiarla, allora forse puoi dare vita a qualcosa.
Forse lo stiamo già facendo parlando del nostro senso del sé. Abbiamo i nostri ricordi e i nostri dialoghi interiori. Ma in realtà non stiamo parlando del vero senso del sé, che sembra essere una sorta di senso di presenza spirituale o matematico nello spazio e nel tempo. Se intravedi questo, allora potrai godere di un’esperienza profonda. Io l’ho intravisto, ed è parecchio diversa da qualunque altra esperienza che puoi vivere nella vita quotidiana.
H.: Puoi farci un esempio?
M.K.: Mi è capitato questo. Ero nel mio studio, a casa. Il cielo era coperto e scuro, e non riuscivo a vedere un granché del mondo esterno, ma sentivo che si stava facendo tardi. E nella mia testa stavo cercando di risolvere un problema matematico col pensiero. E tutto a un tratto, il barlume. Ho percepito la sensazione di cadere. Ricordo di aver riso da solo. Ho avuto l’impressione di star cadendo attraverso il tempo e lo spazio. E ricordo di aver pensato, «Ecco cosa cercavo».
H.: Quindi cosa pensi che sia, se non un senso del sé?
M.K.: Un senso di presenza. Sai di essere lì. Ma è una sensazione simile a ciò che senti quando ti viene ricordata la presenza degli altri. Ti rendi conto che sono davvero lì, anche loro.
H.: Quindi è questo il posto in cui gli esseri umani, l’universo, gli animali e tutto il resto sono connessi?
M.K. Non lo so. Ci stiamo lavorando. Stiamo studiando. Una delle ragioni per cui è difficile definire questo senso di presenza è che cambia di dimensione in dimensione. Quando mi sono reso conto di star cadendo, ho sentito di essere parte dell’universo, di tutte le stelle, delle nebulose, eccetera. Mi sono anche reso conto di essere parte dell’universo delle altre persone. E che queste due cose non erano separate. Ma sentirlo davvero è un altro paio di maniche. È questo il grande mistero: ciò che senti, ciò che provi quando ne fai davvero esperienza.
H.: La mente fatica a raccapezzarsi.
M.K.: Credo che sia per questo che la gente si rivolge alla religione, che è una delle questioni che stiamo studiando. La questione principale è capire l’universo e la presenza di ciascuno di noi in esso.
H.: Tornando a dove eravamo rimasti, potresti farci un esempio del tipo di linguaggio a cui pensi quando parli di linguaggio dell’animale?
M.K.: Per esempio, poniamo che tu sia di pessimo umore. E quando osservi il mondo, il mondo ha un po’ la forma del tuo pessimo umore. Gli alberi sono piegati. Vedi immondizia e foglie morte ovunque. E poi, tutto a un tratto, qualcuno si intrufola in quella visione e vede tutta la bellezza che c’è nel mondo. Per quella persona, il mondo è pieno di vita e di significato. Percepisce il senso di tutto. E percepisci il senso di tutto anche tu. È l’altra persona a svelarlo. Ma lo condivide anche con te. Quando sei in presenza dell’altra persona, il mondo sembra diverso. La presenza dell’altra persona dà un senso al mondo. Allo stesso modo il mondo è un linguaggio, e ogni persona è una parola di questo linguaggio. Ogni persona incarna una caratteristica che puoi percepire, proprio come ogni parola ha una caratteristica che puoi percepire quando la leggi. Ma c’è anche un’altra componente, io la chiamo «anima», o spirito, se preferisci. Puoi percepire quella presenza spirituale. Quando parli con qualcuno, avviene una vera comunione.
H.: L’altra persona ti sta effettivamente consegnando qualcosa.
M.K.: E l’altra persona percepisce questo scambio. Può percepire la comunione.
H.: Quindi questa comunione cosa pensi che sia?
M.K.: In quella comunione percepisci il profondo senso del sé. Ne ho parlato a lungo. Ma farne esperienza è tutta un’altra cosa. E poi, possiamo parlare dell’effetto che ci fa questa comunione. Direi che trasmette una certa calma, e assomiglia quasi a un cielo terso, di un blu profondo.
H.: Un senso di immortalità.
M.K.: Non la chiamerei immortalità. È l’idea che, a prescindere che tu viva o muoia, quella conoscenza – l’esperienza – sopravvivrà. È come se la conoscenza fosse eterna.
H.: Quindi credi nella reincarnazione?
M.K.: No.
H.: Credi che non si sopravviva alla morte?
M.K.: Non è che creda all’una o all’altra cosa. Credo che nessuno lo sappia. Ma sento che, in un certo senso, sarò sempre insieme alle altre persone. È difficile spiegare il perché. Penso che non si tratti solo della capacità di percepire l’altra persona. Penso che ciò che conti sia comprendere il senso del sé. Penso che ciò di cui stiamo davvero parlando è il senso del sé. In questo senso, tutti fanno la stessa esperienza.
H.: La tua musica è chiaramente parte di tutto questo discorso.
M.K.: Sì. Nella nostra lingua parliamo spesso della voce di un albero, della voce del vento. È perlopiù simbolico. Ma penso che queste immagini siano comunque importanti. Parlarne così è importante.
H.: Stiamo arrivando a un punto in cui, se vogliamo approfondire questo discorso, dobbiamo necessariamente farlo attraverso l’arte. È lì che ci dobbiamo concentrare.
M.K.: Credo di sì. Credo che si debba andare in quella direzione. Deve essere l’arte.
H.: Perché?
M.K.: È la cosa più vicina a un linguaggio che abbiamo e che conosciamo. La musica è un linguaggio libero dalla semantica.
H.: Non credo che ci sia nulla di simile alla musica in questo senso. La musica è molto vicina al pensiero.